Chiunque cerchi di migliorare la qualità culturale del territorio e di ricomporre le relazioni sociali è un alleato indispensabile per chi nella scuola non rinuncia a battersi contro ogni forma di discriminazione, consapevoli che la scuola deve sforzarsi di essere prima di tutto un luogo di costruzione culturale lenta. Di certo occorre proteggere i diversi tentativi di costruzione di comunità educanti locali che stanno dando risultati interessanti contro l’abbandono scolastico: c’è bisogno ovunque di ristrutturare piazze, fare delle biblioteche dei punti di ritrovo, aprire spazi per attività sportive o espressive, tenere aperte le scuole il pomeriggio con la partecipazione del territorio per ospitare proposte e laboratori
Questo articolo da parte dell’inchiesta Il rammendo dei quartieri
Un gruppo di studenti di un liceo di Terni, rispondendo all’invito della preside di indicare possibili miglioramenti per la loro scuola, ha proposto di istituire uno psicologo bidello. Uno psicologo sempre presente, in corridoio, che si possa interpellare al momento del bisogno senza passare al vaglio di insegnanti o genitori. Tra bidelle e bidelli, come gli studenti chiamano il personale ATA, ci sono talvolta figure che incarnano un’attenzione curiosa verso la vita di ragazze e ragazzi e che sanno entrare in relazione con loro al di là degli esiti scolastici.
Proviamo a prendere sul serio questa espressione ingenua di un bisogno, questa piccola provocazione al mondo adulto.
Un numero sempre più ampio di studentesse e studenti hanno un evidente bisogno di aiuto. Se ascolto una ragazza di seconda media che dice “mi taglio le braccia per soffrire meno”, se assistiamo a una moltiplicazione geometrica di casi gravi che si presentano alle Asl e ai centri di igiene mentale, se crescono a dismisura disturbi dell’alimentazione e forme di autolesionismo o di isolamento e chiusura totale, non possiamo non pensare che qualcosa va ripensato con radicalità e urgenza nella scuola, perché la scuola è il principale e spesso unico luogo pubblico di incontro tra le generazioni. Questo stato di sofferenza diffusa, tra l’altro, colpisce ogni regione del nostro paese e ogni strato sociale.
Il decennio della cura
Nei mesi che seguirono la fase più acuta della pandemia ci siamo trovati a ragionare sulla necessità di inaugurare un decennio da dedicare alla cura. Cura delle persone, a partire dai più giovani, che avevano subito l’isolamento domestico e ad erano stati costretti a considerare il contatto come contagio con conseguente avvilimento del corpo, in una età in cui il corpo è primario ed essenziale luogo di conoscenza e desiderio. Intorno al corpo e alla percezione di sé, tra l’altro, si stanno giocando negli ultimi anni sommovimenti profondi nelle nuove generazioni, i cui sintomi vanno dall’esplosione delle tematiche di genere a nuove inibizioni che accompagnano relazioni vissute frequentemente solo a distanza. Il paradigma della cura non riguarda tuttavia solo il corpo e la salute dei singoli, ma la relazione con l’intero pianeta ferito, i cui gli equilibri sono a rischio per via di cambiamenti climatici, avvertiti dalle nuove generazioni con maggiore sensibilità come pericolosi e devastanti. C’è poi la relazione con la città e gli spazi urbani, in troppi luoghi percepiti come inospitali e respingenti, perché accrescono la fatica di relazioni reciproche sempre più attraversate da chiusure, diffidenze, aggressività crescenti.
