Per Biden e la Nato, il regime turco di Erdogan è un alleato indispensabile che comporta però notevoli insidie nei molti scenari in cui si muove. Nell’ultimo vertice dell’Alleanza, al Sultano di Ankara è stato chiesto con fermezza di frenare il suo eccessivo “dinamismo” in Libia, Erdogan ha detto che comprende le esigenze geopolitiche ma che, come sempre, tutto ha un prezzo. La prima (ma non la sola) delle contropartite è “il pieno sostegno” richiesto alla Nato nella guerra infinita contro i “terroristi” del PKK e l’assicurazione di non essere disturbato nelle operazioni di letale “riordino” di tutta la regione kurda. Va da sè che una nutrita delegazione internazionale decisa a ficcare il naso nella repressione spietata del suo alleato Barzani nel Kurdistan iracheno, così come la richiesta di pace e di sospensione dell’invasione turca nel Rojava non fosse tollerabile. Di più: il rinnovo dell’accordo europeo sull’argine turco ai migranti della rotta balcanica e il fermo rifiuto di porre fine alla vendita di armi all’esercito turco, sponsorizzati in modo particolare dai governi tedesco e italiano, la dicono lunga sull’aiuto che la popolazione kurda, e il vasto movimento internazionale che la sostiene, possano aspettarsi dall’Unione Europea. «Nell’ultimo anno, le autorità della regione del Kurdistan iracheno hanno condotto un’incessante repressione nei confronti di giornalisti, attivisti e manifestanti che esercitano il loro diritto alla libertà di espressione, in particolare tramite arresti arbitrari e sparizioni forzate», denuncia Amnesty. Il grido disperato delle migliaia di persone innamorate della strenua resistenza del popolo kurdo e delle straordinarie esperienze di democrazia costruite in Rojava è di certo destinato a levarsi sempre più alto
In questo momento, a Erbil, nel Kurdistan iracheno, ci dovrebbe essere una delegazione internazionale per la pace e la libertà costituita da 150 persone, uomini e donne provenienti da 14/15 diversi paesi europei. L’idea della delegazione era soprattutto di mettere sotto gli occhi dei governi europei una nuova testimonianza diretta sull’orrore della campagna militare che la Turchia di Erdogan sta portando avanti nel Kurdistan iracheno.
Lo scopo dichiarato di questa guerra, mai raccontata abbastanza nei paesi alleati del regime di Erdogan (la Ue lo finanzia perché continui ad impedire l’esodo di chi fugge verso l’Europa e per la comune partecipazione alla Nato), è sempre lo stesso: annientare il PKK, il partito dei lavoratori curdo, che peraltro resta nella lista nera del Consiglio Europeo ed è ancora ritenuto un’«organizzazione a scopo terroristico». Tra bombardamenti e pressioni militari, nella “Regione del Kurdistan”, il nome ufficiale dell’entità federale autonoma dell’Irak, la Turchia si avvale della stretta collaborazione del partito maggioritario di Mas’ud Barzani, il Kurdistan Democratic Party (KDP). Il KDP, che governa a Erbil, si è unito in una coalizione con il Patriotic Union of Kurdistan (PUK), in maggioranza a Suleimani, controllato dal clan della famiglia Talabani che, con il clan dei Barzani, si è sempre conteso e/o spartito il controllo del territorio. Insieme ad altri partiti più piccoli, collaborano con il governo e formano oggi una forza unita di sostegno all’invasione turca, contro gli stessi curdi.
