Il brusio xenofobo e razzista diventato senso comune e che sempre più spesso si trasforma in violenza esplicita ha radici complesse e antiche che affondano, ad esempio, nella rimozione della guerra dell’Italia fascista in Etiopia. A suo tempo, qualcuno ha tentato di aprire un varco – anche attraverso la letteratura – in quella storia fatta di spaventosi crimini di guerra e contro l’umanità. Ma non è andata molto bene. Potevamo essere il paese dei Flaiano, siamo il paese dei Montanelli
Leggere Tempo di uccidere di Ennio Flaiano nel 2020 un po’ conforta un po’ amareggia. Il romanzo – appena ripubblicato da Adelphi – uscì subito dopo la guerra e vinse la prima edizione del Premio Strega nel 1947. Racconta una piccola vicenda personale di un soldato italiano durante la guerra d’Abissinia, una decina di anni prima: già questa scelta, affrontare la guerra coloniale fascista a conflitto mondiale appena finito, è un’idea di rottura e infatti il romanzo ha il merito di aprire un varco, un possibile ripensamento su una vicenda fino a quel momento narrata con la retorica del militarismo e dell’avventura esotica.
Tempo di uccidere mette invece a nudo l’insensatezza di quella guerra e lo fa concentrando lo sguardo sulle vicende quotidiane e le ossessioni di un ufficiale qualunque, catapultato all’improvviso, un anno dopo il matrimonio, sugli altipiani dell’Etiopia. La storia prende le mosse da un omicidio – involontario – commesso dal protagonista, vittima una giovane donna abissina. Ecco, il corpo delle donne entra subito in scena e il militare di Flaiano non sfugge alla tentazione: il rapporto erotico fra i due è descritto come inevitabile, inevitabile anche nel ruolo di sostanziale sopraffazione che spetta di fatto all’uomo, al maschio guerriero e colonialista. Ma non c’è compiacimento, tutt’altro: quanto siamo distanti dalla noncuranza per la dignità della persona, dal vile machismo di tanti racconti di quella guerra, in testa i reportage e le dichiarazioni – rese fino ad anni vicino a noi – di un Indro Montanelli.
In Tempo di uccidere c’è la dignità degli abissini, sconfitti ma non piegati, specie nella figura misteriosa e nobile di Johannes, il padre della ragazza uccisa; e c’è lo sconfinato senso di estraneità, la coscienza d’essere fuori posto, del soldato italiano. È un romanzo più filosofico che narrativo tout court, ma di alto valore civile, pur nei suoi toni in fondo surreali.
La guerra di Etiopia è uno dei buchi neri della nostra storia. Fu un’aggressione brutale, molti dei nostri generali e parte della truppa si macchiarono di spaventosi crimini di guerra e contro l’umanità. È una delle pagine più vergognose, forse la più vergognosa, del nostro Novento, eppure è stata affrontata e tramandata con leggerezza, insistendo sugli aspetti esotici e romantici, nel quadro di un colonialismo vile e straccione, capace però di alimentare, anche nel dopoguerra, il mito degli italiani brava gente, smontato solo in tempi recenti grazie al lavoro coraggioso e pionieristico di alcuni storici.
Tempo di uccidere dunque conforta perché in parte riscatta il mondo intellettuale italiano, grazie a un outsider della letteratura come Flaiano – anche umorista, autore di teatro, sceneggiatore per Federico Fellini – e tuttavia amareggia, perché il suo messaggio di verità fu sì capito e premiato con lo Strega, ma in realtà ignorato e accantonato dall’Italia della ricostruzione. Un errore che stiamo pagando in questi anni segnati da un brusio xenofobo e razzista il cui volume si è via via alzato, fino a diventare senso comune. Potevamo essere il paese dei Flaiano, siamo il paese dei Montanelli.
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