L’invasione non c’è. L’emergenza neppure. Eppure tanto i discorsi quanto le politiche che si attivano nei confronti dei rifugiati sembrano sempre più condizionate da queste cornici interpretative. Non è certo una novità: il trionfo della retorica dell’emergenza è materia prima delle politiche migratorie almeno dai tempi delle Primavere arabe (qualcuno ricorderà l’epoca dell’Emergenza Nord Africa, a gestione della Protezione Civile) e lo spauracchio dell’invasione viene brandito – non solo dai politici di destra – almeno da vent’anni, e senza alcuna correlazione diretta né coi i numeri assoluti del fenomeno, né con quelli relativi, in rapporto per esempio alla popolazione autoctona, allo stato di salute dell’economia locale e alla distribuzione globale delle persone in fuga. Certo è che nell’ultimo anno l’accelerata repressiva ha assunto una velocità e una ferocia che deve preoccupare non solo gli addetti ai lavori e i difensori dei diritti dei migranti, ma anche la più ampia platea di cittadini e cittadine interessati a coltivare le basi per una positiva convivenza in società sempre più multiculturali.
I dati e le analisi presentati nell’ultimo rapporto della Fondazione Migrantes “Liberi di scegliere se migrare o restare?” dimostrano che quel punto di domanda posto alla fine del titolo prelude a una risposta negativa. Nel 2023 la libertà dei migranti di scegliere di restare nel proprio luogo d’origine è stata ulteriormente compressa: 56 paesi afflitti da conflitti armati, la spesa militare che ha raggiunto una stima «record» di 2.240 miliardi di dollari (più 3,7% rispetto al 2022), circa 800 milioni di persone alle prese con la fame, 2 miliardi le persone nel mondo che non hanno accesso all’acqua, più di 33,6 milioni di persone che hanno dovuto lasciare la loro casa per tempeste, alluvioni, cicloni, incendi forestali, smottamenti e siccità, circa 50 milioni di persone ridotte a vivere in schiavitù (di cui 12 milioni minori), persecuzioni e restrizioni alle libertà personali che si diffondono a ogni latitudine (solo a titolo d’esempio in 66 paesi del mondo gli atti omosessuali sono criminalizzati, sino a prevedere la pena di morte in 12 di questi, e 61 paesi hanno fatto contare violenze legate alla libertà religiosa). La libertà di rimanere in pace, sicurezza, dignità nel proprio paese è quindi preclusa a un numero crescente di persone, tanto che a fine 2023 si contavano 114 milioni di persone sradicate forzatamente nel mondo, pari a 1 abitante ogni 71. Il record assoluto, finora.
Ma se pensiamo che questo quadro così grave e preoccupante legittimi la paura di un’invasione, siamo fuori strada. Nel 2023, come sempre del resto, i rifugiati e i migranti forzati sono rimasti per lo più nelle aree vicine al loro luogo d’origine. Nonostante l’incremento di arrivi e presenze in Europa connesso alla guerra in Ucraina, il nostro continente continua a essere all’ultimo posto in termini di accoglienza di persone in fuga. Infatti, 40 milioni si trovano in Africa, più di 30 milioni in Asia, 15 milioni in America Latina e poco più di 14 milioni in Europa. Il 76% delle persone in fuga è accolto da paesi a basso o medio redito, il 70% si trova nei paesi confinanti a quelli di origine e fuga, il 20% (uno ogni 5) in paesi che sono in assoluto i più poveri del mondo. I paesi con più rifugiati in numeri assoluti sono la Turchia (3,4 milioni), l’Iran (3,4 milioni), la Germania (2,5 milioni), la Colombia (2,5 milioni), il Pakistan (2,1 milioni). Solo un paese europeo, dunque, nella top five e nessuno se andiamo a guardare alla loro presenza in rapporto alla popolazione locale. Ai primi posti troviamo Aruba, con un rifugiato ogni sei abitanti, e il Libano, con uno ogni 7, seguiti da Curacao (1 ogni 14), Montenegro (1 ogni 15) e Giordania (1 ogni 16).
I migranti non sono liberi di restare. Ma nemmeno di migrare, tanto più se si tratta di cercare di raggiungere l’Europa. Questa è l’evidenza che ci restituiscono i dati del 2023. E fa ancora più male – a fronte di questo scenario – rileggere a un anno di distanza l’effetto che l’ennesima tragedia del mare consumatasi a pochi metri dalla costa di Steccato di Cutro nel febbraio del 2023 ha prodotto in termini di politiche e di norme nel nostro paese. Ma ancor prima in termini di immaginario: non si possono scordare infatti le parole del ministro degli interni Piantedosi, che ha rovesciato la colpa delle morti sui migranti stessi, rei di essere genitori irresponsabili (“La disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo la vita dei propri figli”) o quelle del primo ministro Meloni, che ha minacciato i migranti di detenzione e rimpatrio, a prescindere dalle ragioni della partenza (“voglio lanciare un messaggio chiaro a chi vuole entrare illegalmente in Italia, non conviene affidarsi ai trafficanti di esseri umani perché vi chiedono molti soldi, vi mettono su barche che spesso non sono attrezzate per fare quei viaggi in ogni caso se entrate illegalmente in Italia sarete trattenuti e rimpatriati”).
I “pochi” migranti che nonostante tutto riescono ad arrivare in Europa attraverso le pericolose vie del mare o il percorso ad ostacoli, disseminato di respingimenti a catena, che contraddistingue le vie terrestri attraverso i Balcani, non sono i benvenuti. Come confessa amaramente un richiedente asilo, in un’intervista riportata nel contributo di Michele Rossi nel già citato report sul diritto d’asilo: “Io non dico che mi aspettavo di essere trattato come un eroe, ma che l’Italia riconoscesse che ce l’avevo fatta, sì. Devi scappare, ce l’hai fatta, sono successe cose brutte, le hai superate, ma poi ti confondi in una massa di persone e diventi un numero”. E i decreti – poi legge – approvati dopo la tragedia di Cutro non fanno che ribadirlo. Diventi un numero. E vai a ingrossare le fila di coloro che non sembrano più avere nemmeno il diritto pieno di chiedere asilo e di godere di standard minimi di accoglienza. Non sarà un caso – come puntualizza amaramente il giurista Paolo Bonetti del report – che sia stato adottato un nuovo e più ampio elenco dei paesi di origine sicuri ai fini della protezione internazionale, nel quale sono stati inclusi Stati (tra cui Costa d’Avorio, Gambia, Ghana, Nigeria, Senegal, Tunisia) dai quali provengono di fatto l’80% dei richiedenti asilo in Italia: “il che forse spiega la vera motivazione che ha indotto ad adottare il decreto, con intenti dissuasivi o repressivi di possibili abusi che rischiano però di travolgere i tanti casi fondati”. Il percorso per ottenere protezione in Italia è dunque sempre più in salita e nel frattempo lo smantellamento del sistema di accoglienza rende le persone ancora più invisibili, meno tutelate e sole di fronte a quello che poteva diventare l’approdo sicuro in cui ricostruirsi una vita.
Foto: “rohingya refugees” di AK Rockefeller (CC BY-SA 2.0 DEED)
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 52 di Febbraio-Marzo 2024: “Europa: a che punto è la notte?“
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