Chi sa qualcosa lo insegna agli altri. Ci sono principi bizzarri, poco amati al tempo della competizione ossessiva di qualsiasi ambito della vita di ogni giorno, che tuttavia a volte trovano dimora in classi e realtà educative. Del resto l’impostazione mutualistica dell’insegnamento tra ragazzi è stata coltivata da molti, da don Milani a Pestalozzi e Montessori e in tante scuole e doposcuola popolari. Si tratta di essere consapevoli che si apprende più dai compagni che dagli insegnanti non solo per mettere in discussione il mito della lezione frontale che permea ancora tanta didattica italiana, ma anche per immaginare una società meno verticale. Si può cominciare anche chiedendo a quelli che riescono a mettersi le scarpe da soli di aiutare chi non riesce, il fermento che nasce sorprenderà molti… La scuola come comunità di apprendimento fatto di mutuo sostegno e di domande, dove si impara soprattutto facendo, nella quale si sbaglia e ci si diverte e in cui sono protagonisti ogni giorno bambini e ragazzi sono i temi di Cambiare la scuola si può (Bur), il libro di Daniele Novara dedicato a insegnanti, educatori e genitori, di cui pubblichiamo alcune pagine

di Daniele Novara*
UN PO’ DI STORIA: LE SCUOLE DI MUTUO INSEGNAMENTO
Nel 1975 frequentavo la quinta liceo e, assieme ad altri studenti, iniziai un’esperienza pedagogica che per me fu molto importante: si organizzava, in un quartiere popolare di Piacenza, un doposcuola. Fu in quell’occasione che mi imbattei nella famosissima esperienza di Barbiana e, in particolar modo, nella Lettera a una professoressa.
Erano passati pochi anni dalla pubblicazione di quel documento e, anche se ormai don Milani era morto, l’eco di Barbiana era ancora fortissimo e in tanti ci ispiravamo a quella importante esperienza. Mi colpiva soprattutto un aspetto metodologico di Barbiana: l’impostazione mutualistica dell’insegnamento tra i ragazzi. Chi sapeva qualcosa lo insegnava ai compagni, in una condivisione che mi ha sempre affascinato e che ho trovato il tratto pedagogico più caratteristico di quel la esperienza.
Così, quando arrivò il momento di scrivere la mia tesi di laurea, scelsi di ricostruire la storia e le caratteristiche delle scuole di mutuo insegnamento. Ne esistono tracce fin dall’antichità, nella cultura greca, romana e persino ebraica. In Italia scuole del genere si diffusero agli inizi dell’Ottocento, ma già dal Cinquecento alcune congregazioni religiose particolarmente sensibili, che si occupavano di impartire un’istruzione elementare alle classi più popolari, utilizzavano gli studenti più preparati per formare i principianti, anche perché disponevano di pochi insegnanti.
Fu solo agli inizi dell’Ottocento che questi sporadici tentativi si trasformarono in un metodo vero e proprio, che si diffuse in tutta l’Europa. I primi ideatori di un sistema di istruzione elementare basato sul mutuo o reciproco insegnamento furono gli inglesi Andrew Bell e Joseph Lancaster.
A breve distanza di tempo l’uno dall’altro progettarono, organizzarono e diressero scuole popolari fondate sul principio del vicendevole insegnamento tra gli alunni: si proponevano di alfabetizzare bambini e ragazzi in tempi molto rapidi, attraverso una metodica per alcuni aspetti piuttosto meccanica, ma per altri davvero originale. Prevedevano gruppi classe formati da circa dieci alunni, di competenze omogenee, organizzati in una struttura gerarchica dal meno al più bravo e coordinati da un unico maestro che insegna va i fondamenti affiancato da «monitori». I monitori erano proprio gli studenti che si erano distinti per capacità di apprendimento nel proprio gruppo: svolgevano, di volta in volta, il ruolo di insegnanti per tutti gli altri. In questo modo, con un unico maestro si riusci vano a gestire in contemporanea anche centinaia di studenti e, se il metodo funzionava come previsto, un numero davvero significativo di alunni imparava l’essenziale dell’alfabetizzazione in poco tempo. Le materie erano quelle della formazione di base, cioè leggere, scrivere e far di conto. Tanti i pregi: le scuole di mutuo insegnamento costavano poco, non richiedevano spazi e materiali complessi o costosi e quindi potevano sopravvivere grazie al finanziamento di pochi benefattori; permettevano di apprendere in tempi ridotti perché attivavano processi di emulazione; stimolavano la motivazione (diventare monitori era un traguardo ambito e chiunque poteva riuscirci); infine, per questo, vincevano le resistenze delle classi più povere che contavano sulle braccia dei figli per la sopravvivenza familiare.
