È ormai da molti anni che la dinamica distruttiva del capitale ha accentuato il suo carattere dispotico. Il suo dominio non viene esercitato solo sui singoli individui ma soprattutto sulla cooperazione che li connette. La cultura dominante non può tollerare un’organizzazione diversa del modo di vivere e utilizza ogni mezzo per ridurre all’omologazione o cancellare ogni espressione di una diversità che resiste e cerca di autodeterminarsi, di fare le cose, soprattutto in modo collettivo, come ne abbiamo bisogno e come desideriamo che siano. Le resistenze e le ribellioni esistono, in forme diverse e non sempre visibili, in alcune regioni del mondo – il Chiapas o il Rojava, per citarne solo due – oppure solo in alcune pratiche e culture politiche si affermano nei territori, spesso in modo temporaneo e non privo di contraddizioni. Sono le nostre ribellioni che riescono a costruire mondi ‘altri’, nuovi, autonomi e soprattutto diversi. Quella differenza, però, non cade dal cielo, non è un dato di fatto, non è naturale né inamovibile, come ricorda qui Raúl Zibechi. Va coltivata, difesa, approfondita, curata ogni giorno, ogni ora

L’impegno della classe dominante è tutto rivolto a eliminare o appiattire le differenze che mostrano i modi in cui viviamo, le pratiche quotidiane dei popoli, delle classi e delle persone rispetto alla cultura che quel dominio impone. Per questo si militarizzano regioni intere e, da cinque secoli, si compiono genocidi e stermini di popolazioni.
L’evangelizzazione forzata promossa (in América Latina, ndt) dai conquistadores mirava a distruggere l’autonomia politica e culturale dei popoli originari, ancorata a modi di vita comunitari e a spiritualità diverse ma inconciliabili con l’espropriazione portata avanti dal nascente capitalismo. Non si trattava di una questione di religioni, di dèi veri o falsi, ma del fatto che i popoli non dovevano continuare a vivere a modo loro, secondo i loro usi e costumi.
La distruzione dei modi di vita dei contadini inglesi è stata la chiave per l’instaurazione e l’espansione del capitalismo, come mostra l’analisi di Karl Polanyi nel suo La grande trasformazione. A tale scopo è stata applicata la violenza dall’alto, sottraendo i terreni comuni (i commons) ai contadini per trasformarli in vagabondi che avrebbero finito per diventare lavoratori imprigionati nei mulini satanici (satanic mills), [i] chiave di volta della rivoluzione industriale.
L’offensiva contro le taverne e gli altri spazi frequentati dai lavoratori all’inizio del XX secolo ha cercato di distruggere gli ambiti in cui gli operai utilizzavano il loro tempo libero per mettersi in relazione fra loro in modi diversi da quelli imposti dalla logica capitalistica, trasformandoli anche in territori di autonomia culturale e di organizzazione delle loro resistenze, come spiega James Scott in Domination and the Arts of Resistance [ in italiano Il dominio e l’arte della resistenza].
Possiamo risalire ai giorni della schiavitù (quando i quilombos e i palenques[ii] erano spazi di libertà e di rivolta), o venire ai nostri giorni (quando gli stadi di calcio, che erano spazi di pertinenza della classe operaia, diventano meccanismi di accumulazione per espropriazione e di speculazione finanziaria), per verificare che la storia delle lotte è anche quella della distruzione e della riproduzione delle differenze di classe, di colore della pelle, di genere e delle diversità sessuali.

La guerra che oggi colpisce i popoli indigeni e afroamericani di tutto il continente, i contadini, le donne e i giovani che lottano, mira a spogliarli dei loro modi di vivere e a renderli dipendenti dal capitale. Viene fatta per costringerci a servire. Per farci diventare schiavi salariati, che per meno di un salario minimo dedicano la propria vita a lubrificare l’accumulazione capitalistica.
La brutale offensiva contro i popoli nativi, dal Chiapas e dalla Sierra Tarahumara al sud del Cile, mira a espellerli dalle loro terre per trasformarle in mercanzie, certamente; ma avviene anche perché nei loro territori i popoli vivono in modo eterogeneo rispetto al capitalismo. In questo caso, territorio e differenza sono intrecciati fra loro, e sono ciò che permette la continuità della resistenza.
Nel suo ultimo lavoro (Ir más allá de la piel, Tinta Limón, p. 51),[iii] la femminista Silvia Federici sottolinea che durante la Grande Depressione le donne bianche della classe operaia venivano sterilizzate quando erano considerate deboli di mente, una categoria utilizzata dagli operatori sociali e dai medici per etichettare le donne considerate promiscue e inclini ad avere figli al di fuori del matrimonio. Cioè, per la loro diversità dal modello capitalistico di donna.

