di Maria Ilaria de Bonis*
Lavoro a chiamata, gig economy, piattaforme on demand, bracciantato agricolo a cottimo, precariato di lusso, “lavoratori alla spina”, disoccupati, freelance sottocosto. Sono tutte forme di sfruttamento del lavoro riconducibili ad una sola classe sociale: un nuovo proletariato trasversale, senza diritti e senza consapevolezza di esistere.
La follia più grande sta infatti proprio in questo: nessuno protesta e solidarizza con categorie di lavoratori fratelli perché non riconosce di appartenere ad una stessa classe sociale. E così non scatta mai l’urgenza di organizzare marce, manifestazioni, flash mob, sit in. È come se fossimo convinti che l’eccessivo sfruttamento del lavoro sia una pratica odiosa, sì, ma che riguarda maggiormente gli altri. Facciamo una fatica immensa a riconoscerci simili ai lavoratori di Amazon, agli operatori dei centralini telefonici, ai commessi di Zara, agli insegnanti precari, ai braccianti africani schiavizzati in Puglia. Noi no, noi siamo un filino più fortunati. È questa l’illusione. Una trappola della quale è necessario liberarsi se vogliamo recuperare potere. Quando abbiamo visto sfilare i berretti rossi a Foggia, li abbiamo guardati con ammirazione e ci siamo domandati come mai fossero da soli a gridare “non siamo carne da macello!”.
Ma pochissimi hanno raggiunto le campagne pugliesi per dar man forte ai braccianti che rischiano la vita sui campi per far arrivare pomodori freschi sulle nostre tavole. E lo stesso accade per le proteste atomizzate degli insegnanti precari, per i giovani ricercatori universitari e i blue collar.
La verità è che le classi sociali esistono, eccome, si riproducono, in antitesi una con l’altra, ma sono cambiate al punto tale che non le riconosciamo più. Un nuovo proletariato eterogeneo, frastagliato, ricco di anime apparentemente inconciliabili e culturalmente distanti, si aggira per l’Europa in cerca di identità.
Se è vero che l’ex classe media non farà mai la fine di quei braccianti africani pagati a cottimo che muoiono nelle campagne bruciate dal sole, è altrettanto evidente che sul fronte dei diritti tutti perdiamo pezzi senza accorgercene. Siamo vittime di una forma di caporalato diabolicamente più “evoluto” e sottile, che sta già rosicchiando la nostra esistenza di impiegati, freelance e disoccupati.
Molti obiettano che lavorare nel settore dei servizi non è proprio la stessa cosa che raccogliere zucchine nei campi della Pontina, fisicamente maltrattati e contrattualmente inesistenti. Ma se è l’incolumità fisica a fare la differenza, dal punto di vista della liberazione dalle catene e della costruzione di diritti e felicità progressivi, apparteniamo tutti ad un nuovo proletariato multiforme, anche se stentiamo a riconoscerlo. Una classe sociale orizzontale, non più verticale, non definibile in base al modo della produzione. Ma sicuramente uniforme dal punto di vista dell’incertezza di vita, della paura, della perdita di diritti e libertà elementari.
L’Istat per primo ha riconosciuto che sono saltati i vecchi parametri ed ha individuato nove nuovi gruppi sociali, dai blue collar alle famiglie di operai in pensione. L’istituto di statistica ammette che non ci sono più le classi di una volta (la dicotomia borghesia/ operai per intenderci) ed elabora una matrice che incrocia diversi fattori, dal reddito all’età, per dire che abbiamo a che fare con gruppi ibridi di persone. Però non arriva ad ipotizzare che esista un nuovo proletariato.
Perché è estremamente difficile ravvisare in questa magmatica compagine formata da insegnanti, braccianti, operai 4.0, fattorini, architetti, professionisti a progetto e artisti senza stipendio, una nuova classe tanto frastagliata quanto potente e potenzialmente rivoluzionaria. Immaginate quanta forza può avere un gruppo svantaggiato, all’interno del quale convivono però persone che hanno caratteristiche culturali, etniche, di origine famigliare, linguistica, di formazione scolastica e di creatività, tanto diverse ed esplosive.
Lo svantaggio è tutto sul versante della discontinuità: tipologie contrattuali a singhiozzo, o inesistenti, gabbie che imbrigliano ed impediscono un’ascesa collettiva verso l’alto. Sono le carenze sul fronte dei diritti a metterci tutti sulla stessa barca. Ma sono le differenze tra le persone (quelle stesse differenze che non ci permettono di prendere atto che siamo una cosa sola) a costituire una ricchezza mai incontrata nella Storia.
