Nel 2020 le due principali banche italiane sembravano indicare un trend al ribasso rispetto all’esposizione finanziaria al carbone. Poi, tra il 2020 e il 2021, Intesa Sanpaolo ha quadruplicato i suoi finanziamenti e Unicredit ha portato i suoi investimenti da 778 milioni a 1,35 miliardi di euro. Come fa la prima banca italiana a definirsi “leader della sostenibilità” se nel 2022 stiamo ancora parlando della sua crescente esposizione al più inquinante dei combustibili fossili e se non ha ancora indicato una data per interrompere il supporto all’energia prodotta dal carbone?, si chiede ReCommon
Le due più importanti banche italiane, Intesa Sanpaolo e UniCredit, fra il 2020 e il 2021 hanno aumentato sensibilmente il loro sostegno all’industria del carbone, il combustibile fossile più inquinante e per questo responsabile in modo massiccio dell’attuale crisi climatica. In particolare, l’istituto torinese ha quadruplicato i suoi finanziamenti tra il 2020 e il 2021, passando da 449 milioni a 2,1 miliardi di euro, mentre quello di piazza Gae Aulenti cresce da 1,36 a 1,71 miliardi di euro. Stesso trend per gli investimenti, soprattutto quelli della prima banca italiana: da 778 milioni a 1,35 miliardi di euro tra il 2020 e il 2021.
Lo rivela l’analisi finanziaria della Global Coal Exit List, redatta dalla Ong tedesca Urgewald, dalla francese Reclaim Finance e da 350.org Giappone insieme ad altre 25 realtà internazionali, tra cui ReCommon, e resa pubblica oggi (15 febbraio, ndr).
La crescita di Intesa Sanpaolo è stata trainata soprattutto dalla sottoscrizione di bond (sestuplicata tra 2020 e 2021), modalità di finanziamento tra le meno regolate in circolazione, dal momento che le società dell’industria fossile possono impiegare i proventi legati ai bond per scopi generici, il più delle volte il proprio core business. Tra i finanziamenti, spiccano i 120 milioni di euro alla sudafricana Sasol e, soprattutto, i 200 milioni alla tedesca RWE, società più inquinante d’Europa.
I finanziamenti a Sasol, avvenuti tra marzo e maggio del 2021, si configurano inoltre come una violazione della precedente policy sul carbone (maggio 2020), concessi poco prima dell’entrata in vigore di quella attuale (luglio 2021). Gli impegni presi nel 2020, infatti, escludevano la possibilità di finanziare società intenzionate a espandere il proprio business attraverso la costruzione di nuove miniere, proprio come sta facendo Sasol.
Anche UniCredit ha intensi rapporti commerciali con Sasol (136 milioni di euro) e RWE (226 milioni di euro). Il gruppo non sembra dunque intenzionato ad abbandonare definitivamente il carbone, come confermato dall’analisi dei dati finanziari e dalla nuova policy, adottata pochi giorni fa, con cui UniCredit ha rivisto al ribasso i propri impegni di disinvestimento nei confronti del settore.
«I dati del 2020 delle due principali banche italiane sembravano indicare un trend al ribasso rispetto all’esposizione finanziaria al carbone. Quelli aggiornati sono uno schiaffo a chiunque si stia impegnando per contrastare la crisi climatica», commenta Simone Ogno di ReCommon. «I ridotti prestiti al carbone da parte di Intesa Sanpaolo nel 2020 non erano quindi dettati dall’azione climatica, bensì la fotografia di un comparto fermatosi all’inizio della pandemia. Come fa la prima banca italiana a definirsi “leader della sostenibilità” se nel 2022 stiamo ancora a parlare della sua crescente esposizione al più inquinante dei combustibili fossili e se non ha ancora indicato una data per interrompere il suo supporto all’energia prodotta dal carbone?», aggiunge Ogno.
La Global Coal Exit List ha preso in esame 1.032 società del settore carbonifero e i rispettivi sostenitori finanziari: banche, fondi di investimento, asset manager. In base ai dati raccolti nella ricerca, risulta che nel 2021 le istituzioni finanziarie abbiano investito oltre 1.200 miliardi di dollari nell’industria del carbone. Un aumento molto preoccupante rispetto al 2020, quando i soldi investiti superavano di poco 1000 miliardi di dollari.
Le banche di soli 6 paesi – Cina, Stati Uniti, Giappone, India, Regno Unito e Canada – sono state responsabili dell’86% dei finanziamenti complessivi per l’industria del carbone.
Un totale di 376 banche commerciali hanno fornito 363 miliardi di dollari sotto forma di prestiti all’industria del carbone. Solo 12 banche contano però per il 48% del totale dei prestiti alle società presenti nel Global Coal Exit List. Guidano questa poco onorevole classifica le tre banche giapponesi Mizuho Financial, Mitsubishi UFJ Financial e SMBC Group, seguite da Barclays (Regno Unito) e Citigroup (Stati Uniti). Ironicamente, dieci di queste fanno parte della Net-Zero Banking Alliance, in cui rientrano anche Intesa Sanpaolo e UniCredit da ottobre 2021.
Nello stesso periodo, i tre istituti più esposti in termini di sottoscrizione di bond sono la Industrial Commercial Bank of China, la China International Trust and Investment Corporation e la Shanghai Pudong Development Bank. L’unica banca non cinese tra i primi 12 sottoscrittori per l’industria del carbone è la statunitense JPMorgan Chase.
«Le organizzazioni della società civile, i regolatori finanziari e gli stessi investitori devono smascherare le pratiche di greenwashing e mettere alle strette gli istituti di credito più importanti del Pianeta, affinché smettano di finanziarie il carbone. L’ipocrisia nascosta dietro vaghi impegni di net-zero e sostenibilità è inaccettabile», ha affermato Daniela Finamore di ReCommon.
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