Due persone ogni tre soffrono oggi nel mondo di problemi seri legati a malnutrizione, denutrizione, eccesso di peso oppure obesità. Non è un problema generato solo dalle carestie africane o dalla dieta trash statunitense, nessun paese europeo è in condizioni di autosufficienza alimentare e gravissime sono le disuguaglianze sia a livello globale che dentro i singoli paesi. Lo spreco alimentare è un disastro ormai noto ma non riguarda solo il cibo che diventa rifiuto. In una definizione socio-ecologica vanno considerate anche altre forme di spreco, meno intuitive: la sovralimentazione oltre i fabbisogni dietetici raccomandati, la perdita di singoli nutrienti fondamentali, gli usi non alimentari di prodotti commestibili per l’uomo (come i biocombustibili), le perdite nette insite nell’alimentazione e nell’accrescimento degli animali allevati con prodotti commestibili, le perdite che avvengono prima dei raccolti e dei prelievi. Gli enormi effetti ambientali associati allo spreco alimentare derivano soprattutto dalle fasi di produzione del cibo, in particolar modo ciò avviene nei modelli intensivi, industriali e finanziarizzati. Dobbiamo riqualificare la produzione e prevenire le eccedenze. Nello studio Spreco alimentare. Approccio sistemico e prevenzione strutturale sono analizzate le connessioni più rilevanti tra sistemi alimentari e altri temi fondamentali

di Giulio Vulcano*
I sistemi alimentari sono alla base e condizionano tutte le attività umane. Le attuali strutture agroalimentari industriali sono la principale causa del superamento dei limiti planetari di stabilità e resilienza socio-ecologica; ciò sta mettendo a rischio la sopravvivenza della specie umana. Sono il primo fattore di superamento del limite nell’alterazione della biodiversità su cui si basa il resto della vita sul Pianeta (70% dell’impatto totale; distruzione di habitat ed ecosistemi, estinzione di specie animali e vegetali), così come per l’alterazione dei cicli di azoto-fosforo-potassio (100% del totale; inquinamento di acque e suoli con fertilizzanti) e per il consumo del suolo naturale (60% del totale; deforestazione); tra le prime cause dei cambiamenti climatici (30% del totale; emissioni serra da allevamenti intensivi e fertilizzazione), dell’eccessivo consumo di energia e risorse minerali non rinnovabili, così come dell’inquinamento da chimica di sintesi (pesticidi); la prima nell’avvicinamento al limite nel consumo di acqua (65% del totale; irrigazione). La dieta alimentare è di gran lunga il primo fattore globale di rischio sanitario. Globalmente due persone su tre soffrono di seri problemi nutrizionali legati alla dieta (denutrizione, malnutrizione, sovrappeso, obesità). Nessun paese europeo è in condizioni di autosufficienza alimentare e gravissime sono le disuguaglianze sia a livello globale che all’interno dei singoli paesi. Ci stiamo letteralmente divorando la terra sotto i piedi.
Nello studio Spreco alimentare. Approccio sistemico e prevenzione strutturale, pubblicato in parte anche come Rapporto tecnico dall’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), sono analizzate le connessioni più rilevanti tra sistemi alimentari e altri temi fondamentali. L’obiettivo è sviluppare una visione d’insieme socio-ecologica che tuteli la compenetrazione di ambiente e società, delineando un’economia che si svolga entro questi limiti. In questa concezione sono interrelate la sicurezza e la sovranità alimentare, la bioeconomia, lo sviluppo territoriale, gli impatti ambientali ed ecologici. Secondo questo approccio in un sistema alimentare lo spreco è la parte di produzione che eccede i fabbisogni nutrizionali raccomandati oppure le capacità di rigenerazione e assorbimento degli ecosistemi. Lo “spreco alimentare sistemico” è quindi un meta indicatore della (dis)funzionalità dei sistemi alimentari. La ricerca presenta quindi un complesso di proposte per affrontare questa questione strategica con una trasformazione strutturale complessiva.
Normalmente quando si parla di spreco alimentare si pensa ai rifiuti alimentari generati per la perdita di prodotti lungo le filiere dalla produzione al consumo. In una definizione socio-ecologica vanno però considerate anche altre forme di spreco, meno intuitive. Queste comprendono la sovralimentazione oltre i fabbisogni dietetici raccomandati, la perdita di singoli nutrienti fondamentali, gli usi non alimentari di prodotti commestibili per l’uomo (es.: biocombustibili), le perdite nette insite nell’alimentazione e accrescimento degli animali allevati con prodotti commestibili, le perdite che avvengono prima dei raccolti e dei prelievi.
