Le donne sono la maggioranza delle vittime civili in guerra e la maggioranza dei profughi. In gran parte delle guerre gli stupri di massa sono usati come vera arma. Ma lo stupro è anche arma di pace: non solo la violenza di genere è comune nei tempi di pace, ma da quando esistono le cosiddette forze di pace internazionali, vi è una regolarità inquietante di violenze, stupri, prostituzione forzata, sfruttamento e ricatti sessuali esercitati dai “portatori di pace”. Secondo l’Onu, nel solo periodo tra il 2008 e il 2013 i Caschi blu si sono resi responsabili di almeno 480 casi di sfruttamento e violenze sessuali, un terzo dei quali ai danni di ragazze. Non si tratta certo di abbracciare un discorso vittimista nei confronti delle donne, ricordano Mariella Bernardini e Selva Varengo, ma di far emergere le radici storiche delle guerre, che risiedono nell’ordine simbolico patriarcale. La guerra è intrinseca al sistema patriarcale: non si può pensare di sconfiggerla senza sciogliere il nodo del patriarcato, spesso introiettato anche dalle soggettività oppresse
È evidente come la cultura dominante sia una cultura gerarchica di guerra e di violenza in cui la militarizzazione è presente in ogni ambito, siamo in un mondo in guerra anche se alla guerra si danno nomi che la negano come “missioni di pace” o “interventi umanitari”. Sicuramente le cause scatenanti delle guerre sono sempre le stesse ciniche ed eterne ragioni di interesse economico e politico, ma le radici storiche delle guerre risiedono nell’ordine simbolico patriarcale ovvero nella costruzione storica dei modi di essere donne e uomini, imperniata ovunque sul binarismo di genere, sulla gerarchizzazione, sull’affermazione di una virilità aggressiva che legittima socialmente la violenza contro le donne e i soggetti altri, codificando il potere di un solo genere, trasformando l’altr@ in nemico e portando a percepire come necessario e giusto l’ordine materiale e mentale della guerra.
La guerra rende così ancor più evidente – se mai ce ne fosse bisogno – l’incapacità, intrinseca alla cultura patriarcale, di accettare l’esistenza nel mondo dell’altr@, del diverso da sé, di più soggetti dialoganti fra loro, sottomettendo tutte le soggettività che non siano maschi bianchi eterosessuali perfettamente inseriti nella logica dominante. Questa incapacità di elaborare positivamente il rapporto con l’altr@ è uno dei nodi cruciali del nostro tempo fatto di particolarismi, nazionalismi, integralismi, separatismi, in cui la violenza di genere è il sintomo dell’incapacità maschile di guardare in faccia l’altr@ senza sottometterla.
Nazionalismo e sessismo
Le frontiere, come dovrebbe essere noto, rappresentano un’astratta imposizione e il nazionalismo, dietro la cui arcaica mitologia si continuano a trascinare interi paesi in guerra, rappresenta in realtà la costruzione più originaria di un ordine patriarcale e universale, fondato storicamente sull’esclusione del femminile e sulla differenziazione rigida dei ruoli sessuali. La costruzione dell’identità nazionale è da sempre organizzata attraverso un modello di società ordinata in ruoli differenziati di classe, di appartenenza etnica e di sesso in uno stretto intreccio fra patriarcato e nazionalismo, fra etnia e genere.
Basti ricordare l’ossessione demografica, tipicamente nazionalista, della supremazia del proprio popolo affermata attraverso lo strumento della riproduzione, cosicché il primo dovere delle donne nella nazione è la maternità. Non a caso Mussolini sosteneva che “la guerra sta all’uomo come la maternità sta alla donna”. Per non parlare del silenzio assordante sulle numerosissime violenze di genere commesse durante il colonialismo, italiano e non solo: d’altronde, da quando esistono le guerre, i corpi delle donne sono sempre stati “bottino di guerra” e, come vedremo, guerra e stupro sono un binomio inscindibile, in ogni tempo e a ogni latitudine.