Ciò che per qualche tempo era apparso come un momento di svolta e di presa di coscienza dell’insostenibilità dei nostri modi di vivere e abitare la terra, all’inizio della pandemia, nelle settimane in cui sembrava prevalere la solidarietà, nel sostenere ad esempio la grande fatica che ha comportato per tutti la scuola a distanza, si è dissolto velocemente. Come ci siamo liberati dalle mascherine c’è stata una rimozione collettiva pressoché assoluta di ciò che era accaduto, mentre a livello individuale ragazze e ragazzi e bambine e bambini anche piccoli, si sono trovati a dovere affrontare in solitudine le conseguenze profonde di un trauma che aveva sconvolto per diverse stagioni il loro quotidiano alterando il loro immaginario. A tutto questo si è aggiunta una guerra percepita come vicina, dal momento in cui la Russia di Putin ha invaso l’Ucraina. E la guerra, con la sua brutalità e palese assurdità, è la peggiore offesa che si possa fare all’infanzia perché un bambino, che vede alla televisione le conseguenze di un bombardamento scoprendo che non è finzione, non può non esserne colpito e offeso. Radere al suolo una casa, uccidere bambini e donne e innocenti di ogni età è un comportamento adulto che interroga e terrorizza i più piccoli. Invade i loro sogni e li agita.
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Le tre solitudini
La solitudine di ragazze e ragazzi è evidente, ma diventa ancor più grave perché è incastonata tra altre due solitudini: quella delle famiglie e quella degli insegnanti.
La crisi della capacità educativa delle famiglie ha origini molto lontane.
In un articolo sul Giornale dei genitori del 1962 Ada Gobetti descrive
“genitori che si mostrano e si dichiarano il più delle volte smarriti, impotenti, sprovveduti, (…) che ancora conservano, pur senza rendersene conto, molte caratteristiche dell’adolescenza: incerti, instabili, disorientati essi stessi, quale sicurezza possono dare ai loro figli?”.
Aggiungendo poi:
“Non sanno offrire modelli a cui i figli possano ispirarsi o contro cui possano polemicamente ribellarsi; troppo assorti nei propri problemi, difficilmente sanno uscire da se stessi per dare ai figli quell’amore completo e disinteressato capace di colmare da solo ogni lacuna di preparazione culturale e pedagogica”.
L’analfabetismo che allarmava Ada Gobetti oltre sessanta anni fa non riguardava tanto la preparazione culturale, quanto l’incapacità di “uscire da se stessi”, che è base imprescindibile per costruire un confronto positivo con figlie e figli, sapendo accogliere il fatto che possano incarnare punti di vista diversi dal nostro, che ci mettano in discussione. Senza questa consapevolezza e una conseguente capacità di dialogo è assai difficile stabilire relazioni aperte e dinamiche.
Relazioni rese ancora più difficili oggi da una distanza tra le generazioni che si è enormemente ampliata per la costante dipendenza che tutti abbiamo verso strumenti di comunicazione, informazione, gioco e distrazione permanentemente accesi dalla più tenera età, che inevitabilmente avviliscono le relazioni dirette, in presenza, e una qualche condivisione di riferimenti culturali e pubblicitari che condizionano sensibilmente ogni crescita. È come se nelle case la distanza che c’è sempre stata tra genitori e figli nel tempo sempre più lungo dell’adolescenza, si sia oggi ulteriormente dilatata, perché alimentata ogni giorno da nuove differenze di linguaggio e, soprattutto, di uso di tecnologie sofisticate e coinvolgenti, che sempre più delineano orizzonti valoriali di riferimento difficilmente intercettabili e interpretabili dalle generazioni adulte.
Distanza alimentata ulteriormente dall’ossimoro che caratterizza il comportamento di molti genitori: un bisogno di controllo sempre più accentuato unito a una presenza incostante e intermittente. Declinata nel nostro tempo la difficoltà di “uscire da se stessi” denunciata da Ada Gobetti, assume oggi le forme di una distrazione sempre in agguato, dal non sapere uscire da quel piccolo schermo sempre in mano che ci fa da specchio e in cui rimbalziamo continuamente allontanandoci dai nostri vicini.
Questo vuoto, questa difficoltà di relazioni nelle famiglie, viene talvolta compensata, paradossalmente, da una difesa a oltranza di qualsiasi comportamento anche improprio di figlie e figli nella scuola. Da cui una sfiducia diffusa, che a volte sfocia in aggressività e violenza verso gli insegnanti e il loro ruolo educativo.
