di Massimo Alberti*
I “casermoni” del Morandi li vedi svettare subito arrivando in auto dalla Prenestina, bianchi e ingrigiti dallo smog, perchè restano rialzati su una collinetta, separati dal resto di Tor Sapienza. Periferia nella periferia. Dal quartiere fondato da un ferroviere antifascista, alle pietre contro il centro rifugiati al grido di “negri di merda, vi bruciamo tutti”: a metterla così lascia sgomenti l’evoluzione di Tor Sapienza. Per tentare di capire cosa è successo nel mezzo nel poco tempo di un solo giorno, dobbiamo prima di tutto liberare la testa da giorni di bombardamento dei media che raccontano una realtà che mette i brividi; o almeno provarci, perchè per tutti è difficile non farsi condizionare almeno un po’ da titoli come “Inferno capitale. Tor Sapienza in fiamme”.
Invece no, Tor Sapienza non è un’anomalia: la sua è una storia simile a quella di tante altre periferie italiane, in particolare nelle grandi città: “Le periferie di roma, più di ogni altro quartiere della città, stanno anticipando l’italia che verrà” ha scritto Adriana Goni Mazzitelli su Comune. Insomma, problemi accumulati negli anni con politiche scriteriate delle amministrazioni pubbliche, che lasciano a se stesso un quartiere trasformandolo nel simbolo di un conflitto che si scarica nella direzione sbagliata.
Il territorio
Tor Sapienza però, è anche un quartiere ricco di un tessuto sociale che resiste, fatto di decine di associazioni attive sul territorio, frutto di una storia di partecipazione che nei giorni dello scontro è stata messa dolosamente nell’ombra, e che ha il suo cuore proprio nel complesso di casa popolari di via Morandi.
Nicola Marcucci è una delle memorie storiche del quartiere: attivo nei comitati, nelle amministrazioni, a ottantuno anni è ancora battagliero. Il suo è un lucido fiume di parole, tra l’orgoglio per quello che a Tor Sapienza è stato costruito, e la rabbia per ciò che è ora. Lui il quartiere lo ha visto nascere e crescere. Il verde, gli spazi comuni, le case popolari. Un quartiere operaio, il benessere diffuso dell’industrializzazione, la solidarietà e il mutualismo operaio fanno il resto per costruire il tessuto sociale. Almeno fino agli anni Ottanta.
“Qui c’è una matrice antifascista e antirazzista”, rivendica Marcucci, ma poi arrivano i cambiamenti: i negozi che spariscono, i servizi che saltano, le fabbriche che chiudono. La politica che si dimentica di un quartiere e un’epoca che ormai è cancellata: oggi a Tor Sapienza la disoccupazione giovanile è al 70 per cento. Alessia è mamma di cinque figli che vivono qui, ma sognano di andare a Londra, a fare i camerieri: “Capisci? Il cameriere a Londra. Vorrei che restassero qui a far qualcosa per il loro quartiere, ma devono avere qualcosa in cambio, una prospettiva o almeno una speranza per il futuro”.
I ragazzi del quartiere
“Guardiamoci in faccia: qui il reddito te lo dà lo spaccio”: il problema lo consoscono bene Remo e Cristina, operatori dell’associazione Antropos. Lavorano con i ragazzi del quartiere: dai compiti alle attività ricreative, li tengono lontani dalla strada oppure cercano di abitarla in modo diverso.
Ma anche la vita di tutti i giorni non è facile, perrchè di spazi aggregativi non ce ne sono, e Roma è la stessa città solo sulla cartina. “Un’ora e mezza di autobus, sempre che passi, e se non hai la macchina non vai da nessuna parte”. In mezzo al complesso Morandi il verde non manca “ma lo curano i cittadini”, chiarisce Cristina, e già dopo le 16, quando cala il buio, girare tra gli edifici è inquietante, più che altro perchè è raro trovare una luce che funzioni. Vicino ci sarebbe anche un parco, ma l’erba è alta perchè nessuno la taglia e di fatto è inaccessibile. E poi i due campi rom, un centro profughi da oltre quattrocento ospiti, unito a edifici fatiscenti sporadicamente oggetto di occupazioni da persone in stato di necessità: situazioni di difficoltà e disagio economico a cui negli anni ne vengono stratificate altre. Una follia, che infatti arriva ad esplodere. La domanda non è perché è esplosa Tor Sapienza ma come è riuscita a non farlo finora.