Così considerato lo spreco nei sistemi alimentari risulta il fattore chiave di crisi nel superamento dei limiti ecologici e sociali del Pianeta. Già solo i rifiuti alimentari rappresentano un terzo della produzione mondiale iniziale in massa (un quarto in calorie) e in Italia verosimilmente circa metà della massa o il 40% delle calorie. Elaborando i dati sistemici si scopre che nel mondo lo spreco è in aumento fino ad almeno il 44% delle calorie prodotte, considerando rifiuti, sovralimentazione e allevamenti (o addirittura all’85% considerando tutti i tipi di spreco), almeno il 50% in massa e il 66% in proteine. A ciò si associa un’impronta ecologica che consuma almeno il 32% delle risorse naturali generate ogni anno (biocapacità). In Italia si arriva ad almeno il 63% di spreco consumando almeno il 50% delle risorse, in buona parte generate altrove (si pensi all’importazione massiccia di grano, soia, mais per i mangimi oppure all’olio di palma).
Gli enormi effetti ambientali associati allo spreco alimentare derivano soprattutto dalle fasi di produzione del cibo ancor più che dalla fase di smaltimento dei rifiuti alimentari. In particolar modo ciò avviene nei modelli intensivi, industriali e finanziarizzati. Questo è uno dei motivi fondamentali per cui concentrare l’attenzione sulla riqualificazione produttiva e sulla prevenzione delle eccedenze. Infatti analizzando i dati medi globali emerge che la principale causa di spreco è la sovrapproduzione di eccedenze: a ogni incremento di fabbisogno (+0.1%) corrisponde un aumento ben maggiore di offerte e consumi (+1,0% circa), innescando quindi incrementi giganteschi di eccedenze sprecate (+3,2%). Viceversa dove produzione e forniture calano, anche gli sprechi scendono. L’andamento medio nasconde l’aumento delle condizioni nutrizionali estreme e delle patologie connesse, ovvero di chi soffre la fame (ora nuovamente più di 820 milioni), di chi è in sovrappeso (eccesso calorico e deficit di alcuni nutrienti: quasi 2 miliardi, di cui 600 milioni obesi, predisposti a patologie cardiovascolari, epatiche, diabetiche, ecc.) o di chi è soggetto a diversi altri tipi di malnutrizione (sufficienti calorie, ma insufficienti o eccessivi nutrienti: circa 2 miliardi predisposti a tumori, osteoporosi, tiroidismi, anemie, disturbi gastrointestinali, ecc.). Questa spirale disfunzionale sarà alimentata anche dagli effetti delle crisi ecologica e climatica che porteranno a diminuzioni delle produzioni alimentari e ad un accesso più difficile alle risorse, creando ancor più povertà, instabilità sociale, guerre e migrazioni. Siamo ormai prossimi a superare tutte le soglie di irreversibilità oltre le quali le devastazioni ecologiche e sociali saranno imprevedibili e incontrollabili.
I livelli di spreco sono caratteristici della struttura di ogni modello alimentare. I modelli economici e culturali di sovrapproduzione agro-industriale di eccedenze sono fondati su enorme impiego di energia a costo relativamente basso (per lo più da fonti fossili), di sostanze chimiche di sintesi, finanziarizzazione, commerci internazionali, concentrazione dei mercati, uniformazione degli standard estetici, colli di bottiglia con grandi operatori che condizionano i piccoli fornitori e i consumatori, illeciti criminali nelle filiere, occultamento dei costi ambientali e sociali (basso prezzo, bassa qualità del cibo, enormi impatti ambientali, pessime condizioni di lavoro). Mentre la riduzione dei rifiuti alimentari è diventata un interesse dell’agroindustria che punta a rendere più efficienti, circolari e convenienti i suoi processi, d’altra parte lo spreco alimentare sistemico si rivela un fenomeno irrinunciabile per la sopravvivenza del modello economico liberista. Un modello che ha allontanato sempre più i luoghi di produzione dai luoghi del consumo, disconnettendo le persone fisicamente, economicamente e cognitivamente dal cibo e dai processi connessi (materiali, psicologici, antropologici, culturali). La filiera è sempre più lunga e fuori controllo, presenta perdite a ogni passaggio.