Razzismo e sessismo
Il militarismo viene spesso giustificato sulla pelle delle donne e in particolare le politiche securitarie del nuovo millennio trovano largo consenso grazie a una fantomatica esigenza di protezione delle donne da salvaguardare dalle cosiddette “invasioni barbariche” dei flussi migratori. La violenza di genere è utilizzata come dispositivo per agitare allarmi sociali, per giustificare provvedimenti repressivi, per riprodurre retoriche emergenziali e allo stesso tempo per costruire un ordine sociale eteronormativo, in un rinnovato nesso tra sessismo e razzismo. È infatti evidente la tendenza a strumentalizzare i crimini di genere, purché commessi da altri, per compiacere gli umori collettivi più malsani e varare misure legislative di stampo razzista-securitario (operazioni speciali, stati d’emergenza, videosorveglianza, pattuglie, esercito nelle strade, etc.), rappresentando al contempo le donne come vittime incapaci della propria autodifesa, come corpi la cui tutela spetta all’uomo e allo Stato.
In realtà la violenza maschile non conosce differenze di classe, etnia, cultura, religione o appartenenza politica: lo stupro è ovunque trasversale. La violenza di genere continua a essere trattata come devianza di singoli o come responsabilità da addossare alla nazionalità degli aggressori, mentre in realtà essa è strutturata all’interno della società e della famiglia. Ricordiamoci che lo stupro non ha nulla a che fare col desiderio sessuale e che la violenza di genere è sempre uno strumento di potere funzionale a mantenere il dominio storico di un genere sull’altro.
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È significativo notare come il fenomeno, persistente e strutturale, delle violenze sessuali compiute da cittadini italiani, talvolta in divisa, non suscita alcun allarme pubblico. Per fare solo un esempio recentissimo, pensiamo ai numerosi casi di molestie e violenze prontamente denunciate da NonUnadiMeno durante l’ultima adunata nazionale degli Alpini a Trento nel maggio 2018. Si continua a far finta di non vedere che in Italia, così come nel resto del mondo, la maggior parte delle violenze maschili sulle donne si consuma nell’ambito di relazioni di prossimità, in ambienti intimi, familiari e amicali: l’aggressività maschile è la prima causa di morte e di invalidità permanente per le donne in tutto il mondo.
Mentre le donne conquistano margini crescenti di libertà, autonomia e consapevolezza, i meccanismi strutturali della discriminazione di genere non mutano; anzi, proprio la conquista di quei margini di autonomia incrementa frustrazione e rancore nei confronti delle donne in una buona parte del mondo maschile, attraversato sempre più dalla crisi della virilità tradizionale. Lo stupro come arma di guerra In contesti di guerra la violenza di genere si amplifica ancor di più. È importante ricordare che le donne rappresentano la maggioranza delle vittime civili in guerra e la maggioranza dei profughi, sia prima, sia durante e persino dopo ogni conflitto. Inoltre le donne – e spesso sono bambine – in contesti di guerra (ma non solo), subiscono spesso abusi, schiavitù sessuale, prostituzione forzata, stupri, mutilazioni dei genitali, gravidanze forzate e ogni tipo di violazione dei loro corpi e delle loro volontà, tutte azioni volte a colpire deliberatamente ed in forma specifica la vita, i corpi e la libertà delle donne.
In particolare lo stupro, elemento chiaramente strutturale della società patriarcale, si salda con il discorso nazionalista e militarista, diventando violenza razionale e scientifica, affermandosi come vero e proprio strumento di guerra tramite il quale il corpo delle donne diventa ancora di più il terreno su cui affermare il proprio dominio assoluto.
Molte volte gli stupri di massa sono stati usati come vera e propria arma bellica per costruire, da un lato, odio e separazione netta fra gruppi umani, dall’altro, per inscrivere nei corpi delle donne “altrui” il segno del disonore prodotto dal seme del vincitore, saccheggiando i corpi femminili da sempre considerati proprietà esclusiva del maschio. Pensiamo alla pulizia etnica nella ex Jugoslavia, ma anche al Burundi o al Ruanda dove solo nel 1994 duecentocinquantamila donne hanno subito violenza sessuale e tra di loro il 70 per cento ha contratto l’Hiv con conseguenze quasi sempre mortali, alla Palestina e all’uso politico della violenza di genere da parte del governo di Erdoğan in Kurdistan.
