di Marco Binotto*
La campagna #MaiConSalvini, le contestazioni agli appuntamenti del tour elettorale di Matteo Salvini, sono stati efficaci, hanno funzionato. Ma forse, visti i risultati delle elezioni, lo hanno anche favorito. Esistevano altri modi di contrastare il leader della Lega e il suo razzismo? Può darsi, bisognerebe scegliere altri modelli e nuove idee. Avere altre esempi. Per esempio negli Stati uniti…
Le nostre scelte dipendono dagli esempi. Le nostre azioni, giudizi, orientamenti dipendono da esempi, da immagini mentali, precedenti, storie, moniti. Sopratutto nell’agire culturale e politico il modo in cui si fanno scelte elettorali, ci si pronuncia in pubblico, ci si esprime, si prende parte dipende molto dai modelli che ci ispirano, da come ci immaginiamo la situazione, da quali pensiamo siano le regole del gioco. Nel momento di costruire una mobilitazione, un’iniziativa culturale, un atto di comunicazione questi modelli emergono, incidono nello scegliere argomento, metodi e stile. I movimenti sociali, la sinistra, le forze antirazziste, pare non abbiano più tanti modelli a cui ispirarsi.
Anzi, i tanti paladini a cui si riferivano appaiono ormai decaduti: da una parte assottigliati dall’inesorabile spugna della storia, dall’altra confusi tra una schiera sempre più zeppa di rivoluzioni e “cambi di verso”, guerriglie militari o di marketing, conflitti di classe e tra popoli, eroi popolari e nemici pubblici.
In più la politica, la grande informazione, la televisione, persino il web e i suoi social network offrono dei precisi modelli d’azione, enfatizzano e premiano precise possibilità, pratiche, giochi. La politica tanto quanto la storia raccontata al Liceo, il cinema al pari delle leggende che circolano in strada, ci raccontano – e cercano di farci appassionare – di scontri campali, di rese dei conti, di duelli epocali. La televisione ne è piena quanto il nostro immaginario: Berlusconi contro Prodi, D’Alema contro Renzi, Superman contro Lex Luthor, Tom contro Jerry… La scena politica, quanto Facebook, appare un ring, un saloon dove le idee si confrontano a suon di urla e forza bruta.
La combinazione di questi due elementi produce, credo, la forza e i risultati di #maiconsalvini. D’altro lato ha però confermato tutti i modelli e le aspettative. Dei militanti, della politica, del giornalismo e, diciamolo, di Salvini. Appare così chiaro che persino gli editorialisti di punta alla Francesco Merlo oppure i comici-in-politica, esperti di media e rabbia, riescono bene ad analizzarlo: Matteo Salvini, come da sempre la Lega Nord, trae beneficio proprio dalle polemiche che suscitano, è felice di questo tipo di contestazioni, ne gode i frutti. Né è il principale istigatore e il primo a passare all’incasso. Ma l’editorialista si accontenta constatare, di analizzare. Non può fornire alternative. Non può e sa proporre. Invece – lo abbiamo appena ricordato – c’è bisogno di esempi, proposte, idee. Nuove idee. Non possiamo accontentarci di scrivere belle parole su un giornale.
Vogliamo proporre e portare in strada alternative a quel modo di trattare la nostra intelligenza e le politiche pubbliche. Continuare a contrastare idee così stupide e razziste. Dobbiamo e dovevamo dire e ribadire #maiconSalvini, ma potevamo trovare un modo diverso.
La prima regola di un movimento dovrebbe essere quella di rompere le regole, a partire dalle proprie. Trasformare la situazione. Ridefinire il contesto. I modelli, appunto. Il problema allora è di crearne altri. Conoscerne altri. E già, ma dove li troviamo?!