I modelli agroindustriali finanziarizzati determinano forti oscillazioni dei prezzi alimentari e delle risorse primarie sui mercati globali. In linea generale i sistemi agroindustriali determinano tendenzialmente l’abbassamento relativo dei prezzi alimentari al consumo nei paesi sviluppati favorendo così l’aumento dello spreco soprattutto nella fase di consumo finale, ma anche nella produzione primaria per asimmetrie commerciali. Parallelamente i sistemi agroindustriali rinforzati dallo spreco da sovrapproduzione, tramite la globalizzazione e il controllo dei mercati, portano all’aumento relativo dei prezzi alimentari al consumo in quei paesi in via di sviluppo che dipendono dalle esportazioni o dalle importazioni, favorendo vulnerabilità e crisi socio-economiche. Questo modello genera sia perdite in campo (per difficoltà economiche di accesso dei cittadini ai prodotti) che insicurezza alimentare, oltre a sottrarre preziose risorse naturali e distribuire impatti ambientali locali e globali. Supporti base di una civilizzazione fondata sul colonialismo e l’imperialismo.
Le evidenze scientifiche dimostrano che per garantire la tutela ambientale e l’equa sicurezza sociale dei sistemi agroalimentari è indispensabile perseguire l’autosufficienza delle persone e dei territori (che in Italia potrebbe essere solo al 55%) nonché la loro cooperazione. Va smontata la retorica che propugna come necessari ulteriori aumenti di produzione per sfamare la popolazione mondiale in crescita, a base di nuove tecnologie proprietarie che distruggono ecosistemi e società (ingegneria genetica, agricoltura di precisione, ecc.). Ciò passa in Italia dalla riduzione del consumo e abbandono di suolo agricolo e rurale, dalla rinaturalizzazione dei suoli artificializzati, dalla riconversione della produzione verso metodi agroecologici diversificati ed estensivi. Si tratta quindi di applicare all’agricoltura i principi scientifici dell’ecologia e valorizzare le istanze sociali e politiche di chi lotta per la “sovranità alimentare”. Valorizzando l’agrobiodiversità (varietà locali e tradizionali, miglioramenti partecipativi) queste pratiche riducono gli impatti ambientali, si adattano meglio ai cambiamenti ambientali, ridanno centralità a contadini e popolazioni locali, producono in modo durevole più nutrienti. A parità di risorse usate l’agricoltura ecologica di piccola scala genera 2-4 volte meno sprechi e più produzione rispetto ai sistemi agroindustriali, consumando in totale molte meno risorse. Le migliori prestazioni produttive emergono già nel medio periodo e si consolidano nel lungo periodo. A scala globale l’agricoltura di piccola scala produce circa il 70% del totale avendo a disposizione solo il 25% delle terre. Per permettere questa trasformazione è perciò necessario in parallelo ridurre in modo strutturale le varie forme di spreco alimentare. Si pensi che le perdite nette insite nell’alimentazione e accrescimento degli allevamenti animali sono la componente maggiore di spreco: circa il 40% di tutta la produzione iniziale commestibile da cui derivano i consumi alimentari in Italia. Inoltre nel mondo un 10-15% della produzione primaria edibile va ad usi non alimentari. Per tornare all’interno delle capacità naturali di sostentamento bisogna ridurre il fabbisogno totale della popolazione (anche con pianificazioni familiari condivise e assistenza/educazione sanitaria sessuale/riproduttiva), ridurre la sovraofferta commerciale e il sovraconsumo, favorire diete con più prodotti vegetali, meno derivati animali, prodotti ipercalorici e iperprocessati (zuccheri, sali, grassi insalubri). Meno quantità e più qualità quindi.