La differenza, le differenze, sono potenzialmente anticapitalistiche, ma non in modo meccanico. Allo stesso tempo, però, possiamo affermare che se non ci sono modi di vita, culture e visioni del mondo diverse da quelle egemoniche, è impossibile qualsiasi resistenza duratura, qualsiasi aspirazione a cambiare il mondo e superare il capitalismo costruendo mondi-‘altri’, nuovi e, soprattutto, diversi. Questo punto è stato adeguatamente sottolineato dall’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale.
La seconda questione è che la differenza non cade dal cielo, non è un dato di fatto, ereditato o inamovibile. Va coltivata, difesa, approfondita, ogni giorno, ogni ora, in resistenza contro chi vuole eliminarla. Il sistema lo fa in diversi modi. Fra questi ci sono la violenza e l’assedio che subiscono tante comunità e basi di appoggio, come abbiamo potuto vedere a Nuevo San Gregorio, nel territorio zapatista del Caracol 10.[iv]
In maniera più sottile, il capitalismo è solito neutralizzarci con la tentazione del consumo, che è una potente forza di attrazione per i giovani. La spinta a farci andar via, a smettere di essere ciò che siamo, è un modo, complementare alla violenza vera e propria, per sopprimere le differenze del mondo che sta in basso.
Per tutti questi motivi, la lotta si svolge su più fronti: la difesa del territorio, l’affermazione di una propria cultura, l’impegno a non lasciarci trascinare in modi di vita che vogliono imporci per deformarci come popoli e come persone.
A mio avviso, la differenza è il fuoco sacro che dobbiamo proteggere, curare, approfondire e moltiplicare, ogni giorno della nostra vita.
Fonte: “Ser diferentes, para cambiar el mundo”, in La Jornada, 18/11/2022.
Traduzione a cura di Camminardomandando
[i] Ndt – Stabilimenti tessili in cui si applicava una nuova tecnologia meccanizzata per la filatura del cotone.
[ii] Ndt – I termini quilombos e palenques (letteralmente palizzate, recinti) fanno riferimento a comunità di schiavi africani (denominati cimarrones) riusciti a fuggire dalle piantagioni e a costituire importanti comunità.
[iii] Ndt – Di prossima pubblicazione in italiano: Oltre la periferia della pelle. Ripensare, ricostruire e rivendicare il corpo nel capitalismo contemporaneo, D Editore, Roma 28 febbraio 2023.
[iv] Ndt – A proposito della comunità di Nuevo San Gregorio, si veda un precedente articolo dell’autore: Spiritualità e autonomia.
Buongiorno!
Nel considerare la natura del dialogo tra le parti del discorso, nella sua organizzazione e alfabeto e nella volontà di rappresentarne il contenuto, mi vedo suggerito da un pensiero costruttivo.
L’elemento critico dominante il linguaggio culturale “occidentale” si circonda di segni ed effetti generati principalmente dall’azione del pensiero. A tal fine la posizione dell’autore si bilancia nel quadro ecosistemico dei significati culturali dominanti, confermandone la struttura generale.
Questa diversità si tiene viva nella sua presa di posizione politica di cui è vittima e nello stesso tempo carnefice.
La forza impressa in questo linguaggio custodito dall’articolo è proprio del mondo che tratta di denunciare: si autocensura seguendo se stesso.
Trovo questo articolo più vicino al contenuto che veicola: https://camminardomandando.wordpress.com/opinioni-su-la-jornada/raul-zibechi-su-la-jornada/spiritualita-e-autonomia/
Grazie per l’ascolto.