La guerra serve per ottenere, in questo momento, un potere sufficiente ad accumulare ricchezza trasformando la vita in merci. Per farlo, c’è bisogno di “liberare” da ogni intralcio territori che servono al dominio dei potenti per speculare sulla natura come sulle nostre esistenze. La guerra, le guerre non sono dunque il frutto di follia o deliri paranoici di qualche potente, come si scrive e si lascia credere spesso, e non sono un fine in sé. A guardarle dalla prospettiva latinoamericana, cioè dai territori in cui vive e che percorre con maggior frequenza, Raúl Zibechi si interroga sul perché, lì e altrove, il pensiero critico non riesca a mettere in connessione, per esempio, il genocidio che si consuma in Palestina, con quello delle popolazioni maya avvenuto in Guatemala: 200mila morti e mezzo milione di sfollati, ma anche con quel che accade oggi in Messico o in Colombia, dove intere regioni vengono spopolate da chi le abita per essere poi ricostruite secondo le esigenze del potere, cioè della maggiore concentrazione del capitale. Non si tratta, naturalmente, di geografie, situazioni e realtà uguali ma esistono nessi e legami che vanno scoperti e approfonditi per provare a comprendere una riconfigurazione del mondo basata sulla violenza e una profonda trasformazione delle democrazie e degli Stati-nazione come li abbiamo conosciuti fino ad ora. Quel che più ci serve, sostiene Raúl, è il recupero di un pensiero strategico. Un pensiero nuovo, non quello eurocentrico elaborato in un mondo che non esiste più, capace di promuovere resistenze adatte ad aprire uno scenario chiuso come quello attuale, resistenze in grado di aprire quello scenario ai mondi nuovi che lottano per sopravvivere. Il pensiero che avevamo, scrive Zibechi, è caduto nelle buche dell’immediato e del possibile, si è subordinato agli Stati e ha fatto della geopolitica la sua spina dorsale, lasciando da parte gli obiettivi a lungo termine dei popoli, l’autonomia e l’autodeterminazione collettiva. La potenza creativa dei popoli indigeni, delle donne organizzate e di coloro che lottano in basso, nei settori popolari, alimenta la speranza che quel pensiero nuovo possa nascere e crescere
Stiamo attraversando uno dei momenti più critici per l’umanità de abajo da molto tempo a questa parte. Possiamo tornare a dire che uno spettro si aggira per il mondo: la pulizia etno-sociale, l’allontanamento forzato di milioni di persone per liberare territori che servono al dominio dei potenti per speculare sulla vita. Noi siamo diventati un intralcio per l’accumulazione attraverso l’espropriazione. Questo è il quadro di fondo delle guerre in corso, che sono guerre contro i popoli.
Il pensiero critico dovrebbe essere in grado di collegare ciò che sta accadendo oggi nella Striscia di Gaza, ad esempio, con il genocidio maya e la politica della “terra bruciata
” degli anni Ottanta del Novecento in Guatemala, quello che causò 200mila morti, mezzo milione di sfollati e 200mila rifugiati. E anche con le politiche di controinsurrezione nel Cono Sud del Sudamerica, in Colombia e in molti altri Paesi.
Oppure, per fare un altro esempio che rimane ai giorni nostri, siamo in grado di comprendere cosa c’è in comune tra la guerra del sionismo contro il popolo palestinese e quella “alla droga
” scatenata in Colombia, Messico e in altre aree geografiche della nostra regione latinoamericana?
La guerra non è mai stata un fine in sé. È solo un mezzo per raggiungere altri scopi: per ottenere, ad esempio, in questo momento un potere sufficiente ad accumulare ricchezza trasformando la vita in merci. Quel che l’EZLN ha definito a suo tempo “la quarta guerra mondiale
” e che ha il suo asse nello spopolamento di intere regioni per ricostruirle secondo le esigenze del potere, cioè della maggiore concentrazione del capitale.