Studiando le strutture delle filiere e i colli di bottiglia che vi si creano, la ricerca individua come in quelle corte, regionali e biologiche (vendita diretta in azienda, nei mercati e negozi degli agricoltori, a domicilio) i rifiuti alimentari prodotti siano mediamente 3 volte inferiori rispetto ai sistemi convenzionali. Nei casi di innovazione che vengono dalla società civile, fondati su produzioni agroecologiche locali e reti solidali tra contadini e consumatori (gruppi di acquisto solidale GAS, agricolture supportate da comunità CSA) i rifiuti possono essere in media 8 volte inferiori. Chi si approvvigiona solo con reti alternative spreca in media un decimo di chi si rifornisce presso la grande distribuzione organizzata. Metodi agroecologici e minor produzione di rifiuti alimentari implicano minori effetti ambientali associati a queste filiere. Complessivamente poi le prestazioni ambientali e sociali dei sistemi alimentari alternativi sono molto più efficaci nel raggiungere obiettivi di resilienza socio-ecologica. Le reti solidali agiscono positivamente su tutti i fronti dello spreco: riducono le intermediazioni e i condizionamenti; coordinano meglio capacità naturali, produzione, consumo e fabbisogni; aumentano la consapevolezza dei soggetti; garantiscono valori equi e condivisi; gestiscono più efficacemente i pochi avanzi. Vanno incentivate e propagate le loro caratteristiche: resilienza, stabilità, durata, autosostenibilità, autonomia, diversificazione, autoregolazione, mutualismo, reciprocità. Ovviamente perché le prestazioni siano migliori e perché ci sia un reale ed efficace cambio strutturale dei sistemi alimentari è necessario che le quattro caratteristiche fondamentali dei sistemi alternativi siano presenti contemporaneamente: ecologici, solidali, locali e di piccola scala.
Sistemi alimentari industriali | Sistemi con filiere corte, locali, biologiche | Sistemi agroecologici locali, di piccola scala con reti solidali | |
Rifiuti alimentari (% della produzione) | 40 – 60 % | 15 – 25 % | 5 – 10 % |
Efficienza a parità di risorse impiegate (% rispetto ai sistemi industriali) | 100 % | 200 – 400 % | 400 – 1200 % |
Per risolvere il fenomeno ed evitare che si ripresenti le politiche ambientali e alimentari hanno a disposizione un complesso di misure strutturali di prevenzione trattate nello studio. I punti chiave sono molti, ma il più importante vede necessarie politiche alimentari olistiche e partecipate, che integrino più competenze settoriali (dalla scuola all’urbanistica) e più livelli territoriali (dal locale al globale): pianificazione di modelli alimentari sostenibili di produzione, distribuzione e consumo; acquisti pubblici verdi; educazione alimentare e nutrizionale; supporto alle reti alimentari locali, di piccola scala, ecologiche, solidali; tutela dell’agricoltura contadina e accesso alla terra; agroecologia in aree rurali e naturali, valorizzazione dell’agrobiodiversità; sviluppo dell’agricoltura sociale, urbana e in aree soggette ad abbandono; contrasto agli illeciti nell’agroalimentare (come lo sfruttamento dei lavoratori e la scarsa retribuzione dei piccoli produttori cui va meno del 20% del prezzo alimentare finale in Europa); approfondimenti sul campo delle ricerche; ruolo attivo dei cittadini nelle reti di comunità resilienti dal basso.
Possono inoltre svilupparsi bioeconomie del recupero (ambiti in cui l’Italia è all’avanguardia grazie alla Legge 166/2016), dell’efficienza e del riciclo. Nell’approccio d’insieme proposto queste attività impiegano in modo quasi-circolare (entropia permettendo) solo quantità “fisiologiche” di eccedenze prodotte dal territorio. Per tornare entro i limiti, la bioeconomia quasi-circolare dovrebbe quindi essere attività necessaria, ma secondaria rispetto alla prioritaria prevenzione della produzione di eccedenze, da realizzarsi con la riduzione dei consumi e la diffusione dell’economia solidale. È prima di tutto una questione ineludibile di fisica termodinamica. Così si eviterebbero effetti paradossali di “rimbalzo” che rendono necessarie maggiori eccedenze e consumi di risorse (anche non rinnovabili) per mantenere i nuovi processi bioeconomici, aumentando in quel modo gli effetti negativi ambientali e sociali. Entro certi vincoli, recupero, efficienza e riciclo delle eccedenze sono importanti per rendere più ciclica la bioeconomia, tamponare emergenze alimentari ed evitare problemi di smaltimento dei rifiuti.
