Le emozioni, come confermano le neuroscienze, dirigono i nostri pensieri. Per questo il modo di studiare che proponiamo nelle nostre aule raramente è in grado di motivare al piacere dell’apprendimento. Ma non basta proporre qualche attività sulla scoperta delle emozioni. C’è da mettere da parte una volta per tutte l’idea di scuola fatta di banchi, cattedre, rigide classi divise per scaglioni d’età, libri di testo, materie, compiti, lezioni frontali. Prima di tutto occorre essere consapevoli che il sapere sta decisamente fuori dagli edifici scolastici, sparso per i tanti luoghi della città: biblioteche, musei, teatri, archivi, piazze monumentali, nei luoghi dove giovani, adulti e anziani si mescolano. Viviamo nella società della conoscenza ma ai ragazzi viene fornita fuori della società. Fare del territorio il centro del progetto educativo: questo dovrebbe orientare lo sforzo comune di scuole, amministrazioni locali, associazioni, genitori, gruppi informali ma anche bambini e bambine, ragazzi e ragazze. Si tratta di fare della scuola un luogo aperto capace di vivere e servire il respiro del quartiere, di assorbirne gli umori e di risponderne alle esigenze, ma allo stesso tempo si tratta di ripensare la città per farla a misura di tutti. A questi temi è dedicato il primo capitolo, di cui pubblichiamo ampi stralci, del libro Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza (Armando ed.), di Giovanni Fioravanti

Nella nostra cultura, ragione e sentimento hanno divorziato perlomeno dai tempi di René Descartes e del suo Discours de la methode. Ora, pare che questo divorzio non si avesse da fare. Ce lo dicono le ricerche più recenti nel campo delle neuroscienze, che dai neuroni specchio in poi hanno dichiarato guerra a tutti i nostri pseudoconcetti. Se vogliamo imparare ad apprendere, innamorarci del piacere di studiare abbiamo bisogno delle emozioni. Se gli apprendimenti non si attaccano alle emozioni come ad una sorta di attaccapanni, non siamo poi in grado né di ricordare né di far uso di quello che erroneamente pensavamo di aver imparato.

Che le emozioni incidessero sulla strada dei nostri saperi, ne avevamo sempre nutrito il sospetto. Ora le neuroscienze sono in grado di dimostrarlo. “La gente pensa che le emozioni portino fuori strada, ma non è così. L’emozione dirige il nostro pensiero. È il timone che orienta la nostra mente e organizza quello che dobbiamo fare”, sostiene Mary Helen Immordino-Yang, professore associato di pedagogia, psicologia e neuroscienze all’Università di Southern in California, autrice del libro Emotions, Learning, and the Brain. (…) I ricercatori dell’Università Ludwig Maximillian di Monaco di Baviera hanno scoperto che le emozioni negative degli studenti, come rabbia, ansia e disperazione, sono contagiose, nel corso del tempo si trasmettono anche ai loro amici. Lo stesso però non accade per le emozioni positive come la soddisfazione e l’orgoglio.
Il piacere di apprendere è, dunque, qualcosa che ogni studente costruisce nel corso del tempo e suggerisce la necessità che la scuola prenda in seria considerazione le emozioni dei suoi alunni, in modo che a scuola ognuno ci stia bene fin da subito. Immordino-Yang raccomanda agli insegnanti tre strategie per migliorare l’influenza emotiva sull’apprendimento: rendere significativo l’apprendimento nutrendolo di emozioni; incoraggiare gli studenti ad usare le loro intuizioni nell’apprendere e nel risolvere problemi; creare un clima non solo aperto all’errore, ma di autentica fiducia e di reale rispetto. (…)
Emozione richiama l’emozione per eccellenza, quella a cui avrebbero diritto tutte le persone a partire dai piccoli: la felicità. Ma scuola e felicità non hanno mai fatto rima. Anzi per tradizione a scuola ogni felicità si spegne, perché la scuola è fatica, è sudore sui libri e sui quaderni. Cosa succederebbe allora se la ricerca della felicità e il benessere delle persone entrassero nei programmi scolastici fino ad orientare la scelta dei contenuti da apprendere sui banchi di scuola?
