“Immaginiamoci/Storie e racconti per immagini” nasce dall’esigenza di accompagnare le persone migranti a raccontarsi attraverso l’uso delle immagini che ognuno porta con sé, nel proprio cellulare, nel proprio cuore, nei propri ricordi. Un laboratorio di cinque incontri ognuno realizzato in due SAI della Calabria, Gioiosa Ionica e Cinquefrondi, due progetti di accoglienza con una lunga storia virtuosa di inclusione sociale gestiti da Recosol e dalla coop. Sankara che ospitano persone adulte e famiglie.
Attraverso le immagini è più facile permettere alle persone di parlare di sé – cosa solitamente difficile a chi ha un vissuto di complicato alle spalle -, con le immagini si possono descrivere profumi, sapori, recuperare ricordi, stimolare la curiosità verso i Paesi di origine, dimostrare perciò interesse verso il mondo che queste persone hanno lasciato per arrivare da noi. Le immagini ci hanno raccontato di pietanze, piatti tipici impossibili da riprodurre in Italia ma certamente gustosi, luoghi incantevoli di risaie, pianure, montagne e deserti ma anche di lunghi cammini e di traversate pericolose. Mancano le foto dei soggiorni in Libia o in altri lager dato che chi vi è incappato, ha perso tutto: trattati peggio delle bestie gli hanno sottratto documenti, soldi, cellulare. Non sono mancati però anche scoppi di risate nel raccontare episodi avvenuti “a casa” e momenti di commozione e orgoglio nel mostrare le immagini dei familiari lontani.
Piccole gemme preziose, attimi di vita che abbattono differenze di ruoli e di status, operatori e nuovi cittadini si sono potuti scambiare in questo modo esperienze, ricordi. A Cinquefrondi il laboratorio si svolgeva nella Mediateca comunale ed era aperto a tutti e in uno di questi incontri in cui si parlava di cibi e pietanze è nata la proposta di organizzare una cena a base di lasagne, su richiesta di una famiglia afghana. La cucina italiana generalmente non suscita l’interesse degli stranieri ospiti dei progetti, essendo così lontana dalle loro abitudini alimentari con qualche eccezione per la pizza, il gelato e i cornetti. Eppoi la pasta, elemento principe non è ben vista: non la si trova in natura, è un prodotto industriale, serve una fabbrica per farla e questo è già un forte elemento discriminante e poco comprensibile, soprattutto per chi viene dall’Africa. Ma le lasagne sono altra cosa, ricordano vagamente alcune pietanze dell’Est e si possono fare in casa. Dato che erano presenti alcune signore del luogo, è stata avviata immediatamente la macchina organizzativa: fissata la data, trovata la sede, avvertito il sindaco. Un fuori programma che alla fine ha coinvolto quasi l’intero paese e il risultato è stato strabiliante: una cena sociale con cibi tipici della tradizione calabrese e ovviamente con lasagne fatte in casa. Alla fine dei laboratori sono state raccolte oltre cento foto che sono state esposte la prima volta nel cortile del comune di Gioiosa Ionica suddivise per temi: il paese di origine, la famiglia e gli affetti, i sapori di casa, il viaggio, il presente con le foto orgogliosamente esposte degli autori, i veri protagonisti della mostra che hanno collaborato anche all’allestimento, alla scelta dei pannelli e alla loro collocazione cronologica.
Qui alcuni racconti dei partecipanti al laboratorio (i nomi sono stati cambiati e non è stato specificato il luogo dove sono state raccolte le testimonianze).