Quando le classi sociali erano verticali gli studenti solidarizzavano con gli operai combattendo la lotta di qualcun altro per empatia, ben sapendo che la propria sarebbe stata di altro livello. Oggi no: la lotta dei braccianti in Puglia può benissimo essere la stessa degli operatori schiavizzati di Amazon. Degli avvocati negli studi legali contrattualizzati a singhiozzo. Delle donne in maternità che perdono il lavoro. Quando manca la libertà di progettare la propria esistenza mese dopo mese e si è bloccati nel cambiamento, scatta quella “comunità di destino” di cui parlano filosofi ed economisti e che Luciano Gallino argomentava molto bene. In poche parole la possibilità di evoluzione sociale, di disporre del proprio tempo libero, di coltivare talenti, di appassionarsi, di fare progetti, di muoversi nello spazio, di non essere controllati. Di vedere retribuita la malattia, la maternità, il riposo. Di poter scioperare.
Eppure, finché non prendiamo coscienza del comune destino non possiamo combattere per emanciparci.
In termini marxisti diremmo che la classe in sé non ha ancora compiuto il passaggio verso la classe per sé, ovvero verso la consapevolezza.
Il nuovo proletariato trasversale vive e subisce, si muove, lavora, genera, produce, consuma, ma non lotta. Non perché la lotta di classe non esiste più, ma perché non sa di poterla fare.
La dialettica di classe non è mai cessata un secondo, solo che il paradigma negli ultimi trent’anni si è completamente ribaltato: alla tradizionale lotta dal basso si è sostituita quella dei padroni contro le masse operaie. “Sono le classi superiori ad avere interesse a mantenere divisa la classe operaia, il proletariato globale e anche le classi medie,” spiega ancora Gallino nel libro La lotta di classe dopo la lotta di classe. In sostanza la lotta la fanno i ricchi contro i poveri.
Sono i top manager, gli alti dirigenti industriali, i proprietari di fondi d’investimento, i banchieri, l’alta finanza sostenuta dalla politica, ad usare ogni strumento valido per annientare, atomizzare, dividere ulteriormente e confondere il nuovo proletariato.
I precari, i disoccupati, i lavoratori a progetto, gli interinali, i braccianti stagionali, i figli dell’ex classe media dal posto fisso. Confondere per affondare.
Perché non combattiamo la nostra lotta allora? Perché non crediamo in noi stessi: le divisioni interne ci hanno davvero indebolito. Preferiamo contenderci le briciole che il capitale ci concede. A livello internazionale in realtà un tentativo c’era stato nel 2011, ma pare essersi spento. Era il movimento statunitense di Occupy Wall Street che per mesi e mesi tenne alta la bandiera della protesta a Zuccotti Park, a New York per dire no alle diseguaglianze globali. Si trattava di un movimento di resistenza senza leadership partitica, formato da persone con idee politiche differenti. “L’unica cosa che abbiamo in comune,” scrivevano, “è che siamo quel 99% che non tollera più la corruzione e l’avidità del restante 1%”, l’alta finanza.
Occupy Wall Street diventa presto globale: nascono gli indignados in Spagna e i movimenti di piazza Syntagma in Grecia. Si stava formando una sorta di nuova classe sociale davvero transnazionale, che si avvaleva del web come mezzo di diffusione delle idee. Era una lotta di classe globale contro l’alta finanza che cannibalizzava il resto del mondo. Paradossalmente l’esplosione degli indignati avviene in parallelo a un fenomeno mai visto prima con tale intensità: l’imposizione di scelte politiche e nuovi esecutivi ‘tecnici’ da parte dell’alta finanza agli Stati. Che fine abbia fatto Occupy Wall Street a distanza di sette anni dal suo promettente avvio, è una domanda che resta in sospeso.
È certo invece che “la concentrazione della dimensione di imprese finanziare e banche ‘too big to fail’ non ha subito la battuta di arresto che (ingenuamente) ci si aspettava dopo la crisi del 2008.” Allora che succede? Ha vinto il capitale finanziario? La lotta di classe del XXI secolo ha i suoi perdenti e dobbiamo farcene una ragione? Siamo di certo in una falla dove la paura domina su tutto e la protesta non ha il coraggio di emergere. Ci fanno credere che protestando perderemo anche quel poco che abbiamo guadagnato, ma non è così. Per il momento ad aver attecchito sono invece i populismi, che hanno saputo manipolare bene l’insoddisfazione di classe e il dissenso verso le elite, per crearne a loro volta delle altre. Bisogna dare atto alle destre populiste europee di aver saputo cogliere il senso della trasversalità delle classi e di aver usato questo bacino per attingervi nuovi elettori. I populisti per altro dividono il proletariato che non ha coscienza di sé, alimentando la diffidenza tra vecchi e nuovi poveri, tra migranti e precari nostrani. Il vuoto lasciato a sinistra è invece un cratere che prima o poi andrebbe riempito di senso e di sostanza, anche perché la materia non manca e i tempi sono maturi da un bel pezzo. Il nuovo proletariato aspetta solo di essere intercettato.
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