I governi degli eserciti che per due decenni hanno presidiato il campo afghano hanno chiuso, con le ambasciate, le porte della diplomazia. Probabilmente oggi più che mai, invece, ci sarebbe un gran bisogno di essere lì. A trattare, a negoziare il possibile e magari qualcosa in più, a tenere un varco aperto per poter dialogare dopo. Tre parole magiche, tre verbi che, in tragedie di questa portata, sono solite fare la sostanza di un intervento politico vero. Quel che ci sarebbe da fare subito serve a proteggere le persone, ad aiutare chi è minacciato, a limitare almeno lo scorrere del sangue. E invece no, le ambasciate sono chiuse. Per parlare ci si affida a Zoom. Buona parte della potenza mediatica italiana non sembra capace di reagire meglio: pare ancorata alla ricerca affannosa degli scantinati più bui da cui far emergere voci angosciate che ci strappino una lacrima; alla ricerca di una fiammella che possa divampare in un fuoco che incendia la prateria e la prima pagina. Anche l’informazione, scrive Emanuele Giordana sul manifesto, ha le sue responsabilità: siamo stati colti di sorpresa da una realtà che ci ha stupiti e sopraffatti non meno di politici e generali

Ha ragione Lakhdar Brahimi, veterano delle Nazioni unite, che ieri ha detto ad Al Jazeera che l’Onu dovrebbe intensificare gli sforzi diplomatici in Afghanistan: «È tempo – ha detto – di diplomazia». Mentre il dibattito sembra vertere invece solo sulla fuga da Kabul e sulla cattiveria della guerriglia in turbante, riappare la politica e quella parola magica che ne presuppone altre: negoziato, trattativa, dialogo. Ha ragione Lakhdar Brahimi. Ma è solo. O meglio, se l’Onu ha comunque già deciso di non abbandonare il Paese, i governi degli eserciti che per due decenni han presidiato il campo afghano hanno invece chiuso, con le ambasciate, le porte della diplomazia.
ANZICHÉ ESSERE DOVE ORA si dovrebbe trattare, negoziare, accompagnare, le ambasciate occidentali si sono trasferite a casa come se anche il lavoro politico si potesse fare via zoom. In Afghanistan la pandemia si chiamava, oltreché Covid, anche “guerra” e per gestirne la sua (apparente) fine sarebbe necessario essere lì, non certo dall’altra parte del pianeta.
Aiutare chi si sente minacciato è un dovere etico oltreché un atto di solidarietà dovuto ed è dunque necessario che, come da più parti si chiede, il ponte aereo vada avanti sino alla finestra del 31 agosto (che pare sia stata garantita da chi comanda a Kabul) imbarcando tutte le persone in serio pericolo le cui liste sono state inviate al ministero degli Esteri e della Difesa. Ma terminata questa missione emergenziale quanto essenziale, che non può chiaramente svuotare l’Afghanistan dagli afghani ma solo garantire un porto sicuro a chi potrebbe rischiare la vita, è necessario che la politica e non la logica dell’emergenza prenda il sopravvento.
DI QUESTA POLITICA e dei ragionamenti conseguenti per ora non si è vista l’ombra né nelle dichiarazioni di Draghi, né in quelle dei ministri del suo governo. Non ci sembra che si stia guardando – come d’abitudine – oltre il cortile di casa, concentrandosi al massimo sulle polemiche che già arrivano contro i sindaci che aprono le porte delle loro città ai profughi. O al massimo rimproverando a Di Maio l’ombrellone pugliese. Nessuno che gli abbia chiesto di parlare del futuro.
Politica significa – come ha scritto Luciana Castellina due giorni fa – anche dialogare col nemico. Come dice anche Brahimi: trattare, negoziare, dialogare.