Salvaguardia della vita e perseguimento della felicità
Non si tratta della fantasia di un sognatore, d’un inguaribile utopista dell’educazione. Almeno da quando, nel 2000, il potente gruppo editoriale Springer lanciò il Journal of Happiness Studies, evidenziando un crescente interesse per le ricerche relative alla felicità e la vasta letteratura accumulata intorno a questo argomento. È sufficiente navigare in internet per scoprire l’esistenza del World data base della felicità, registro costantemente aggiornato sulla ricerca scientifica relativa alla soddisfazione personale per la propria esistenza. Padre e organizzatore ne è Ruut Veenhoven professore dell’Erasmus University, pioniere e autorità mondiale della ricerca scientifica sulla felicità. (…)
La salvaguardia della vita umana e il perseguimento della felicità, in opposizione ad una crescita economica a scapito dell’ambiente e della salute delle persone, possono guidare la scelta dei contenuti dei curricoli scolastici di scienze, storia, educazione civica, matematica, educazione alla salute, educazione ambientale fino all’educazione fisica di un sistema formativo rifondato nell’organizzazione, nei curricula e nei metodi di insegnamento (…)
Forse è davvero tempo di cambiare passo. Secondo uno degli ultimi rapporti dell’OMS, pubblicato dall’ufficio europeo, le nostre ragazze e i nostri ragazzi sono stressati dalla scuola. Ci sarebbe da stupirsi del contrario. Se nel Paese fiorisse un pensiero sul nostro sistema formativo autonomo dal rincorrere gli altri e dai test dell’Ocse Pisa, forse saremmo in grado di porci un rimedio, che non è questione di aggiustamenti o correttivi, ma di pensieri radicalmente nuovi, che necessitano di respiro e di tempo.
È questione di una cultura diversa. Il nostro modello di scuola è ancora quello della classe, del banco, della cattedra, dell’intruppamento per scaglioni d’età, piccoli eserciti che giorno dopo giorno, anno dopo anno vanno all’assalto con i libri di testo, le materie, i compiti, le lezioni frontali per conquistare un territorio che non potrà dare frutti per il futuro.
Se la scuola non piace, non è perché i nostri ragazzi sono tutti dei Pinocchio o dei Lucignolo. La prima domanda da porsi e a cui rispondere è: perché il modo di studiare che proponiamo nelle nostre aule non è in grado di motivare al piacere dell’apprendimento. Né dobbiamo cadere per questo in una sorta di attivismo mal digerito, per cui per rendere meno amara la pillola si inventano giochi e diversivi, ma lo sostanza della didattica resta sempre la stessa. (…)
Per uscire dallo stress e dalla noia la strada da intraprendere non può che essere quella della creatività. (…) Le ricerche condotte dal “Learning 2030”, del canadese Waterloo Globale Science Initiative, hanno rispolverato e aggiornato un vecchio arnese della didattica attiva, l’apprendimento per progetti che pare funzionare. Il centro di questa idea forte non è l’insegnante che insegna ma lo studente che in autonomia apprende. Lo studente che sfida se stesso, che è motivato dal realizzare il progetto che ha scelto liberamente sulla base delle proprie potenzialità. Non c’è niente di meglio per chiamare in gioco la propria creatività che impegnarsi personalmente in un progetto grande o piccolo che sia. Vale per tutti, in particolare per i giovani che hanno bisogno di misurarsi con se stessi. È l’apprendimento operativo del costruttivismo piagetiano.