Teniamo presente anche il fatto che ormai più della metà dei bambini sono figli unici e non conoscono dunque le felicità e fatiche della fraternità o sorellanza, salutare allenamento alla condivisione di spazi e oggetti che aiuta a ridimensionare l’espansione illimitata delle proprie esigenze.
La terza solitudine riguarda noi insegnanti, in grande difficoltà nel costruire regole condivise con ragazze e ragazzi che incorporano esperienze segnate dalla difficoltà adulta di assumersi le proprie responsabilità nello stabilire confini sensati, nella vicinanza.
Si arriva così a un altro paradosso. Ragazze e ragazzi pensano a volte di poter fare ogni cosa pur sapendo, con maggiore o minore consapevolezza, che li aspetta un mondo dominato da vecchi spesso incattiviti, che stanno sottraendo loro libertà e futuro, perché rimandare ogni scelta sul clima o minare le fondamenta del welfare riguarda molto concretamente la qualità della vita che li aspetta.
Pronto soccorso culturale
Molti anni fa Felice Pignataro, geniale artefice di interventi artistici e laboratori proposti nelle periferie di Napoli, invocava la necessità di un pronto soccorso culturale, più che mai necessario oggi.
E allora una domanda che dovremmo porci con rigore e radicalità riguarda il ruolo giocato dalla scuola in questi decenni, in cui evidentemente noi che insegnavamo e provavamo ad educare non siamo stati in grado di elaborare un controcanto convincente, capace di criticare e contrastare ciò che stava accadendo nelle famiglie e nella società riguardo al disprezzo per la cultura e a una sfiducia crescente verso il sapere come terreno per la realizzazione di una vita migliore.
Ogni apprendimento e relazione con la conoscenza comporta fatica, impegno e una qualche capacità di perseveranza nell’affrontare gli inevitabili ostacoli che si incontrano nel cammino. Se nelle famiglie la necessità di questo sforzo declina o è addirittura assente, perché ragazze e ragazzi dovrebbero impegnarsi e credere nella scuola, vista l’enorme quantità di informazioni e intrattenimenti proposti dalle comunicazioni in rete sempre a portata di mano?
Chiedere a noi insegnanti l’impresa titanica di invertire una piegatura della storia di così vasta portata è probabilmente sproporzionato e dobbiamo onestamente fare i conti con i limiti delle nostre possibilità di intervento. Ma rovesciando la questione, credo si debba affermare con convinzione che un’istituzione preposta all’istruzione perde ogni senso, se non è capace di far propria la sfida del porre delle basi di una maggiore giustizia sociale, che necessariamente parte dallo scoprire e cominciare ad avere fiducia nella proprie capacità da parte di ragazze e ragazzi, partendo da un arricchimento del linguaggio e della capacità di argomentare e di pensare in proprio.
La peggiore offesa all’infanzia sta nel costringere bambine e bambini e adolescenti a trascorrere ore e ore a scuola insieme ad adulti pigri, demotivati e frustrati, a insegnanti che hanno smesso di ricercare e credere nella cultura come luogo di conoscenza di sé e leva di trasformazione individuale e collettiva.
Ma noi sappiamo che fuori dalla scuola i meccanismi di esclusione e discriminazione sono ancora più spietati, perché chi è ricco di parole, curiosità e domande potrà utilizzare al meglio le potenzialità della rete e di future “intelligenze” artificiali, mentre chi è più povero di riferimenti culturali e desideri di conoscenza si troverà relegato alla mercé di un mercato che non privilegia certo la qualità.
Tra chi prova a fatica ad affrontare la dispersione scolastica e le crescenti povertà educative si sta sviluppando una discussione di cui tenere conto. Dobbiamo puntare a un ampliamento del tempo della scuola a ogni livello di istruzione o dobbiamo immaginare e finanziare altri apporti educativi da parte di operatrici e operatori del volontariato sociale, del terzo settore in collaborazione con le istituzioni locali, moltiplicando progetti capaci di dare vita a comunità educanti aperti al contributo delle famiglie?
