«La speranza è una trappola, è una brutta parola, non si deve usare. La speranza è una trappola inventata dai padroni, […] è una cosa infame».
Queste parole di Mario Monicelli, pronunciate 12 anni fa alla Rai, mi sovvengono ogni volta che penso nel profondo alla speranza. Ogni volta che con essa sogno, o mi addoloro, sussurrandomi talvolta che sì, Monicelli aveva ragione.
Poi rinsavisco. Perché la speranza non è una e sola, uguale per tutti: dipende da chi la diffonde, da chi se ne nutre, per quali scopi. È vero: esiste la speranza-trappola dei padroni, una speranza infame. Solo per contrapposizione – così come d’opposti si fonda la vita – dovrebbe allora esistere una speranza autentica.
Nella nostra era di consapevole antropocene, la speranza autentica è forse la più ardua che vi sia mai stata nella storia: l’umanità rischia di autodistruggersi per l’inquinamento causato dal suo stesso modo di vivere. Qualcosa di meno palpabile dello spettro di una bomba atomica, almeno finché non si sperimenta il cambiamento climatico sulla propria pelle.
Ecco che oggi la lotta tra la speranza infame e la speranza autentica si muove intorno a un tutt’uno spesso dimenticato nella nostra cultura e quotidianità: il legame tra esseri umani e natura. Gli infami sfruttano Terra e umanità, gli autentici le rispettano.
Questo legame, questa speranza, questo amore per la nostra specie e per tutto ciò d’inerte e vivo che abita il nostro pianeta, mi pare costituire il centro della terra di Comune: un fuoco che anima la redazione e che scalda i sogni della sua comunità di lettori mostrando, con le pietre brucianti della parola scritta e della fotografia, che la speranza autentica vive qui e ora, dall’altra parte del mondo o sotto casa. Comunque tra di noi. Grazie, Comune.
[Daniele Ferro]
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