Le scuole di mutuo insegnamento non erano mosse da intenti rivoluzionari, non si proponevano di diffondere il sapere tra le classi meno abbienti per sovvertire l’ordine costituito. Più semplicemente si rendevano conto che la società, dopo la Rivoluzione francese e sotto l’impulso napoleonico, stava cambiando, e servivano competenze più diffuse. Nato in un periodo di grande fermento politico ed economico per l’Europa, il metodo si mantenne anche durante la Restaurazione del 1815, specialmente presso quei circoli e governi liberali che per seguivano l’educazione degli strati più popolari della società. Era un mezzo di educazione progressista, avanzata, che discendeva dalle riflessioni di pedagogisti illustri, da JeanJacques Rousseau ad alcuni dei suoi allievi più o meno importanti come Johann Heinrich Pestalozzi e Grégoire Girard.
Già allora i pionieri del metodo puntarono su due interessanti elementi psicologici: le dinamiche di emulazione, il desiderio cioè di stare al passo con i compagni tirando fuori le proprie risorse, e il fatto che insegnare agli altri permette di migliorare il bagaglio di conoscenze. C’è un antico detto che afferma: «Se vuoi sapere qualcosa, leggila. Se vuoi capire qualcosa, scrivila. Se vuoi imparare qualcosa, insegnala», quasi a sottolineare che l’apprendimento sostanziale si realizza proprio nel momento in cui si cerca di insegnare qualcosa a qualcuno. È utilizzato qualche volta per prendere in giro la figura del maestro un po’ retorico e pedante, scherzando sul fatto che «chi sa, fa, e chi non sa insegna». Ma il potere dell’apprendere insegnando e il ruolo che giocano i processi di imitazione ed emulazione dal punto di vista cognitivo non vanno sottovalutati, e la storia dell’educazione ci mostra il potenziale di esperienze scolastiche che hanno permesso alle generazioni passate di trovare nella condivisione un beneficio concreto, rendendo possibile a chiunque di imparare a leggere e scrivere.
SI IMPARA PIÙ DAI COMPAGNI CHE DAGLI INSEGNANTI
L’idea che gli alunni imparino dalle parole dei docenti è un equivoco: il mito della lezione frontale che permea ancora tanta didattica italiana, di cui parlerò nei prossimi capitoli, è legato a una particolare evoluzione storica, non certo a fattori cognitivi. Resta comunque diffusa l’idea della centralità della spiegazione, di quel momento in cui il docente, secondo una sorta di cerimoniale scolastico, inizia a parlare. La trasmissione del sapere, quell’effluvio verbale al quale è consegnato l’apprendimento, sospende il tempo e lo spazio e si trasforma in un rito, un atto fondativo dell’istituzione scolastica.
Ma si tratta appunto di un rito, non di un’azione consapevole e professionale, né di una ricerca di efficacia per l’apprendimento degli alunni. Spesso e volentieri è il perpetuarsi di una convenzione, che si tramanda nelle aule da tempi immemorabili.
Oggi il caso più evidente, che dimostra l’inefficacia della spiegazione, è quello dei bambini alle prese con una lingua straniera. Un’esperienza comune a molti insegnanti della scuola primaria è l’enorme trasformazione linguistica che investe i bambini stranieri, i quali spesso, appena arrivati nel nostro Paese, non conoscono affatto l’italiano.