La delegazione della solidarietà internazionale doveva contare 150 persone tra universitari, persone impegnate in politica, attivist* etc. Ma la gran parte dei partecipanti non ha potuto raggiungere il Kurdistan iracheno. Ad almeno 27 persone è stato impedito di partire da Düsseldorf, in Germania. Anche a due catalani è stato impedito il decollo. Cinque italiani sono stati fermati negli aeroporti di Istambul e Doha e rispediti con la forza in Italia. Federico Venturini è stato costretto a tornare in Italia da Erbil (qui si può leggere la sua intervista concessa al rientro in Italia). Altri sono stati espulsi una volta arrivati in Irak, su ordine del Governo regionale del Kurdistan. Quale sia il fondamento giuridico delle espulsioni non è chiaro. Tra le motivazioni, il fatto che «sembrano essere politicamente orientati», oppure che in passato, come attivist*, avevano sostenuto delegazioni che si erano unite alla lotta armata al fianco del popolo curdo.
«Nell’ultimo anno, le autorità della regione del Kurdistan iracheno hanno condotto un’incessante repressione nei confronti di giornalisti, attivisti e manifestanti che esercitano il loro diritto alla libertà di espressione, in particolare tramite arresti arbitrari e sparizioni forzate» [1] scrive Amnesty International. Le repressioni alla libertà d’espressione fanno seguito alle proteste di massa per chiedere migliori servizi pubblici e impegno del governo nella lotta alla corruzione. Quello del clan corrotto dei Barzani è un governo che non accetta critiche.
Il risultato di questo sabotaggio è dunque che a Erbil invece di 150 ora ci sono solo 30 internazionalist*. Il 16 giugno il KDP ha fatto naturalmente di tutto per impedire lo svolgersi della conferenza di pace, l’evento principale organizzato dalla delegazione internazionale. La conferenza era stata prevista davanti alla sede delle Nazioni Unite di Erbil. È stata tenuta comunque in un hotel circondato da militari, di lì non si poteva uscire. Due tentativi di protesta pacifica sono stati repressi: un sit-in davanti all’hotel con canti e slogan contro l’invasione turca e poi, una volta costretti i manifestanti a rientrare, un momento conviviale con danze nella hall dell’hotel.
Il governo regionale del Kurdistan iracheno si è dichiarato contrario alla presenza della delegazione e non ha tardato a dimostrarlo. Ha impedito agli internazionalist* di entrare in contatto con molte ONG e altri attori locali, intimidendoli e spingendoli ad annullare gli appuntamenti già fissati. L’esercito ha inoltre impedito il raggiungimento dei villaggi del nord, evacuati in seguito ai bombardamenti turchi. Le dichiarazioni del governo accusano il PKK di servirsi della presenza degli stranieri europei per destabilizzare la regione. Nessuna solidarietà al popolo curdo è permessa, neanche da parte dei curdi stessi. L’esercito turco interviene nel nord, il KPD di Barzani dal sud. C’è una, piccola, resistenza in atto: 180 peshmerga (combattenti curdo-iracheni) hanno rifiutato di combattere contro il PKK, deponendo le armi e denunciando la politica del KDP che vuole dividere il popolo curdo. C’è però un malcontento crescente tra la popolazione del Basur (cioè del Sud della regione del Kurdistan, che è nel Nord dell’Irak), sull’incapacità dei partiti curdi di far fronte comune contro l’invasione turca.
Impedire l’arrivo della delegazione permette di evitare testimonianze “occidentali” sui crimini di guerra turchi: bombardamenti al fosforo bianco, raccolti e foreste distrutti, attivazione di cellule jihadiste sotto il controllo di Erdogan per esercitare una pressione costante sulle popolazioni curde, le forze di autodifesa del PKK, le YPG e le YPJ. La narrazione “ufficiale” classifica queste tre organizzazioni come “terroristiche”, ma è necessario ricordare che sono le uniche forze che si battono contro il modello imperialista ed estremista islamico turco, contro Daesh (o Isis) e il suo possibile ritorno nella regione. Viene completamente rimossa la resistenza curda a Kobane, a Raqqa, a Ifran e la vittoria contro Daesh a suo tempo, quando serviva gente disposta a farsi ammazzare per fermare l’avanzata dell’Isis, tanto elogiata in tutto il mondo occidentale. La narrazione “ufficiale” viene invece mantenuta anche al Consiglio Europeo, senza dubbio per non infastidire la Turchia.
