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di Carlo Francesco Ridolfi*
Que sont devenus les mots, la langue, les hommes qui donnaient force aux mots par la beauté des moissons?
Che sono diventate le parole, la lingua, gli uomini che davano forza alle parole con la bellezza delle mietiture? (Jean-Claude Izzo, trad. Annalisa Comes)
Ha scritto su Facebook, qualche giorno fa, (a mio parere con estrema ragione) Francesca Capelli, giornalista, traduttrice, scrittrice per ragazzi:
«Le zuffe sulle magliette rosse mi confermano nella mia idea iniziale: l’iperproduzione di simboli mette in circolazione una moltitudine di significanti, ma provoca un continuo scartamento del significato».
Come molti, moltissimi e moltissime, ho partecipato alla giornata di mobilitazione simbolica lanciata da Libera e ho indossato una maglietta rossa sabato 7 luglio 2018. Devo dire che, fra i molti meriti, l’iniziativa ha avuto anche quello di riaffermare almeno la distinzione cromatica fra idee e prese di posizione.
Giorgia Meloni si è affrettata a lanciare un’analoga campagna di opinione, proponendo di indossare una maglietta azzurra in segno di solidarietà con i cinque milioni che risultano dalle statistiche essere sotto la soglia di povertà. Verrebbe da chiedere quanto le politiche dei governi degli ultimi vent’anni, in uno dei quali c’era anche l’onorevole Meloni, abbiano contribuito a questo risultato, ma è maggiore l’impressione che alla rappresentante di Fratelli d’Italia continui a stare meglio il nero, come colore.
Tuttavia, come già nelle ore della mobilitazione aveva sottolineato Angelo D’Orsi sul sito di MicroMega (Non ne posso più. La maglietta rossa e l’impotenza della sinistra), è stato ed è tuttora difficile allontanare il retrogusto di sostanziale inefficacia di questo tipo di iniziative.
https://comune-info.net/2018/07/adesso-aiutiamoli-a-saltare-rossa/
Provo a fare un esempio, tratto dalla storia recente.
In uno dei suoi più noti discorsi, l’ex-presidente Usa Barack Obama, annunciando scelte politiche non di poco conto in riferimento ai diritti della comunità Lgbt, ricordava tre momenti fondamentali nel cammino delle libertà sociali e politiche: Seneca Falls, Selma, Stonewall. A Seneca Falls, nel lo stato di New York, il 19-20 luglio 1848 si tenne la prima Convenzione per i diritti delle donne della storia degli Stati Uniti. Da Selma, in Alabama, patria del governatore razzista George Wallace, partì nel 1965 una delle marce promosse da Martin Luther King che risultarono decisive per l’affermazione anche giuridica di diritti delle persone nere. Quattro anni più tardi, il 27 giugno 1969, la comunità Lgbt rispose con resistenza attiva all’ennesima irruzione della polizia nel bar Stonewall Inn, del Greenwich Village, segnando di fatto l’inizio di un movimento che ancor oggi non cessa di essere attivo, partecipe e anche efficace.
Al momento, mi pare, non si intravede qui da noi nessun possibile Barack Obama all’orizzonte. Forse neanche nessuna Elizabeth Cady Stanton (una delle principali animatrici della convention di Seneca Falls); nessun reverendo King; nessun Craig Rodwell o nessuna Brenda Howardnel (fondatori del primo Gay Liberation Front proprio dopo Stonewall). Vorrei anche dire, però, che questo non mi sembra il problema principale. Veniamo da troppi anni in cui in molti si sono illusi che l’individuazione di una leadership fosse sufficiente a cambiare in positivo l’ordine delle cose. Ma non è (mai) così, soprattutto per quella che vorrebbe continuare a chiamarsi “sinistra”. Nessuna figura carismatica (Enrico Berlinguer, per fare un esempio che ricorre spesso, e che a paragone di chi è venuto dopo assume sempre più le dimensioni di un gigante) può illudersi di reggere oltre lo spazio di qualche titolo di giornale o di telegiornale senza un movimento concreto di donne e di uomini, senza una ramificata base organizzativa, senza una quotidiana e diuturna azione, come si sarebbe detto un tempo, “nelle fabbriche, nelle piazze, nei quartieri”. Sapendo bene, ovviamente, che le fabbriche non sono più le grandi concentrazioni operaie ma stanno disseminate e talvolta mobili e volatili; che le piazze sono anche quelle virtuali; che i quartieri sono probabilmente davvero i luoghi dove dovrebbero articolarsi (e dove con molti e splendidi esempi possibili, di fatto si articolano) gli interventi orientati alla ricostruzione di legami sociali sempre più messi in discussione.