È importante notare come lo stupro accompagni tutte le guerre e come esso non sia da considerarsi, come spesso avviene, una deplorevole ma inevitabile conseguenza secondaria della guerra. Lo stupro in guerra rappresenta “un atto consueto con una scusante consueta”, tanto che persino una risoluzione delle Nazioni Unite ha dovuto riconoscere che lo stupro costituisce una vera e propria tattica di guerra. Sono almeno 41 i Paesi dove sono avvenuti stupri di guerra a partire dalla Seconda guerra mondiale, ma la lista ovviamente è ancora aperta alle continue violenze sessuali che stanno accadendo a tutt’oggi nei conflitti armati in atto.In tutto ciò, un ruolo significativo è svolto della Chiesa cattolica che da sempre costringe le donne a maternità forzate condannando l’aborto anche in caso di stupro: per la Chiesa infatti neanche in caso di stupro di guerra è lecito abortire. Papa Wojtyla ad esempio ha intimato di non abortire alle trentamila donne bosniache stuprate durante la “pulizia etnica” sostenendo che lo stupro etnico non fa eccezione alla regola della Chiesa per la quale l’aborto è sempre e comunque l’uccisione di una vita innocente, così come ribadito ancora recentemente da papa Bergoglio.
Lo stupro come arma di pace
Lo stupro però non si configura purtroppo solo come arma di guerra ma anche come arma di pace, e in un duplice senso. Anzitutto la violenza di genere è – come purtroppo sappiamo – decisamente comune anche nei cosiddetti tempi di pace; in secondo luogo perché, da quando esistono le forze cosiddette di pace internazionali, vi è una regolarità allarmante di violenze, stupri, prostituzione forzata, sfruttamento e ricatti sessuali esercitati dai cosiddetti “portatori di pace”. Per fare alcuni esempi, limitandoci agli anni Duemila, violenze da parte dei Caschi Blu si sono registrate in Eritrea, Burundi, Liberia, Guinea, Sierra Leone, Haiti, Repubblica Democratica del Congo, Costa d’Avorio, Benin, Sud Sudan, Repubblica Centroafricana e Somalia.
Secondo un’indagine delle stesse Nazioni Unite, nel solo periodo tra il 2008 e il 2013 i Caschi blu si sono resi responsabili di almeno quattrocentoottanta casi di sfruttamento e violenze sessuali, un terzo dei quali ai danni di minori. È necessario ricordare poi come la violenza sessuale e lo stupro siano una costante nelle zone militarizzate intorno alle basi, anche in contesti relativamente pacifici. Molto noto è il caso della base statunitense a Okinawa in Giappone, ma questo avviene ovunque vi sia una base militare, come ad esempio a Vicenza. A ciò si accompagna lo sviluppo di una sorta di “industria del sesso” nelle vicinanze delle basi dove il ricatto e la violenza sessuale sono costantemente all’ordine del giorno.
Lo stupro infine segna purtroppo, ogni giorno, anche il percorso di molte delle donne migranti in fuga dalle guerre. A tal proposito è significativo ricordare come la Convenzione di Ginevra non preveda nulla in materia di asilo politico per i maltrattamenti alle donne. L’Unione Europea, così falsamente ricca di parole e documenti sui diritti delle donne, è totalmente sorda di fronte a una donna migrante alla ricerca di asilo perché costretta a fuggire dalla violenza e dalle minacce alla sua libertà; anzi numerosi sono i casi di stupro all’interno dei centri di detenzione per migranti e molti i ricatti sessuali da parte degli operatori umanitari, civili e militari, nei campi profughi. Solo nel 2017 e solo in Inghilterra 120 operatori delle più grandi Ong sono stati accusati di molestie sessuali. Proprio a fine luglio 2018 il Parlamento britannico, in un suo rapporto, ha dovuto ammettere come gli abusi sessuali su donne e bambine da parte di cooperanti di moltissime Ong internazionali siano “endemici”, noti da tempo e coperti dalla complicità di numerosissime organizzazioni che operano nel campo degli aiuti umanitari.