“Non volevo venire in Europa”, l’idea era di andare in Libia, “lì c’è lavoro” dicevano. E così, appena recuperati i soldi del viaggio – due voli, prima per Dubai e poi per Il Cairo – Arshad ha trovato un passaggio per la Libia. Sa fare tutto con le mani e lavorare non lo spaventava, anzi. L’idea di realizzare un po’ di denaro per costruire una casa per la sua famiglia, lo elettrizzava. Voleva farla lui, mattone dopo mattone. Una volta ricavato un gruzzolo sufficiente, avrebbe persino potuto pensare di trovarsi una fidanzata e mettere su famiglia. In Bangladesh non aveva avuto fortuna, lavoro non ce n’era e la miseria in cui viveva, lui e la sua famiglia, lo ha costretto a partire. Del suo Paese amava tutto, dai cibi, speziati e gustosi, alle risaie e le ninfee… sì, le ninfee. Tra le cose che più ricorda con nostalgia ci sono le distese acquatiche colorate di ninfee di cui ci mostra delle foto: uno spettacolo unico, meraviglioso. Arrivato in Libia, carico di buona volontà, è stato sequestrato da una banda di “mafiosi” locali che lo hanno prima segregato, privandolo dei documenti e del cellulare, e poi costretto a lavorare per loro. Di quel periodo non parla volentieri, abbassa gli occhi e si ammutolisce. Un periodo nero fatto di privazioni, umiliazioni e molestie ripetute, questo è certo. Alcuni suoi connazionali, anche loro incappati nella rete di aguzzini senza scrupoli, lo hanno raccontato senza entrare nei particolari. Non era necessario, gli sguardi parlavano chiaro e alla fine l’importante è che siano usciti da quella trappola infernale seppur portandone ferite fisiche e psicologiche evidenti. Sono giunti in Italia costretti dai loro stessi aguzzini che, dopo averli sfruttati, hanno chiesto un riscatto ai loro familiari per “liberarli”. Chi ha pagato tremila euro, chi cinquemila. Le famiglie hanno ricevuto le immagini di loro imprigionati e torturati e sono stati costretti ad indebitarsi per “liberarli”. Spediti su gommoni semi sgonfi, sono arrivati in Italia. Arshad e i suoi connazionali vivono ora in un paese del sud Italia dove sono stati accolti in un SAI, non hanno un buon rapporto con il mare, il solo vederlo li spaventa. Stanno imparando l’italiano e pensano al futuro. Spesso chi emigra e affronta un viaggio simile in realtà non ha sogni nel cassetto. Tutti hanno lo stesso desiderio: sognano di potersi muovere liberamente su questo pianeta, viaggiare e rivedere i propri cari. Arshad pensa sempre alla casa che vuole costruire per i suoi cari, avere un lavoro – qualsiasi – ci tiene a dirlo, che gli permetta di vivere e poter fare progetti di vita. Gli piacerebbe vivere in un luogo dove la pratica che la sua religione gli impone, possa essere comune, qui in Italia vive in solitudine i rituali quotidiani e questo è motivo di grande tristezza per lui.
Anche Musa, ragazzo ventenne della Sierra Leone, non voleva venire in Europa. È partito dal suo Paese che aveva poco più di sedici anni. A casa aveva avuto problemi con alcuni connazionali, è cresciuto, poverissimo, con una zia e non aveva conosciuto suo padre e sua madre. Giovanissimo si era ammalato e dopo un lungo periodo di malattia aveva deciso di andarsene. È partito a piedi da Freetown, ha attraversato la Guinea, il Mali per giungere in Algeria dove sperava di lavorare, di costruirsi una vita propria. Anche qui, giovane senza esperienza, è stato subito intercettato da mafiosi locali per i quali è stato costretto a lavorare per due anni. Poi la fuga in Marocco, sempre a piedi o con mezzi di fortuna, dove è rimasto per diversi mesi e poi attraverso l’Algeria è arrivato in Tunisia. Sperava di fermarsi lì, si trovava bene, aveva anche iniziato a lavorare e aveva incontrato una ragazza nigeriana di cui si è innamorato e con la quale ha avuto un bambino. Una sera, rientrando dal lavoro, è stato catturato in una retata della polizia e portato in carcere. Sembra che in Tunisia siano