Questo è il nucleo della politica di arriba (di quelli che stanno in alto, ndt), non solo in Palestina, ma in tutto il mondo, con le varianti specifiche di ogni situazione, di ogni geografia e di ogni popolazione. Non voglio dire, naturalmente, che Gaza e il Chiapas siano la stessa cosa, ma che esiste un legame tra tutte queste realtà che questa è la modalità di accumulazione del capitale nel periodo in cui siamo.
Di conseguenza, dobbiamo convenire che oggi esiste a malapena una caricatura di ciò che sono state le democrazie, che le libertà stanno venendo ridotte molto seriamente, come è già accaduto durante la pandemia del Covid, e che ora questa condizione tende a instaurarsi in diversi paesi d’Europa, dove perfino portare una bandiera palestinese è diventato un crimine.
È sempre più necessario distinguere tra regime elettorale e democrazia reale, perché gli Stati-nazione sono cambiati, non difendono più nemmeno la sovranità nazionale né i diritti e le libertà dei cittadini. Abbiamo invece la crescita della militarizzazione delle città e dell’imprenditoria estrattiva, per controllare le popolazioni e garantire il flusso delle merci.
A Rio de Janeiro chiamano “Stato miliziano
” quell’istituzione modellata da tre aspetti: quello coloniale, la dittatura che ha creato gli squadroni della morte e l’attuale accumulazione per espropriazione. La polizia non è più uno strumento del governo ma “un fine
in sé”, rileva la filosofa brasiliana Camila Jourdan nella recente edizione degli Arquivos Brasileiros de Psicologia (https://goo.su/h5sO).
La polizia come fine, scrive, “cancella i confini tra legale e illegale, diventando una milizia
“, erede degli squadroni. A Rio, il potere dice delle madri delle favelas che sono “fabbriche di trafficanti
“, con la stessa odiosa naturalezza con cui il ministro della difesa israeliano ha descritto i palestinesi come “animali umani
“ (https://goo.su/dtBHg).
Ciò che sta accadendo davanti ai nostri occhi è la riconfigurazione del mondo attraverso una violenza dura e pura. Come già segnalò Immanuel Wallerstein, la classe dominante sta giocando duro per mantenere i suoi privilegi quando il capitalismo e le nazioni come le conoscevamo una volta non esistono più. Ecco perché fanno le guerre e instaurano lo stato di eccezione
permanente” denunciato da Agamben.
Credo che per los de abajo la cosa decisiva e più importante non sia la denuncia (che continuerà certo ad essere necessaria), ma piuttosto tracciare politiche per affrontare questa situazione inedita. Quali strade dobbiamo percorrere, come movimenti de abajo, come popoli in movimento, come collettivi e persone che vogliono affermare la dignità?
Se ne concludiamo che che le scelte debbano venire da un “noi
” collettivo, se conveniamo sul fatto che la posta in gioco è la vita, dobbiamo pur fare qualcosa. Quel qualcosa passa dal recupero di un pensiero strategico, capace di promuovere resistenze adatte ad aprire uno scenario chiuso come quello attuale, ad aprirlo ai mondi nuovi che lottano per sopravvivere.
Quel pensiero è caduto nelle buche dell’immediato e del possibile, si è subordinato agli Stati e ha fatto della geopolitica la sua spina dorsale, lasciando da parte gli obiettivi a lungo termine dei popoli, l’autonomia e l’autodeterminazione collettiva.
In questo periodo, però, non è possibile ritornare alle vecchie strategie. Esse furono coniate per altri periodi ed elaborate da un insieme di maschi bianchi, accademici, della classe media, formati su idee eurocentriche e individualiste.
La potenza creativa dei popoli indigeni e delle donne organizzate rende improbabile che questo modo di elaborare obiettivi e strategie si ripeta. Essi nasceranno dal fare collettivo dei popoli e dei settori popolari, da los de abajo.
fonte e versione originale in spagnolo: la Jornada
traduzione per Comune-info: marco calabria
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