Conclusioni
Per concludere, ci teniamo a sottolineare come il nostro non voglia essere in alcun modo un discorso vittimista nei confronti delle donne, riteniamo però che, dal momento che la guerra è intrinseca al sistema patriarcale, non si può pensare di sconfiggerla senza sciogliere il nodo del patriarcato che sopravvive – in modi diversi ma sempre distruttivi – in tutte le società e le religioni, e che purtroppo è stato spesso introiettato anche dalle soggettività oppresse. Le stesse donne talvolta si appropriano dei valori patriarcali più brutali: pensiamo ad esempio alla recente presentazione delle prime donne celerine o alle ormai numerose donne nell’esercito dimentiche che è stato dimostrato come per una donna soldato il rischio di essere assaltata in missione da un proprio commilitone sia molto più alto della probabilità di essere uccisa dal nemico in battaglia.
La decostruzione del patriarcato è radice del femminismo e per questo motivo è imprescindibile e necessaria una riflessione femminista (e transfemminista) su militarismo, razzismo e nazionalismo in grado di contribuire ad elaborare un diverso orizzonte. Il movimento femminista e libertario ha origine proprio nel riconoscersi come fondato sulla relazione con l’altr@, nella solidarietà e nella giustizia sociale, in una visione basata non sulla sopraffazione ma sull’equilibrio tra gli opposti. In questo modo è possibile forse trovare strumenti nuovi alla ricomposizione dei conflitti, accettando l’esistenza dell’altr@ nella sua irriducibile diversità in modo da sciogliere il nodo del militarismo.
Dal momento che la militarizzazione si riflette anche nella separazione rigida tra i ruoli sessuali in cui le donne sono viste spesso come madri, immagini della cura e della salvaguardia della vita, e gli uomini come guerrieri e strateghi della distruzione, è necessario “smilitarizzare” le menti, nelle relazioni personali così come nello spazio pubblico. Le discriminazioni, come sappiamo, non viaggiano mai da sole: razzismo, militarismo e sessismo sono facce diverse della stessa medaglia.
Il cambiamento deve perciò partire certamente da un sovvertimento radicale della società, con una lotta aperta alle disuguaglianze che risolva definitivamente la questione sociale. Ma la rivoluzione sociale, in senso anarchico e libertario, deve accompagnarsi, sin dall’inizio, con un cambiamento profondo dell’habitus mentale, prendendo coscienza della necessità di presa di parola da parte delle donne e di tutte le soggettività oppresse dal momento che l’autodeterminazione e la libertà sono gli unici strumenti validi per combattere dalle radici sia la violenza di genere sia il militarismo insito nella società etero-patriarcale. È necessario quindi cambiare la struttura sociale e il rapporto tra i sessi, non dimenticando l’importanza di una riflessione – da parte di tutte e tutti – su significati e ruoli imposti dalle contraddizioni di genere.
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Pubblicato anche su umanitanova.org
Marianella Sclavi dice
“Questa incapacità di elaborare positivamente il rapporto con l’altr@ è uno dei nodi cruciali del nostro tempo (…) in cui la violenza di genere è il sintomo dell’incapacità maschile di guardare in faccia l’altr@ senza sottometterla.” IL contrario di questa violenza strutturale è la gestione creativa dei conflitti, sulla quale anche il femminismo classico è carente. E non capisco come mai.
Caa dice
Kafka scrisse che “la guerra è il fallimento dell’immaginazione”, vale a dire non avere la capacità di vedere se stesso nell altra o altro. Io mi sono sempre chiesta come un uomo, quando decide di fare violenza su una donna, o peggio, una bambina, non pensi alle donne che fanno parte della sua famiglia: moglie madre figlia. Vorrei tanto che i maschi ci pensassero per tante cose dell esistenza. Grazie