Alla lunga però l’approccio all’insicurezza alimentare fondato sul recupero delle eccedenze crea forme di dipendenza e debito morale (assistenzialismo). È necessario piuttosto favorire lo sviluppo di capacità autonome e senso di responsabilità individuale per contribuire a costruire coesione sociale ed eliminare le condizioni di disuguaglianza. C’è anche il rischio che così si copra e ritardi lo sviluppo delle reti alimentari virtuose che prevengono eccedenze e sprechi. L’ennesima accelerazione dei flussi capitalisti di consumo, tramite nuove tecnologie e mercificazioni degli scarti recuperati/riciclati, non intacca i livelli di produzione, ma rende un po’ più efficiente il medesimo sistema permettendogli di espandersi e di estrarre maggior valore dalle risorse biologiche. Così si alimenta un metabolismo sempre più ipertrofico, dissipativo e malato. In definitiva si procrastina di poco il punto di collasso e se ne esaspera l’intensità. In questo senso quindi va decostruita l’enfasi eccessiva posta sull’economia cosiddetta circolare, fatta propria anche da ONG vicine ai movimenti dal basso.
In definitiva per ristabilire condizioni di sicurezza socio-ecologica gli sprechi sistemici in Italia dovrebbero essere prevenuti e ridotti fino ad almeno il 25% degli attuali. Il cibo sano ed ecologico va reso un diritto per tutti e un bene comune da tutelare, riconoscendogli maggior valore sociale, culturale ed economico, garantendo condizioni eque per chi lo produce e per chi vi accede. Vanno evitate mercificazioni e spettacolarizzazioni mediatiche in cui il cibo viene veicolato nella società come bene di status posizionale (food influencer, show cooking, chef stellati, food design, food porn, diete inventate, sfruttamento delle tipicità).
Le esperienze di Economia Solidale sono tra i modelli culturali ed etici di riferimento da sviluppare per la trasformazione radicale della società di cui abbiamo urgente necessità. Per questo sono essenziali interventi per evitare le dinamiche di condizionamento da parte del contesto macroeconomico e rendere accessibili le alternative ecologiche e solidali a una parte sempre più ampia della popolazione. Sono quindi prioritarie politiche economiche e culturali di sostegno e facilitazione per aumentare la diffusione di questo tipo di sistemi spostando i finanziamenti e i privilegi attualmente destinati, ad esempio, all’agroindustria, ai combustibili fossili, all’industria farmaceutica, alle speculazioni finanziarie, alle grandi opere infrastrutturali e insediative, alle mega piattaforme digitali, alle spese militari.
Per la progettazione e gestione delle reti solidali sarebbero utili studi specifici per analizzare i flussi alimentari territoriali (capacità ecologiche, fabbisogni, produzioni, consumi, impatti). Una legge quadro nazionale dovrebbe riconoscere in modo strutturale le iniziative di Economia Solidale e sostenerne lo sviluppo a livello locale, anche prendendo spunto da quanto già avviato da alcune amministrazioni territoriali. Dovrebbe essere prevista un’organizzazione a livello regionale con poli territoriali di cooperazione autonoma per progetti di sviluppo locale. Gli investimenti pubblici dovrebbero limitare l’influenza dei mercati internazionali e la volatilità dei prezzi di cibo, energia, terra e altre risorse. Gli adempimenti legali, le norme igieniche, le condizioni di accesso alla terra attuali vanno alleggerite per le piccole realtà locali, ecologiche, solidali. Così anche la formazione e la possibilità di cooperazione dei piccoli produttori vanno sostenute. Per sviluppare le filiere corte locali dei trasformati va incoraggiata la costituzione di unità collettive di trasformazione a piccola scala, ad esempio con il recupero di spazi industriali abbandonati. Gli acquisti pubblici verdi che prevedono criteri minimi ambientali/sociali (ristorazione collettiva) e i fondi europei per l’agricoltura e lo sviluppo rurale possono essere un volano di propagazione delle filiere corte, locali, biologiche.