Tre verbi che la società civile italiana ha sempre tentato, inascoltata, di coniugare sin dall’inizio della sciagurata campagna del 2001. Tanto le premeva allora una soluzione negoziata alla guerra, che in questi giorni già si va formando un gruppo di persone che di questo discute: finiti i sacrosanti ponti aerei, come si gestirà l’emergenza umanitaria? E, durante quella, cosa faremo per garantire che le conquiste della società civile afghana non vadano perse? Cosa faremo per sostenere chi è rimasto anche correndo seri rischi? Come potremo garantire che chi arriva ora in Italia possa tornare in sicurezza a casa propria (un sacro diritto, non un becero rimpatrio forzato)?

SEBBENE SIA INCREDIBILE che lo sfascio di una guerra debba essere quantomeno analizzato soprattutto da chi l’ha sempre condannata come soluzione – peraltro in linea col dettato costituzionale – questo è ciò che nei prossimi giorni faranno le persone convinte che le soluzioni si trovano solo quando vengono cercate. E senza aspettare il buffetto del padrino di turno. In attesa che il nostro governo si pronunci e con lui un parlamento che le vacanze tengono silente, salvo rari e molto apprezzati casi, cercheremo di fare la nostra parte.
Tutto ciò ha bisogno di un quadro sereno e non solo in Afghanistan. Il fuggi fuggi e la sindrome di Saigon – che si è comprensibilmente impossessata degli afghani – sembrano aver contagiato anche noi e reso piatto anche l’encefalogramma del pensiero nazionale che di solito elargisce pillole di saggezza. Buona parte della stampa italiana sembra infatti ancorata alla ricerca affannosa degli scantinati più bui da cui far emergere voci angosciate che ci strappino una lacrima; alla ricerca di una fiammella che possa divampare in un fuoco che incendia la prateria e la prima pagina.
LE TRE MAGICHE PAROLINE: trattativa, negoziato, dialogo faticano a spuntare ma qualcuno ci prova. Se ne discuta anche animatamente e senza nascondersi le responsabilità collettive, tanto meno quelle di noi giornalisti, colti di sorpresa da una realtà che ci ha stupiti e sopraffatti non meno di politici e generali.
Fonte: il manifesto
E’ sempre bello leggere le parole di un decano del giornalismo internazionale italiano come Emanuele Giordana, che ho seguito per tanti anni. Tuttavia, qualche perplessità sul chi queste trattative dovrebbe condurle sorge. Non certo il ragazzotto democristiano che occupa la sedia del nostro Ministero degli Esteri, e tanto meno il personale politico che lo accompagna. Forse sarebbe meglio discutere una volta per tutte la nostra condizione di paese occupato (da ben settantacinque anni), che non ci consente di avere una nostra politica estera autonoma. E quindi incominciare a prendere le distanze da questo avventurismo guerriero da epigoni dei padri pellegrini, questa politica del caos che è solo funzionale agli interessi statunitensi (Libia docet). In Afghanistan le truppe occidentali non ci sono finite per caso: si è condotta lì una guerra per occupare, non per liberare. Infine, l’incontro di ieri fra il capo dell CIA e il portavoce dei Taleabani, incontro confermato ormai dalle agenzie di stampa, avrà avuto il tono di un incontro di vecchi compagni di scuola: gli “studenti” con il turbane sono usciti dal cilindro dei think tank di Fort Langley. Insomma, sarà forse anche ora di allontanarsi da questi signori, o no?
L’ora di “allontanarsi da questi signori” è suonata da tempo.
Il problema è “come” ci si allontana.
La “politica del caos che è solo funzionale agli interessi statunitensi” è stata assecondata dall’assenza di una politica europea, quando [anni 80 e 90] si sarebbe potuta prevenire la progressiva presa di potere de Il diseducatore globale.
Il problema, quindi, è che … [cito]
è molto … difficile per chiunque capire e far capire che il mondo brucia e che per salvarlo e salvarsi, ciascuno e soprattutto chi è già in lotta per difendere il proprio diritto a un’esistenza dignitosa, deve farsi partecipe anche della progettazione e della messa in opera di una produzione, di un’economia e di una società completamente diverse.”