Il centro profughi di Morandi, in fondo, è forse l’ultimo dei problemi: “Noi non siamo il degrado: non possiamo negare che anche il nostro centro possa aggiungere diasagio in un contesto come questo, ma paghiamo problemi non nostri”, dice Selene, una delle operatrici del centro. Ospiti ed operatori ci hanno vissuto barricati per giorni: gli ex uffici riadattati a centro profughi sono separati, transennati, fisicamente divisi dal quartiere anche se distano dieci metri, giusto una strada da attraversare. Protetto dalla polizia, i vetri rotti dalle pietre ancora lì, a ricordare quello che è successo. Nessuno entra ed esce senza passare dai controlli. Gabriella, una delle responsabili della cooperativa “Un sorriso”, al bar ci va scortata dalla polizia.
Il centro di Morandi in fondo è stato questo, la goccia che ha fatto traboccare il vaso: le strade buie, le case popolari fatiscienti “dove c’è l’amianto e crollano i cornicioni”, raccontano le mamme. L’autobus che non passa, la difficile convivenza con la diversità in un contesto in cui a disagi – anzichè risolverli – si è aggiunto altro disagio. Una polveriera pronta ad esplodere. L’innesco sono un paio di episodi di criminalità attribuiti agli ospiti del centro.
Vetri rotti
E’ qui che si arriva al paradosso, perchè il “problema” diventa anche la soluzione. Le notti di violenza, le molotov, i vetri rotti. Tor Sapienza finisce sotto l’attenzione mediatica e anche la politica e l’amministrazione comunale si ricordano che esiste. Il sindaco Marino ci mette un po’ di giorni ad arrivare nel quartiere e prendere una scontata dose di fischi. Incontra i comitati, promette di fatto lo svuotamento del centro che dovrebbe restare solo per donne e bambini, cioè quelli che al momento non ci sono. Ed ecco che per magia nel giro di due giorni arrivano gli operai che sistemano le luci e tagliano l’erba, tagliano i rami secchi degli alberi che danno sulla strada. “Speriamo che almeno la violenza sia servita”, dicono in tanti nel quartiere.
Il problema vero e drammatico, che lascia questa vicenda, è proprio questo: le persone che a Tor Sapienza hanno vissuto l’esperienza di quei giorni, hanno imparato che quella pare essere l’unica lingua compresa da chi dovrebbe occuparsi di loro. La violenza contro l’ultimo, il più debole, il capro espiatorio appunto. E’ questo che spaventa e preoccupa Cristina e Remo di Antropos: “E’ più facile prendertela con chi sta sotto che con chi sta sopra… Poi i ragazzi sono amareggiati, però io che gli spiego? Ti rispondono che con gli scontri il risultato lo hanno portato a casa…
Il messaggio che arriva è questo: basta qualche giorno di teatrino e vengono a tagliarti le piante: ma ti rendi conto?” Siamo evidentemente lontani dal risolvere la questione, per metterci una toppa è bastato sacrificare qualche decina di profughi: certo capro espiatorio degli uni, ma comoda vittima sacrificale di chi amministra.