Gli studenti imparano attraverso progetti interdisciplinari e in collaborazione. Questi progetti consentono loro di costruire un equilibrio tra il fare e il sapere, di approfondire con rigore particolari aree della conoscenza. Di formarsi all’apprendimento permanente. Dal momento che l’interesse degli studenti per un argomento fa una grande differenza per la loro motivazione, sono gli studenti, con la guida degli insegnanti, a selezionare i soggetti dei progetti. Non solo, le attività di apprendimento sono direttamente correlate alle esigenze della società, per cui ogni studente è indotto a ricercare la collaborazione del territorio, di industrie, delle organizzazioni civili, dei media, e di altri gruppi locali. (…)
È un modo di descolarizzare la scuola tradizionale per strutturare lo studio diversamente, per pensare ad una scuola che può essere altra da quella che ogni giorno si dipana nelle nostre aule. Una scuola pressoché identica a se stessa, fedele nei secoli. Per le nuove generazioni non abbiamo saputo nel tempo inventarci di meglio che metterle a crescere in scatola. (…)

Fuori dagli edifici scolastici
Eppure il sapere che dovremmo trasmettergli dalla cattedra ai banchi non sta mica nelle scuole, sta decisamente fuori dagli edifici scolastici, sparso per i tanti luoghi della città dai musei alle biblioteche, dagli archivi ai teatri, nelle architetture e nei monumenti, nella vita e nelle esperienze delle persone che potrebbero condividere le tante cose che sanno.
Ma anche quel sapere l’abbiamo catturato, pressato e confezionato nelle nozioni, nei libri di testo, nelle LIM e nei tablet. Tutto per istruirli ed educarli con dosi di sapere artefatto, precotto e predigerito. Impresa difficile dentro quelle scatole portare bambini e adolescenti a scoprire l’avventura del sapere, il piacere del sapere fino ad amarlo e desiderarlo quasi come un oggetto erotico per dirla con Massimo Recalcati.
Viviamo nella società della conoscenza e, strano a dirsi, ai nostri ragazzi la conoscenza gliela forniamo fuori della società, il più lontano possibile dai suoi rumori e interferenze. (…) E allora classi chiuse, perimetri delineati in modo ferreo, zaini, compiti, un’altra vita dalla vita che sta fuori nella società della conoscenza, nella società dell’istruzione continua dalla nascita alla tomba, tutto un altro mondo dal mondo di tutti i giorni.
La gaia scuola un ossimoro sacrilego.
Sarebbe bello se con l’inizio di ogni nuovo anno scolastico politici, amministratori, insegnanti, genitori, dirigenti scolastici prendessero in mano e leggessero un libretto, poco più di un centinaio di pagine, La gaia educazione. L’ha scritto Paolo Mottana, professore di filosofia dell’educazione all’università di Milano Bicocca (…). Un’utopia? No, un’eutopia, spiega Mottana. La scuola come luogo buono e giusto, una sorta di tana, di base dove ci si rifugia a organizzare le proprie avventure, le incursioni in città, fuori nella società della conoscenza a scoprire cosa offre o come poter interagire lungo la strada che porta a conquistare il sapere. Per Mottana si tratta di invadere il territorio di esperienze, partendo dalla scuola-tana dove ci si trova la mattina per decidere dove andare, quali esperienze compiere, quali progetti mettere in cantiere. Non per fare cose astratte, ma per fare qualcosa di coinvolgente e partecipativo.
Far cadere le mura dove abbiamo rinchiuso bambini, ragazzi e insegnanti per fare educazione diffusa, educazione che invada delle loro voci, energie e intelligenze la città, che rompa il silenzio assordante degli adulti.
Significa fare del territorio il centro del progetto educativo, il luogo della crescita, delle avventure che attendono chi si incammina lungo la strada della conoscenza. La scuola diffusa oltre le aule, diffusa non dalla navigazione con i computer, ma tramite la navigazione per le strade e i luoghi della città.