Alcuni tentativi di costruzione di comunità educanti locali stanno dando risultati interessanti, perché è evidente che l’abbandono scolastico è dovuto a una molteplicità di fattori. E allora ristrutturare una piazza, fare di una biblioteca un punto di ritrovo, aprire spazi per attività sportive o espressive, così come tenere aperta una scuola il pomeriggio per ospitare proposte e laboratori può essere importante. In altre situazioni, invece, il finanziamento di progetti educativi nati fuori dalla scuola sta alimentando diffidenze tra insegnanti e famiglie talvolta invadenti o tra scuola e terzo settore.
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Tra scuola e territorio
Personalmente penso che chiunque lavori per migliorare la qualità culturale del territorio sia un alleato indispensabile per chi nella scuola non rinuncia a battersi contro ogni forma di discriminazione.
Penso tuttavia che la scuola debba mantenere le sue peculiarità e sforzarsi di essere un luogo di costruzione culturale lenta. E che dunque noi docenti non ci si possa sottrarre nell’assumerci e tentare di intrecciare sempre il ruolo di insegnanti a quello di educatrici ed educatori, sapendo trasformare l’incontro con arte, scienza, letteratura e bellezza come luoghi possibili di quel bisogno di cura di cui siamo noi i responsabili.
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Il cuore dell’educazione attiva sta nel costruire strumenti per arricchire le qualità e potenzialità di ciascuno alimentando la fiducia in sé stessi imparando a riconoscersi in un corpo a corpo vitale con gli oggetti culturali. Al tempo stesso il nostro ruolo sta nella capacità di seminare inquietudine, cercando ogni modo per moltiplicare le domande. Seminare inquietudine dovrebbe essere un anelito costante in chi educa, con la consapevolezza che a scuola stiamo svolgendo una funzione politica nel senso più ampio e autentico del termine, cioè di allenamento all’arte del convivere e di cura del bene comune. Dobbiamo convincerci che la cultura e la conoscenza non si possano trasmettere, ma solo costruire e ricostruire, ciascuno a modo suo, possibilmente insieme. Per imparare a farlo, tuttavia, dobbiamo sperimentarci in un artigianato dell’educare da arricchire e mettere continuamente a punto in continui confronti con colleghe e colleghi in una ricerca che non può essere che cooperativa.
Non è affatto semplice contrastare le tante forme di discriminazione presenti nella società, che sono fonte di sofferenze che si moltiplicano nel tempo. Ma è assolutamente necessario in un paese che è al penultimo posto per numero di laureati in Europa e in cui, se sei nato da genitori non diplomati, in due casi su tre non terminerai i tuoi studi.
La mezza verità
Mario Lodi, nel più noto dei suoi diari didattici che intitolò Il paese sbagliato, fa un’unica lunga citazione, tratta da un saggio dello psicologo e pedagogo svizzero Jean Piaget.
“Lo scopo dell’educazione intellettuale non è quello di saper ripetere o conservare verità belle e fatte, perché una verità che viene ripetuta non è che una mezza verità: ma è piuttosto quello di apprendere e conquistare da se stessi il vero, a rischio di metterci molto tempo e di passare per tutte le traversie che una attività reale richiede. Non è possibile formare delle personalità autonome nel campo morale se l’individuo è sottoposto a una costrizione intellettuale tale che egli debba limitarsi ad apprendere a comando senza scoprire da se stesso la verità: se passivo intellettualmente non saprà essere libero moralmente”.
Offrire la possibilità di scoprire e costruire la propria verità imparando a ricercare e a pensare insieme è una funzione sociale che la scuola deve fare propria con convinzione, facendosi magari anche aiutare da altre figure professionali, ma non delegandola a nessuno.
Articolo ripreso da ilLibraio.it, pubblicato nel numero autunnale di Sotto il vulcano (trimestrale Feltrinelli diretto da Marino Sinibaldi) e sulla pag, fb di Franco Lorenzoni. Nell’archivio di Comune, gli articolo di Lorenzoni sono leggibili qui).
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