frequenti le retate di “neri” che dopo essere stati arrestati e schedati non possono più lavorare e sono costretti perciò a partire. Privato dei suoi pochi soldi, del cellulare e dei documenti e in più con un bimbo appena nato, Musa non aveva altra scelta che andarsene. Riesce a partire con la famiglia aiutato da alcuni compagni di cella e grazie a un tunisino che – invece di prendere denaro – gli ha permesso di collaborare alla costruzione della piccola imbarcazione con la quale raggiunge, straordinariamente incolume – l’isola di Lampedusa. In Italia cerca di orientarsi in questo nuovo contesto, ben diverso dalla Sierra Leone e da tutti gli altri posti dove è stato e transitato in questi ultimi anni. Quattro in tutto, una vita, per un ragazzo partito adolescente e ritrovatosi padre di famiglia. “Bello avere acqua e luce in casa” dice. Il resto è così strano. Nel luogo dove vive manca un centro vero e proprio, un punto di aggregazione dove le persone si incontrano e si parlano, è questa la cosa che rileva per prima, quella che gli sembra veramente “strana”. “Qui si vive in casa, isolati”, lui, abituato al clima e alla vita del suo Paese, si sente un po’ a disagio, eppure è felice di avercela fatta e spera di poter studiare e viaggiare. Del suo Paese rimpiange la bellezza, il sole, i profumi e la cucina. Ha tenuto una lezione sul Crain crain, una pianta dall’aspetto simile allo spinacio che è molto usata nella cucina della Sierra Leone, gli brillavano gli occhi mentre ci descriveva alcune ricette. Musa non ha chiaro perché il suo Paese sia così povero, perché la maggior parte della gente – circa il 60 per cento della popolazione – viva in condizioni di indigenza essendo un Paese dove si estraggono diamanti, ferro, bauxite. Non lo sapeva neanche. Ha preso la sua condizione come un dato di fatto, senza porsi domande, senza cercare risposte. Lui come molti – troppi altri – ha semplicemente capito che per sopravvivere doveva andarsene. Il modello a cui aspira è quello occidentale senza sapere che proprio quel mondo è la causa della sua condizione. La storia della Sierra Leone è legata alla tratta degli schiavi, al colonialismo arrogante e violento dell’Inghilterra e della Francia, eventi a noi ben noti. Musa però, nonostante il suo viaggio che vale un’intera esistenza, resta un ragazzo, un ragazzo che vuole qualcosa di più dalla vita. Sappiamo ora che senza avvertire, lui e la sua famigliola si sono rimessi in viaggio, hanno lasciato il progetto SAI dove erano stati inseriti. Probabilmente sperano di trovare opportunità migliori, non immagina cosa significhi oggi uscire da un progetto di accoglienza in Italia, come vivono i migranti da noi. Chi lavora nell’accoglienza conosce bene queste situazioni eppure ogni volta è un lutto, una sconfitta.
Due storie tra le tante di viaggi interminabili, torture nei lager libici, nei campi profughi in Turchia – finanziati dall’Europa – o nelle carceri della Tunisia – Paese riconosciuto dall’Italia e dall’Europa come “sicuro” -, respingimenti violenti delle polizie lungo la rotta balcanica più volte denunciati e documentati da associazioni e testate giornalistiche, eppure ogni singolo racconto incrementa il quadro orribile di questa storia di migrazioni perché ogni persona ha un suo vissuto, a volte lungo anche anni, di sofferenza, di abusi e stupri, di ingiustizie impunite. Esseri umani in cammino senza colpe ridotti a pedine di un gioco al massacro. Assurdo e terribile pensare che chi riesce a raccontarlo è comunque un fortunato, uno che ce l’ha fatta. Guardano solo avanti, quello che è accaduto prima di giungere al sicuro è il passato, un passaggio necessario per raggiungere una meta e alla fine a loro è andata bene, questo conta. Non c’è rancore e rabbia per le umiliazioni subite, solo ricordi tristi di un passato che non gli appartiene più, inshallah.
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