È uscito un altro libretto che Paolo Mottana ha scritto con Giuseppe Campagnoli, architetto, già dirigente scolastico ed esperto dell’Unesco nel campo dell’educazione e della creatività. La città educante, Manifesto dell’educazione diffusa, come oltrepassare la scuola. Una alternativa radicale all’istituzione scolastica attuale, per rimettere i nostri giovani, piccoli e grandi in circolazione nella società, ma è necessario che scuola e città imparino a dialogare e si alleino per assumere il ruolo educativo in maniera invasiva.
Ma questo richiede anche che la città sia ripensata e questo è compito e responsabilità dei suoi amministratori, sia ripensata come città dell’apprendimento, dove luoghi e strutture urbanistiche siano progettati per essere gli ambienti di apprendimento dei suoi giovani, per essere luoghi di incontro anche con i saperi, esperienze di conoscenza di prima mano capaci di nutrire il desiderio e la passione del sapere. Luoghi pensati per narrare il sapere, nel senso etimologico di “gnarus”, vale a dire di rendere esperti, la narrazione come modo per mettere ordine al disordine delle esperienze.
Ragazze e ragazzi, bambine e bambini costituirebbero una nuova linfa da troppo tempo emarginata, mortificata, imprigionata nelle classi, nelle aule, nei banchi.
Non più insegnanti trasmettitori di discipline ma progettisti di ambienti di apprendimento, capaci di scrivere le sceneggiature dell’apprendimento, registi, compagni di viaggio, guide, professionisti capaci di agevolare i percorsi di interconnessione dei saperi, di formare all’autonomia e all’autorganizzazione.
Pensare i luoghi della città come luoghi di apprendimento non occasionale, come parte integrante del progetto educativo, come i luoghi di un’idea di scuola aperta, di scuola totale, di scuola olistica, dove gli edifici scolastici sono progettati per essere i punti di partenza e di ritorno.
Il sapere è movimento, è ricerca continua, non può amare la staticità delle aule e dei banchi, come del resto i nostri giovani, a queste condizioni, difficilmente possono innamorarsi del sapere e della fatica di studiare. (…)
Holon, la città dei bambini
C’è una città nel mondo che ha deciso di investire le sue risorse per diventare la città dei bambini e la capitale mondiale dell’istruzione permanente. (…) Nutrire l’intelligenza dei bambini è il successo della loro crescita. L’infanzia è il periodo più prezioso per lo sviluppo del nostro cervello. L’infanzia ha bisogno di ambienti di apprendimento, di luoghi capaci di stimolarne la naturale curiosità, l’esplorazione, l’interesse, l’abitudine a conoscere come quella a respirare e a nutrirsi. Ha bisogno di una rete intelligente di apprendimenti informali, non necessita di essere ordinata precocemente nell’istruzione scolastica. Da tempo Holon dimostra d’averlo compreso. Non Holon della Specie Delta, la regione del mondo immaginario dei Pokémon. Holon nel centro di Israele, vicina a Tel Aviv.