Francesca Capelli, nella sua fulminea e illuminante nota, ha usato il sostantivo “scartamento”, in evidente senso filosofico-linguistico, che in un ferroviere come il sottoscritto fa subito riecheggiare la terminologia tecnica in riferimento alla distanza fra le due rotaie di un binario.
1435 millimetri, dicono i sacri testi, quello normale e più usato. Più svariati casi in cui si ricorre allo scartamento ridotto.
Che sia ridotto o normale, se non prendiamo seriamente in considerazione la sostanziale inefficacia di ogni tipo di mobilitazione simbolica, rischiamo di mantenere costantemente su binari morti i treni che vorremmo far circolare.
Qualcuno ricorda il 10 febbraio 2018? Dal palco del teatro Ariston di Sanremo Pierfrancesco Favino, chiamato da Claudio Baglioni a presentare il Festival della Canzone italiana, recita (benissimo) un brano del monologo La notte poco prima della foresta del drammaturgo francese Bernard-Maria Koltès. Verso la fine del pezzo recitato entrano in scena Fiorella Mannoia e lo stesso Baglioni che cantano (altrettanto benissimo) Mio fratello che guardi il mondo di Ivano Fossati. Milioni di telespettatori si commuovono al racconto di un migrante. I social rimbombano di like e condivisioni. Poco meno di un mese dopo, nelle elezioni del 4 marzo, il centrodestra – e la Lega in particolare – fanno incetta della maggioranza dei voti.
Cosa dovremmo concludere? Che il pubblico di Sanremo era composto quasi interamente da persone di sinistra? Oppure, più realisticamente, che se continuiamo a pensare ad una “sinistra emotiva”, che esaurisce le proprie iniziative nello spazio di un post, che con tutta probabilità raccoglierà i “mi piace” di coloro che sono già convinti delle tesi espresse, davvero non faremo molta strada nei prossimi mesi e anni?
Senza la “bellezza delle mietiture”, come scriveva in meravigliosa sintesi poetica Jean-Claude Izzo, le nostre parole e i nostri gesti rischiano di rimanere bolle emotive di durata appena di poco superiore a quelle che i nostri bambini fanno col sapone.
Fuor di metafora poetica e con un pizzico di improntitudine: vogliamo mettere da parte, tutti, la retorica del “seminiamo bellezza” e cose simili, tanto prima o poi qualcuno raccoglierà? Nello spazio tra questi non meglio definiti “prima” e “poi” si sono incistate in questi anni le peggiori pulsioni antifemministe, omofobe, razziste, che ci hanno portato ad una situazione nella quale la possibilità di un’Europa disfatta nelle sue ragioni fondative politicamente più nobili e ingolosita da aspettative di rivalsa sociale la più retriva si orienti verso la destra più pericolosa.
https://comune-info.net/2018/07/mettersi-a-nudo-davanti-ai-profughi/
Dovremmo cioè, impresa davvero non da poco, cercare di non parlarci più solo fra di noi, fra i già convinti, i già persuasi, ma trovare forme, azioni pratiche, iniziative, attività quotidiane che ci facciano entrare in contatto e poi in dialogo con i dubbiosi, gli incerti, persino gli ostili e i non disposti ad ascoltarci. Non illudendoci che basti la cultura (anche le SS ascoltavano Beethoven), o, peggio, cullandoci nell’autorassicurante ma dannosissima presunzione di superiorità intellettuale. Le donne e gli uomini hanno bisogno di riconoscimento, di ascolto, di attenzione e di prossimità affettiva e pratica. Non ci si dirige a sinistra (dove continuano a marciare i treni, dai tempi di Stephenson) con lo stesso automatismo ferroviario, ma perché in quella direzione si possono trovare (si trovavano e non si trovano più) quell’attenzione e considerazione e ascolto che a chiunque di noi servono come l’aria e l’acqua.
Se, venendo da un passato prossimo di ricerca del socialismo, siamo approdati a un presente angusto in cui ci accontentiamo del social, davvero meriteremmo di essere sbeffeggiati da contemporanei e posteri per molto tempo. Se abbiamo invece ancora un briciolo di passione per quello che Albert Camus chiamava il “calendario delle libertà”, forse è tempo di riprendere in mano i nostri giorni, uno dopo l’altro, nell’azione pratica e nell’elaborazione teorica unite e reciprocamente nutrienti.
L’articolo identifica una questione importante: “Le donne e gli uomini hanno bisogno di riconoscimento, di ascolto, di attenzione e di prossimità affettiva e pratica”. E’ proprio quello che cerchiamo di fare nel nostro lavoro di pacificatori: forniamo alle persone che litigano un sistema di dialogo efficace che consenta loro di ascoltarsi reciprocamente e di mettere i bisogni veri (anziché le posizioni di principio) al centro della discussione.
Grazie per lo spunto di riflessione.