L’invasione e la violenza dell’esercito turco infrangono le legislazioni internazionali. Le violazioni dei diritti umani sono flagranti. Evidente è la volontà di Erdogan di annientare l’esperienza rivoluzionaria del nord del Kurdistan iracheno, tanto quanto quella del Rojava. Erdogan viene ricevuto al vertice NATO. Come se niente fosse. L’ipocrisia e la posizione conciliante dei governi europei diventa sempre più inaccettabile.
Il 13 giugno la security aeroportuale del Governo Regionale curdo ha arrestato tre rappresentanti dell’amministrazione autonoma del Nord-Est della Siria. Erano venuti all’aeroporto di Erbil per accogliere un gruppo di 12 persone della Delegazione Internazionale, poi deportato direttamente. I tre rappresentanti sono spariti. Da allora di loro non si hanno più notizie. La preoccupazione per le loro sorti è enorme.
Il servizio di sicurezza interna e intelligence del governo regionale kurdo, chiamato Asayish, è conosciuto a livello internazionale per le pratiche inumane, le violazioni dei diritti umani, il mancato rispetto della legge e la pratica della tortura. L’Asaysh, così come altre forze di sicurezza e intelligence, è responsabile di arresti per ragioni politiche che possono durare anni.
A Sulemania, intanto, le manifestazioni continuano.
Il 17 giugno Deniz Poyaraz, militante del partito democratico filo-kurdo HDP, è stata uccisa a Izmir per mano di un esponente di un gruppo paramilitare al servizio della coalizione del governo turco AKP-MHP. Manifestazioni per ricordarla e denunciare la sua morte si sono svolte in tante città curde e europee.
Il 19 giugno un drone turco ha ucciso altre due persone e ne ha ferita una terza, attaccando il villaggio di Galala, non lontano da Sulemania.
Il 21 giugno le forze di sicurezza del governo hanno impedito alla delegazione internazionale, e a decine di altre persone, di raggiungere Qandil, una zona controllata dal PKK. In seguito a una protesta spontanea, pacifica, dei civili presenti, il servizio di sicurezza ha sparato sulla folla. Un manifestante è stato ferito.
Il 23 giugno, infine, 6 rappresentanti tedeschi della delegazione sono stati arrestati all’aeroporto Düsseldorf, di ritorno da Erbil.
Questo, così come altri arresti di membri della delegazione per la pace di ritorno in Europa, non può lasciarci indifferenti. Arrestando i suoi cittadini per aver partecipato a una manifestazione di pace, la Germania e gli altri paesi dell’Unione Europea dimostrano ancora una volta, al di là della retorica delle dichiarazioni, di voler sostenere nei fatti la Turchia proprio nelle sue mai celate ambizioni di guerra senza fine al popolo curdo.
Definire coloro che partecipano ad azioni pacifiche di solidarietà internazionale “terroristi”, pericolosi perché “politicamente orientati”, vuol dire che l’Europa mette in discussione la libertà di espressione e di pensiero che invece a parole solennemente rivendica, tra risoluzioni dell’ONU e promozione della democrazia, della good governance in tutti gli altri Stati economicamente meno influenti. La Turchia, che partecipa al vertice NATO e ha il secondo esercito dei paesi che vi aderiscono, è un alleato “irrinunciabile”. Che commetta ogni giorno crimini di guerra contro i curdi, finanzi cellule di Daesh, promuova un discorso infarcito di fanatismo islamico, utilizzi armi chimiche, imprigioni in modo sistematico gli oppositori politici, impedisca ai curdi di Turchia di parlare la loro lingua e utilizzi la tortura importa poco o niente. Mica si può essere perfetti.
La nota di Amnesty International
[1] https://www.amnesty.org/fr/latest/news/2021/06/kurdistan-region-of-iraq-arbitrary-arrests-and-enforced-disappearance-of-activists-and-journalists/
Questo articolo è uscito anche su Progetto Melting Pot
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