Centottantamila abitanti, nel 1990 era considerata la città dormitorio della classe operaia, guardata con sufficienza e vissuta come poco attraente dalla sua popolazione, con i giovani in fuga per trasferirsi in città vicine ritenute più interessanti. Motti Sasson, il nuovo sindaco, ha proposto ai suoi cittadini di fare di Holon una città della conoscenza, iniziando con l’adottare una nuova identità, quella di Città dei Bambini. (…)
In primo luogo la città cura l’ambiente e le infrastrutture educative. Crea istituzioni e attività culturali nuove e uniche, con l’intento di tessere un ambiente di apprendimento in cui i bambini siano esposti ad apprendere idee, fatti e conoscenze dai diversi campi della ricerca e del sapere. E allora sorge il museo dei Bambini di Israele, unico nel Medio Oriente, che offre un’esperienza interattiva ai bambini e ai loro genitori. Il “Meets the Eye”, un centro per vivere l’arte attraverso i mezzi tecnologici più avanzati, per stimolare l’intelletto dei bambini, arricchirne le conoscenze e iniziarli al linguaggio delle arti. Attraverso l’apertura del centro per l’Arte Digitale e l’istituzione del Centro Inter Domain, associato al Wiezmann Science Institute, i bambini accedono alle conoscenze scientifiche. Inoltre, Mediatech, il centro di teatro per i giovani. (…) Il tutto in un contesto di estetica urbana e ambientale unico. La cura dell’ambiente ha trasformato Holon in una delle principali città verdi di Israele (…)
È straordinario come Holon abbia individuato nel legame con le sue scuole la maggiore risorsa per la città e il suo futuro. Innanzitutto assegnando grande importanza all’autonomia degli istituti scolastici e alle professionalità che in essi operano. Su queste professionalità, che hanno in mano il destino dei bambini e dei giovani, la città investe. A partire da un lavoro di squadra con l’amministrazione all’interno ed all’esterno delle scuole, puntando verso il miglioramento professionale degli operatori scolastici, coinvolgendoli in seminari di formazione, in modo che le scuole siano i luoghi dove gli alunni potenziano le loro competenze e la loro creatività. (…)
La scuola per la gente del quartiere
Le mura possono cadere facendo delle scuole uno spazio pubblico. Se ne discusse qualche tempo fa ad Helsinki in un seminario dedicato al tema “Istruzione e spazio pubblico”. Al seminario hanno partecipato architetti e scienziati sociali provenienti da diversi paesi europei per discutere di edilizia scolastica come spazio urbano, didattico e politico. La scuola come luogo di vita non solo per gli alunni che la frequentano, ma anche per le famiglie, per la gente del quartiere, la scuola che si propone di fornire benessere e comfort.
La scuola spazio pubblico accogliente, aperta alla luce naturale, la scuola dove i bambini vanno a piedi nudi, godono di arredi appositamente studiati, di divani circondati da caldi tappeti dove poter leggere comodamente. Per gli architetti finlandesi progettare una scuola è una questione di orgoglio e di prestigio, non solo per gli investimenti pubblici messi a disposizione, ma per la centralità sociale che assume ogni edificio destinato a fornire, in dimensiona umana, istruzione e cultura agli alunni come alle persone del quartiere.
Un certo numero di giovani architetti sta progettando nuove scuole con una qualità formale in grado di generare un ambiente educativo invidiabile non solo da noi, ma dalla maggioranza dei paesi europei. Sono spazi flessibili che possono ospitare molteplici funzioni, la mensa si trasforma facilmente in un teatro o in auditorium. La flessibilità è necessaria affinché le scuole siano anche spazi urbani al servizio dei cittadini, non solo biblioteche di quartiere, ma luoghi di concerti, luoghi di incontro per gli adolescenti. Potremmo parlare di una scuola porosa, capace di vivere e servire il respiro del quartiere, di assorbirne gli umori e di risponderne alle esigenze. La porosità con l’ambiente si traduce in una buona appropriazione da parte del pubblico e in una buona integrazione nel tessuto urbano. (…) La polifunzionalità di quartiere, o comunque urbana, consente di evitare la costruzione non necessaria di altri edifici e la relativa spesa pubblica, la densificazione della città, oltre a produrre un notevole risparmio energetico. (…)
La scuola come spazio pubblico è questo luogo versatile, integrato nella città, non recintato, aperto e accessibile, in cui bambine e bambini, ragazze e ragazzi imparano a vivere insieme, ma si mescolano anche con estranei, adulti, giovani e anziani. È luogo che può incorporare occasioni e semi del conflitto, ma è soprattutto luogo di cittadinanza viva, di cittadinanza non predicata, ma praticata, luogo di autentica urbanità.
Docente, formatore, già dirigente scolastico, Giovanni Fioravanti vive a Ferrara. Un archivio dei suoi articoli è consultabile in questo link