Al neonato circolo Nadir, spazio di mutualismo e socialità, sono cominciati gli incontri di formazione, aperti a tutti, sull’agricoltura urbana. Li organizza il progetto Gasparorto, nato in una piazza, da cui prende il nome, vicino alla stazione di Padova. Uno dei partecipanti racconta cosa ha imparato all’evento che unisce due delle tante realtà locali che vanno controcorrente per trasformare la propria città: perché, per cambiare i luoghi che viviamo, si può anche partire da un orto e dal suo clima
di Annalisa Scarpa*
Sabato 4 febbraio, presso il neonato Circolo Arci Nadir di Padova, si è tenuto il primo incontro di formazione sull’agricoltura urbana a cura del progetto Gasparorto. A condurlo è stato Filippo Vettorato, uno dei fondatori del progetto e titolare di Orto sul terrazzo, che, dopo due anni dall’avvio, sente con gli altri ortisti l’esigenza di un approfondimento tecnico e di un ampliamento del gruppo: incontri aperti dunque anche a chi non si occupa di questi temi.
Temi centrali dell’incontro il suolo, il ruolo dell’orto nel contesto urbano, l’importanza di una coltivazione naturale con alcuni suggerimenti per realizzarla secondo il principio che “prevenire è meglio che curare” e che, in generale, affannarsi non serve a niente. L’agricoltura urbana viene definita “fuori suolo”, che non va confusa con il concetto di “senza suolo”. La terra che serve è infatti meno, ma la sua qualità diviene un fattore cruciale per la riuscita delle colture.
Non tutti sanno, ad esempio, che il terriccio universale che si trova al supermercato è torba, vale a dire terra morta: dà buoni risultati nell’immediato, ma necessita di essere rinnovata molto presto. Una buona terra deve essere ben bilanciata tra la sua componente inorganica e organica: al terriccio si può aggiungere, in base alle esigenze di coltivazione, compost maturo ma anche argilla, sabbia, pietre, rami, così da favorire il drenaggio dell’acqua e permettere il passaggio dell’ossigeno. Tenere arieggiata e idratata la terra è infatti un altro punto importante: poca acqua fa, ovviamente, seccare il suolo, ma il ristagno può all’opposto far marcire la pianta.
Altro aspetto centrale il clima: se non possiamo “fare il buono e cattivo tempo” all’esterno, riusciamo però modificare il microclima dell’orto: favoriamo l’ombreggiatura e la biodiversità con le siepi, contrastiamo con la pacciamatura le erbe infestanti, permettendo di ridurre le innaffiature, creiamo ambienti di collaborazione attiva tra le piante e il suolo con associazioni e rotazioni.
Fondamentale quindi, per limitare infestazioni e problemi, progettare attentamente la struttura dell’orto e gli interventi da fare nei diversi momenti dell’anno. Di fronte ai problemi che arriveranno, infine, il rimedio è accettarli con serenità, rispettando i tempi di recupero e soprattutto rientrando in contatto con una natura reale, che non sempre è iperperformante e produttiva: ogni orto, in particolare se stagionale, ha un ciclo vitale che prevede una fine.
Coltivare un orto urbano rimane però una buona idea, sia dal punto di vista sociale sia ambientale. Con l’agricoltura urbana si crea comunità, si contrasta l’effetto “isola di calore” di cui soffrono i nostri centri urbani, si consuma meno e meglio, si autoproduce per provare ad andare verso l’autosufficienza alimentare.
Tante le esperienze di successo: dal ristorante di grido alle cucine popolari, dall’azienda che vuole fare team building al pensionato che coltiva un’utopia sul suo tetto a Torino. Riavvicinarsi alla natura non deve necessariamente portarci a un esodo dalle nostre città: per cambiare approccio e microclima si può partire già da un piccolo orto.
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