Eppure esempi esistono. Non qui, forse, non solo on line, dove la fantasia non manca (basti pensare al caso Sucate o i gatti per Salvini). Qui manca qualcosa di fantasioso e organizzato, diverso e duraturo. In passato e altrove, altre campagne hanno cercato di contrastare un singolo candidato, una proposta politica. E non hanno usato la forza dei muscoli, l’interposizione dei corpi e delle uova. Hanno dimostrato che era possibile ridefinire le regole della situazione. Parliamo delle campagne elettorale Usa del 2000 e del 2004, quelle tra George W. Bush e, rispettivamente, All Gore e Kerry.
Alcuni gruppi decidono di contrastare queste candidature. Decidono però di non utilizzare i metodi di sempre. Manifestazioni, presidi, blocchi, invettive. Decidono di mostrarsi a se stessi e agli altri in modo diverso, inatteso. Decidono di usare l’ironia, il paradosso. Immaginate allora una manifestazione pubblica in cui un gruppo di super-ricchi, dei Paperon de’ Paperoni alla Monopoli, donne vestite in abito da sera e uomini con tanto di frac e tube nere, limousine e coppe di champagne, proclamare il loro appoggio al candidato Presidente: sono The Billionaires for Bush, i “Miliardari per Bush”. Il messaggio è evidente, se quel candidato (o l’altro) vincesse, alle grandi imprese e ai ricchi sarebbero garantiti enormi vantaggi: per questo i miliardari si schierano con lui. Ma gli slogan spiegano questa “discesa in campo” dei privilegiati in modo ancora più chiaro: “Perchè la disaguaglianza economica non sta crescendo abbastanza in fretta”, “Non lasciamo nessun miliardario indietro”, “Guerra di classe: finiamo quello che abbiamo cominciato”, “Anche le Corporations sono persone”.
La campagna ebbe un bel successo, è “cresciuta da uno a cento gruppi in pochi mesi, ha costruito una mailing list di 10,000 iscritti, organizzato sei giorni nazionali di azione e un innumerevole quantità di eventi locali, attratto l’attenzione di oltre 250 media mainstream” (Duncombe). La campagna ha organizzato diversi “limo tours” e si è presentata con una “Million Billionaire March” durante la Convention Democratica durante la quale 400 miliardari esponevano cartelli con gli slogan dell’iniziativa. Un modo spettacolare, buffo e divertito, per mostrare a tutto l’elettorato l’essenza dei rapporti tra politica e poteri economici negli Stati Uniti.
Una gigantesca operazione di satira, non confinata nelle pagine di un quotidiano o in un passaggio televisivo, ma costruita in strada da centinaia di persone. Persone consapevoli della situazione di svantaggio in cui si trovano, della forza mediale, monetaria e culturale, della controparte e dell’impegno con cui i media mainstream possono far prevalere un’interpretazione della realtà. L’obiettivo è proprio aggirare la forza dell’avversario: uscire dalle cornici in cui ogni resistenza popolare, ogni voce alternativa, viene ingabbiata; ridefinire in modo creativo il modo in cui vengono presentatati questi conflitti (politica seria vs. movimenti estremisti, buonismo vs. politicamente scorretto, libertà d’espressione vs. censura, …). Rendere evidente ed esplicito, attraverso la potenza dello scherzo, quello che è solitamente nascosto e implicito. Rendere visibile l’invisibile.
Allora godiamoci queste esperienze almeno quanto ci fa arrabbiare il razzista di turno. Studiamo questi esempi almeno quanto ci appassionano le letture del romantico guerrigliero cubano. Saremo allora pronti e pronte a non cogliere la prossima occasione per scompaginare le carte, ribaltare una situazione di debolezza. Ci verrà forse in mente un modo giocare ad un altro gioco, che magari, questa volta, ci possa anche far divertire.
Guarda il caso, tra poche ore uscirà il nuovo film degli The Yes Men altri due eroi burloni che da anni usano la linea dell’ironia al posto della prima linea per mettere alla berlina il potere: The yes men are revolting. Non possiamo perderlo. Di nuovo.
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