Racconta la maestra Tiziana:
Nel giro di una settimana
Ricordo Maya, una bambina ecuadoriana arrivata in Italia in seconda elementare. Il primo giorno di scuola sapeva dire a malapena il suo nome, era molto spaesata, e i suoi grandi occhi neri mi guardavano pieni di domande. L’ho subito fatta sedere accanto a una bimba molto chiacchierona. Nel giro di una settimana già conosceva i nomi di tutti i compagni, del materiale scolastico e di alcuni cibi. Ho cercato di fare meno spiegazioni possibili e mi sono concentrata sul lavoro a piccoli gruppi, in modo da lasciare Maya il più possibile con gli altri bimbi. Di sicuro, la voglia di fare come gli altri e di comunicare ha permesso alla bambina di assorbire tutto e velocemente, imparando i fondamenti della lingua italiana in pochissimo tempo.
Esattamente come affermava Maria Montessori:
«Gli insegnanti sono incapaci di far capire a un bambino di tre anni una quantità di cose che un bambino di cinque gli sa far benissimo intendere: vi è fra loro una naturale osmosi mentale».
Gli alunni, più che dagli adulti, imparano dai coetanei. È il compagno, specialmente quello con una competenza leggermente superiore, che attiva l’imitazione, permettendo ai bambini di riconoscersi in quello che è il loro potenziale di sviluppo: osservo un compagno che è in grado di disegnare un elefante e riconosco nella sua competenza anche un mio potenziale. Ci provo, magari sbagliando, e alla fine ci riesco. Diversamente può accadere che le competenze adulte siano troppo distanti dalle capacità cognitive infantili: il bambino cerca di adeguarsi, ma non impara.
Racconta Vanja, maestra in una scuola dell’infanzia:
Ti metto le scarpe
Una mattina, quasi all’inizio di quest’anno scolastico, un bambino si toglie le scarpe e cammina felice per la sezione, sperimentando l’angolo morbido. Una compagna se ne accorge e subito viene a dircelo. Cogliamo l’occasione e comunichiamo a tutti i bambini che togliersi le scarpe non è vietato: stabiliamo alcune regole base (le scarpe si possono togliere e vanno allineate vicino al muro sotto al cartellone dell’albero autunnale), e praticamente tutti i bambini si tolgono le scarpe sperimentando in vario modo quella libertà. Arrivato il momento del bagno, prima del pranzo, invitiamo tutti i bambini a rimettersi le scarpe. Uno di loro va in crisi e inizia a piangere lamentandosi di non esserne capace. La tensione si scioglie non appena chiedo a quelli che riescono a mettersi le scarpe da soli di aiutare chi non riesce. Immediatamente il disperato si siede sul divanetto e aspetta. In poco tempo si crea un gran fermento: alcuni bambini aiutano, indirizzano, spiegano ai loro amici come fare a mettersi da soli le scarpe, quali strategie usare per capire quale sia la scarpa giusta per il piede destro e per il piede sinistro. Per diversi giorni, in modo spontaneo, si sono aiutati, e ora tutti si mettono le scarpe da soli.
La vicinanza cognitiva fra coetanei o compagni poco più grandi favorisce l’apprendimento. Viceversa, il mito della magistralità sacrifica la vera comprensione in funzione della lectio, della bravura adulta nel disporre i contenuti. Però il cervello in età evolutiva opera diversamente, come racconta la maestra Eleonora:
La divisione
Un anno, in terza, ricordo di aver spiegato la divisione in un sacco di modi diversi, nel tentativo di trovare la strategia più adatta a chi non riusciva a coglierne la logica. Un giorno, dopo l’ennesima spiegazione, mi guardavano ancora con gli occhi sgranati e la bocca aperta, perplessi… Allora ho detto: «Provateci voi, mettetevi in gruppetti e lavorate». Si sono organizzati in un batter d’occhio. Ogni gruppo ha cercato la strategia che potesse aiutarlo meglio: chi contava con le dita, chi cercava sul libro… un bambino ha proposto di usare lo scatolone dei Lego. Alla fine ce l’hanno fatta. Ogni bambino ha collaborato con i compagni dando il contributo che poteva, provando e riprovando, e chi ha imparato per primo l’ha poi spiegato a chi non aveva ancora capito… stavolta davanti ai miei occhi stupiti
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