Sarebbero utili investimenti istituzionali in progetti di Piccola Distribuzione Organizzata e nei Distretti di Economia Solidale. Oltre allo sviluppo di appositi mercati contadini e biologici va promosso l’accesso di queste produzioni ai mercati rionali nelle città, con incentivi alla riconversione di produttori e commercianti e la riprogettazione delle aree di vendita, con prodotti sfusi e distribuzione di cassette di prodotti freschi prefinanziati o ancora spazi dove sia possibile mescolare funzioni diverse, come socializzazione e apprendimento. Il sostegno alle reti civiche può manifestarsi anche in forma di messa a disposizione di spazi o strumentazione per la logistica, il trasporto, la conservazione, la trasformazione. Andrebbe inoltre finanziata la ricerca per sviluppare Sistemi di Garanzia Partecipata e permetterne la diffusione. L’educazione alimentare e i modelli dietetici e di acquisto sani e ecologici vanno promossi, così come la conoscenza civica dell’agricoltura ecologica, della lavorazione e conservazione degli alimenti. Le persone dovrebbero essere incoraggiate ad aggregarsi e formare reti con gli agricoltori, con borse di studio per consentire la partecipazione attiva. Per facilitare la partecipazione dei cittadini alle reti solidali possono essere utili anche orari di lavoro più brevi, un reddito di base, valute locali complementari, sistemi comunitari di scambio non monetario. La tassazione dovrebbe essere progressiva sulle merci, le rendite, i consumi e gli impatti ambientali e sociali piuttosto che sui salari. Per favorire l’impegno civico è importante ridurre e facilitare gli spostamenti casa-lavoro, casa-scuola, attrezzare e garantire spazi comunitari. Lo sviluppo di progetti partecipati rivolti al pubblico ampio potrebbe aiutare alcune reti solidali a uscire dalla tendenza verso l’autoreferenzialità e l’accentramento decisionale che ne bloccano il potenziale, allargando la base dei promotori attivi e distribuendo in modo più diffuso ed efficace le responsabilità. Per far ciò sarebbe utile intraprendere percorsi di formazione culturale e gestionale atti a facilitare i processi partecipativi.
Per garantire reale efficacia sociale ed ecologica, la scala di ogni sistema alimentare locale dovrebbe restare al di sotto di una certa soglia dimensionale. Ciò per evitare quell’effetto entropico di amplificazione esponenziale degli sprechi che avviene all’aumentare delle scale territoriali, economiche e sociali. L’ingrandimento (scaling up) dovrebbe piuttosto avvenire nella forma della replicazione orizzontale e della proliferazione diffusa (scaling out) di nuovi sistemi alimentari ecologici, locali, solidali e di piccola scala, diversificati e adattati in base alle specifiche caratteristiche territoriali.
Tutto questo dovrebbe inserirsi nella formazione di nuove organizzazioni democratiche libertarie fatte di reti di comunità locali autosostenibili che a scala globale cooperano tra loro in modo paritario, progettando e sperimentando innovazione sociale ed ecologica. Ciò potrebbe permettere di aumentare la resilienza dell’umanità di fronte ai gravissimi rischi con cui stiamo appena cominciando a fare i conti.
Ricerca integrale (i contenuti non impegnano ISPRA in nessun modo e ad alcun titolo)
Rapporto tecnico ISPRA
*È laureato in Scienze ambientali all’Università della Tuscia di Viterbo con una tesi sperimentale di analisi transdisciplinare e sviluppo locale. Si è occupato di verifiche dell’impatto ambientale delle grandi infrastrutture di mobilità presso l’agenzia ambientale della Toscana (ARPAT). Ha svolto l’attività professionale di Pianificatore territoriale abilitato e valutatore ambientale. Ha esperienza di educazione e formazione in campo ambientale. È ricercatore presso l’Istituto Superiore di Protezione e Ricerca Ambientale (ISPRA), dove ha maturato competenze nella Valutazione Ambientale Strategica (VAS) di piani e programmi, sia nelle metodologie tecnico-scientifiche che nei processi partecipativi e tecnico-amministrativi. Ha una lunga esperienza di reti e percorsi di innovazione sociale e ambientale dal basso (quali gruppi d’acquisto solidale e orti urbani condivisi). In ISPRA è ora impegnato nell’area per la conservazione di specie, habitat, ecosistemi e la gestione sostenibile del territorio e delle risorse agroforestali. Ha realizzato una ricerca complessa sulla questione dello spreco alimentare secondo un approccio sistemico finalizzato all’individuazione e all’attivazione di misure di prevenzione strutturale. È autore di pubblicazioni scientifiche e interventi a convegni. Il suo principale interesse di ricerca e azione è la tutela e la rigenerazione dei sistemi socio-ecologici congiunti.
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