La politica
Anche perchè qui la politica è qualcosa di ormai lontano, e il malessere è trasversale. Borghezio, Meloni, i 5 stelle… al Morandi nessuno è stato accolto col tappeto rosso. Nel centro culturale “Morandi a colori” alle 5 del pomeriggio, si ritrovano alcune donne del quartiere per la lezione di Zumba. Loro a votare – raccontano – non ci vanno ormai da anni. Un anziano signore che è lì con loro inizia a lamentarsi “che ci sono troppi zingari, troppi extracomunitari, che così non si va avanti”, e lo dice mentre distribuisce i volantini di Rifondazione Comunista. Parliamoci altrettanto chiaro: a Tor Sapienza c’è stato chi ci ha marciato o almeno ci ha provato, come i pezzi di destra più o meno estrema, più o meno visibile. Ma spiegare tutto mettendo delle etichette – sono stati i razzisti, sono stati i fascisti – magari è tranquillizzante, ma non solo non spiega ciò che è accaduto a Tor Sapienza e al Morandi, ma non aiuta neppure a chiarire le responsabilità che hanno portato a questa situazione.
Un tassello in più lo aggiunge un incontro con alcune delle numerose realtà che lavorano nel quartiere: spazi autogestiti, una rete di associazionismo e un tessuto sociale che cerca di tenere vive le relazioni. Le incontro nel Centro culturale Morandi a colori: siamo proprio nel mezzo del complesso delle case popolari.
Cerco di provocare Carlo Gori, il presidente di Morandi a Colori: siete il cuore del quartiere, o siete in mezzo ad un assedio? “La percezione può cambiare – risponde Carlo – certo il nostro lavoro da fastidio a qualcuno, che in questi giorni era in strada a protestare, ma ciò che facciamo è una ricchezza che ci viene riconosciuta”. Alcune mamme presenti confermano. Qui l’etichetta che è passata, “il quartiere razzista”, proprio non piace. Melania Nicoli Salvati, avvocato dello stato per lavoro, presidente dell’associazione del volontariato cattolico di Tor Sapienza, non accetta che il quartiere venga raccontato solo per la violenza. “Andiamo nei campi rom, negli edifici dova trova riparo chi non ha un posto dove stare… Assistiamo i minori, abbiamo creato una casa famiglia per le donne vittime di violenza. Sai chi ci ha aiutato? Nessuno. Facciamo tutto da soli, le istituzioni non si fanno vedere”.
Vi rendete conto?
Il fatto di sentirsi soli, di denunciare da anni – inascoltati – i problemi di cui soffre il quartiere è quello che fa più arrabbiare. “Le istituzioni sono arrivate solo quando la violenza si è presa la scena, perchè quella fa più rumore” continua Melania, in un duro atto d’accusa condiviso da Alfredo, che coordina l’agenzia di quartiere, rete che riunisce oltre venti associazioni: “I progetti per ridurre l’impatto sociale delle emergenze, non mancano. Quello che manca è l’intervento pubblico”, un macigno per chi lavora ogni giorno per un quartiere migliore.
Fiore all’occhiello è il progetto di rigenerazione urbana sostenibile chiamato Re-Block, la parte italiana del progetto europeo Urbact, una proposta complessiva di riqualificazione del quartiere che partiva proprio da una dettagliata relazione sullo stato del quartiere Tor Sapienza. La conosceva Bruxelles, la conoceva il governo, la conosceva il Comune di Roma. Da mesi. “Nessuna risposta, niente, lettera morta: fossimo partiti mesi fa, forse non saremmo arrivati a questo” dice sconsolato Alfredo.
Risuonuano le parole di Remo: “Io che gli spiego ai ragazzi? Basta qualche giorno di scontri contro gli stranieri e loro vedono che il comune viene a tagliarti le piante... E’ un messaggio devastante, ma ti endi conto?” Ecco: vi rendete conto?. Già, ci rendiamo conto?
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Il reportage audio completo, con e voci dei protagonisti, lo trovate alla pagina degli speciali di Radio Popolare a questo link
*giornalista di Radio Popolare
DA LEGGERE
Quando la periferia di una città sembra voler esplodere, invece di fare promesse, invocare repressioni o cercare compromessi, sarebbe bene cercare di conoscerne la storia. Noi ci abbiamo provato
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