Da La città ai ragazzi di quarant’anni fa alla Scuola di quartiere promossa da Acmos in estate, Torino ripensa la relazione scuola-città. Un’inchiesta indaga quel tema e racconta un territorio con cicatrici rimosse (lo dimostrano i fatti del 26 ottobre), ma anche energie per cambiare l’ordine delle cose. Una città che dovrebbe smettere di correre
C’è una Torino che ha bisogno di essere ascoltata. Sempre più persone vivono ai margini in quartieri dalle mille ferite, tra loro molti giovani disillusi. Tuttavia ci sono anche tanti e tante che esercitano i loro diritti di cittadinanza, si prendono cura dei quartieri, sperimentano nuove forme di trasformazione della società partendo dalla vita di ogni giorno e dalla consapevolezza che non occorre aspettare i tempi del cambiamento o delegare.
Abbiamo messo insieme alcune domande per un’inchiesta, certo non esaustiva, su Torino attraverso lo sguardo di lungo periodo di chi vive la città ogni giorno e lo fa in tanti modi differenti, a cominciare da Acmos. L’associazione da anni si muove intorno ai temi della “scuola aperta e partecipata” con i ragazzi e le ragazze delle medie superiori: in luglio Acmos ha coinvolto diversi studenti e studentesse di tre scuole per promuovere una straordinaria “Scuola di quartiere”. Nascono da un giro in alcune scuole elementari torinese, invece, le riflessioni di Emilia De Rienzo sulla classe come comunità, sul bisogno di imparare ad ascoltare e ad abitare l’imprevisto, sulla vita della città e quella del mondo che ogni giorno possono trovare spazio a scuola.
Torino, per altro, a proposito della relazione tra scuola e città, nella metà degli anni Settanta ha vissuto un’importante stagione: “La città ai ragazzi”, promosso con l’assessore Fiorenzo Alfieri (maestro del Movimento di cooperazione educativa e collaboratore di Mario Lodi e Bruno Ciari), è stato un esperimento di educazione diffusa che ha messo in rete teatri, musei, biblioteche, ma anche negozi e piccole industrie nell’accogliere bambini e ragazzi, non per una visita ma per interagire con gli adulti, che volontariamente hanno messo a disposizione tempo e saperi. Un modo per migliorare la scuola e al tempo stesso ripensare la città (ne parla Franco Lorenzoni in Il momento delle città).
Il frutto di questa inchiesta nella città della Mole ha preso forma nei giorni in cui i grandi media hanno improvvisamente scoperto la rabbia di tanti ragazzi, quelli che lunedì 26 ottobre hanno rotto le vetrine di un paio di boutique del lusso di via Roma. Sono giovani che arrivano dalle periferie di cui parla Marco Arturi in La città verticale, un parte della Torino esclusa dal racconto dominante che va in centro a dire in quel modo “esistiamo anche noi”. Chissà se quei giovani hanno avuto l’occasione di conoscere in profondità la storia di liberazione vissuta dagli operai tra gli Settanta e Ottanta nella one company town e finita con i “35 giorni della Fiat”, ricordata in modo splendido da Marco Revelli. Una storia importante per le relazioni che favorì tra gli operai e tra gli operai e il territorio, che sarebbe riduttivo valutare solo per la sua conclusione avvenuta nell’Ottobre di quarant’anni fa.
Intanto, come in tutte le grandi città anche a Torino oggi cresce il numero degli invisibili, dai senza dimora abbandonati dalle istituzioni in pieno lockdown (come raccontato nel reportage di Gigi Eusebi) fino agli anziani che un tetto lo hanno ma sono schiacciati dalla solitudine, ad esempio, le donne e gli uomini raggiunti dal progetto “Fooding – Alimenta la solidarietà” (di cui abbiamo parlato con Alice Graziani, di Arci Torino, promotrice dell’iniziativa) e da Torino Solidale, iniziativa a guida comunale. In realtà ci sono anche gli invisibili vittime della ludopatia, problema che in Italia precipita su quattro persone su dieci (inclusi i familiari dei giocatori d’azzardo): a Torino e in tutto il Piemonte in queste settimane un gruppo di associazioni ha promosso una campagna in difesa della legge regionale sulla ludopatia, che molti vogliono abrogare. Del resto, trasformare le città in non luoghi abitati da migliaia di invisibili è il prezzo da pagare per chi, ai tempi del fordismo così come in quelli delle Olimpiadi invernali del 2006, deve andare di corsa, non si bene dove. Anche per questo, c’è chi parla del bisogno di riprendere fiato: questo è il tempo per smettere di correre dietro il profitto a tutti costi, dicono quelli di Mag 4, cooperativa di finanza critica.
Certo, non tutto è nero nella città in cui sale la frustrazione per la crisi economica e sociale moltiplicata dalla pandemia. Nell’inchiesta non manca un primo elenco di realtà sociali (Casa del quartiere “Bagni pubblici Via Aglié”, circolo Arci Molo di Lilith, Gruppo Abele, fino a un anno fa anche lo storico Caffè Basaglia, solo per fare qualche nome) che tentano di aprire ovunque nuove “piazze” nelle quali ricomporre legami solidali e sperimentare forme diverse per occuparsi di beni comuni (in una ex scuola elementare, racconta Labsus, grazie allo strumento del Patto di collaborazione tra l’amministrazione e un’associazione di giovani, è nato ad esempio El Barrio).
Nell’incontro alla Scuola di quartiere, don Luigi Ciotti, rivolgendosi prima di tutto ai giovani delle periferie che hanno smesso di desiderare e di lottare insieme per vedere realizzate le proprie aspirazioni, ha detto: “Vi prego, continuate a sognare. I grandi sognatori sono le persone più pratiche nella vita. Certo, ci sono anche delle fatiche lungo il cammino, ma voi continuate a sognare, a sognare voi stessi e gli altri…”.