Cattedre più alte per i professori, gite solo in Italia, obbligo di alzarsi in piedi all’ingresso dei docenti, divieto di autogestioni, dare il nome di personalità illustri agli istituti … Il decalogo reazionario per la scuola di Ernesto Galli della Loggia è illuminante dei tempi che viviamo quanto inquietante. Monica Guerra lo smonta qui con molta pazienza (ma anche con tanta rabbia e tristezza) punto per punto: la critica più interessante e profonda, dal nostro punto di vista, probabilmente è la numero 10, a proposito dei nomi per le scuole: “Avere un passato e conoscerlo è certamente una priorità, ma dare il nome di personalità illustri agli istituti è la rappresentazione di un modo di intendere la storia nobile solo per lignaggio e, con ciò, preoccupantemente parziale, perché nega che il nostro passato sia fatto anche di gente comune che la storia la ha fatta e la fa”
di Monica Guerra*
Vorrei avere il tempo per poter rispondere punto per punto per bene all’editoriale Cattedre più alte per tutti i professori di Ernesto Galli della Loggia, ma non lo ho perché lavoro. Nell’università vera, perché dialoga con le scuole vere. E in questo momento avverto tutta la fragilità della parola e del gesto educativo, mangiato vivo dalla presunzione diffusa che chiunque debba e possa parlare di scuola. Io so che non scriverei un editoriale di storia, nemmeno per scherzo, perché non ne ho le competenze. E a volte ho il dubbio di non averne abbastanza neppure per parlare con completa cognizione di scuola. Ma il rigurgito reazionario di chi sta in cima ad una predella altissima mi fa, se non rabbia, almeno tristezza, perché sostiene soluzioni semplificate a problemi complessi e insinua l’idea che basti poco poco (qui pure piccolo piccolo) per ripensare la nostra scuola e il nostro paese.
Ecco qualche osservazione, che confido altri mi aiuteranno a sviluppare, sperando si riveli tutto un scherzo (terribile, nel caso, visti i commenti tutti favorevoli postati sulla pagina online del quotidiano).
1) L’autorevolezza di un insegnante non si costruisce attraverso una predella, ma in una relazione educativa di reciproco rispetto, per quanto in ruoli distinti. Perché la scuola è il luogo dove si deve apprendere – e non solo a parole – che cos’è la democrazia (che non è anarchia, se fosse sfuggita la distinzione), soprattutto oggi.
2) Come sopra, il rispetto non passa dall’obbligo di alzarsi in piedi. I gesti, come i simboli, sono oggetti delicati, da maneggiare con cura: è attraverso alcuni di essi che hanno origine anche le autocrazie, come uno storico dovrebbe ben sapere. Già che ci siamo, potremmo inchiodare banchi e sedie, in file rigorosamente frontali davanti alla cattedra sulla predella, così da impedire ogni occasione di lavoro di gruppo, di cooperazione e di collaborazione e, insieme, di confronto, costruzione e decostruzione dei saperi.
https://comune-info.net/2014/07/scuola-diversa-2/
3) Frequentandole, conosco scuole secondarie in cui i giorni di “autogestione” (quelli di occupazione sono passati da un pezzo) sono opportunità credibili per gli studenti di delineare insieme ai loro docenti programmi di approfondimento di cui si assumono la responsabilità. Sarà per questo che non opporrei divieto ad alcuna festa degli alberi, celebrazione antica che oggi rinnova il suo senso per generare appartenenza a questo nostro mondo.
4) La partecipazione delle famiglie è una conquista, un esercizio democratico oggi quanto mai necessario per aprire spazi di dialogo intorno alle reciproche responsabilità nella crescita di bambini e ragazzi: un conto è ripensarla, un altro è eliminarla. Anche perché, lungi da ogni demagogia, la partecipazione delle famiglie è anche ciò che oggi permette a tante scuole di avere la carta igienica, il sapone per le mani, i fogli per le fotocopie, i soldi per le uscite didattiche (anche quelle vicine a casa e tutte su suolo italico). Infine, pure nei migliori ospedali che accolgono bambini e ragazzi la definizione di modalità di presenza e parola dei famigliari è considerata uno degli elementi di qualità.
5) Le riunioni, non il loro abuso, sono quei momenti in cui gli insegnanti progettano tra di loro, si formano, approfondiscono. Ma a questo punto del discorso è chiaro che pensare fa male, anche a chi insegna: sia mai gli venga la tentazione di insegnarlo.
6) Rendere partecipi gli studenti della cura delle proprie scuole è una delle poche cose su cui si potrebbe ragionare, ma due obiezioni permangono. Difficile credere che, con tutti gli obblighi sopra e sotto, affidare le pulizie instillerebbe a questo punto del discorso sentimenti di appartenenza di bambini e ragazzi ai piedi di predelle. Il piccolo e non indifferente risparmio economico, poi, avrebbe la non banale conseguenza di eliminare qualche posto di lavoro, ma questo, forse, a certe altezze non si vede.
7) L’uso e l’abuso di tecnologia da parte dei ragazzi (e degli adulti) non finisce con l’ennesimo anacronistico divieto, ma ha bisogno di dialogo non mediato, di accompagnamento all’utilizzo, di approfondimento. Sono cose che costano fatica, ma per le scorciatoie è tardi.
https://comune-info.net/2018/06/la-scuola-degli-autorevoli-editorialisti/
8) Tenere aperte biblioteche e cineteche nelle scuole è un’altra proposta (ma non obbligo), che potrebbe avere senso, se non facesse temere liste di film graditi e altre di banditi. E se, per provvedere ai fondi, si ipotizzasse di dimezzare i compensi di illustri personaggi della cultura, anziché quelli dedicati alla formazione degli insegnanti, con tutti i limiti che la carta docenti può avere.
9) Persone che seriamente si sono occupate di scuola hanno proposto diverso tempo fa di concentrare le uscite didattiche in luoghi prossimi, ma obbligare a scegliere mete solo italiane è rendere a priori impossibili viaggi oltre confine che per alcuni studenti rappresentano occasioni uniche e che invitano a guardare oltre e altro. I ragazzi non stanno solo dentro alle scuole, ma dentro al mondo. E gli insegnanti sono in grado di valutare cosa è meglio per loro.
10) Avere un passato e conoscerlo è certamente una priorità, ma dare il nome di personalità illustri agli istituti è la rappresentazione di un modo di intendere la storia nobile solo per lignaggio e, con ciò, preoccupantemente parziale, perché nega che il nostro passato sia fatto anche di gente comune che la storia la ha fatta e la fa.
Quando si avviano discorsi sulla scuola a colpi di obblighi e divieti, si avverte la tensione di chi li istruisce verso il ripristino di una (in)sana aristocrazia culturale, che poi è sempre anche economica e politica. La scuola è una cosa seria: forse bisognerebbe introdurre l’obbligo di non parlarne a caso.
* Ricercatrice di Didattica e ricerca educativa presso il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione dell’Università Bicocca di Milano è presidente dell’associazione “Bambini e Natura”. Fa parte della Rete di educazione cooperativa. Ha aderito alla campagna Facciamo Comune insieme..
valentina dice
fantastica…. ebbene condivido punto per punto