Cosa restava, cosa sarebbe rimasto, di quei pomeriggi assolati, afosi, di estate, quando le voci dei compagni mi svegliavano e a me batteva il cuore e correvo perché temevo di starmi perdendo un po’ di Paradiso? Cosa restava di tutte quelle partenze, di sera, tra i pianti, dei compagni di scuola che svuotavano le rughe, le case, i paesi e anche i giochi, gli affetti, il dolore?
Cosa è rimasto delle notti insonni con gli occhi verso il soffitto, delle interminabili riunioni politiche, accese e tese come se stessimo decidendo le sorti del mondo, delle manifestazioni a Roma, delle infinite mangiate e serenate, del continuo andirivieni, dell’andare e tornare?
Cosa è rimasto dei mille viaggi in ospedali, dai medici, di telefonate, ansie, corse, nottate al capezzale dei miei? Cosa di quei libri letti, di quelle lezioni fatte e ascoltate, delle tesi di lauree corrette, dell’incontro mattiniero con i folli del paese, dei pianti per gli amici che partivano o morivano?
Cosa resta di questa tenace e accanita voglia di resistere, di vivere, di non fuggire del dolore, di capire cosa sta accadendo nel mondo, nel mio paese vuoto, nella mia terra incomprensibile?
E cosa resta dei miei rimpianti, dei miei sensi di colpa, delle mie dedizioni, delle mie distrazioni, delle mie incapacità di ascoltare o delle mille ore dedicate a sentire uno sconosciuto, ad andare in giro a fontane, a seguire i giocatori di carte per interi pomeriggi?
Niente. Non resterà niente. Della vita vissuta a nessuno resterà niente. Nemmeno di quella immaginata, non vissuta.
Non restava, non è rimasto nulla, non resterà nulla?
Non resterà niente delle violenze della storia, delle stragi, degli eroismi, dei sacrifici, dei deliri, delle fantasie degli uomini e delle donne del passato. Niente. Non resterà niente.
Eppure eccomi qui a chiedermi perché sono stato, fin da bambino, sempre affascinato da quel che resta, dal tempo che passava veloce, dagli avvenimenti che non riuscivo a fermare. A chiedermi perché mentre vivevo un attimo, ascoltavo una voce, partecipavo a un rito, a un lutto, a un matrimonio, a un avvenimento bello e brutto, doloroso e gioioso, dovevo cercare di fissarlo, di bloccarlo, magari poi di scriverlo sulla carta, nei taccuini, sulle agendine, sui quaderni. Quasi per non farlo morire, per non farlo fuggire, quello che accadeva e che era quello che per me restava e sarebbe rimasto. Perché ho pensato sempre che quel che resta è ciò che passa ed è passato, è quello che sto vivendo adesso, e non è quello che avverrà domani, se domani ci sarà.
Solo quel che resta ha vita, ha potenza, rimane dentro di noi. Può vivere perché è nostro, lo ricordiamo, lo riscriviamo, diventa presente, ci ossessiona, ci cattura, ci manda avanti. La passatità esiste, mentre non esiste questo presente che è già passato e se esiste è solo perché io lo trattengo, lo fisso, lo accarezzo fino a non accorgermi che non c’è più, è già finito, non l’ho vissuto bene e domani potrò riguadagnarlo, risentirlo, ripensarlo solo perché non l’ho davvero consumato mentre non restava, mentre se ne andava.
Quel che resta vive perché è accaduto, perché l’ho vissuto, posso guardarlo con sconforto o con pena, con dolore o con pietas, con rammarico o con indulgenza. Io sono quel che resta, sono un ultimo, sono tutto quello che trattengo di quel che resta, sono in questo attimo che fugge e che non so trattenere. Quel che avverrà domani, se avverrà, non esiste, non resta, non mi dice nulla per affrontare il domani. La rigenerazione, la rinascita, la rifondazione del tempo e dei luoghi avvengono perché ci sono il concime, la terra, il profumo, le nuvole, le ombre, le trappole, i fantasmi, gli angeli di quello che è stato e resta.
L’ultimo libro di Vito Teti è Il risveglio del drago. Cavallerizzo: un paese mondo, tra abbandono e ricostruzione (Donzelli)
MARIA FELICIA Gelonesi dice
Grande il professore Vito Teti!!
Silvia Galiano dice
E’ vero.E’questo passaggio e questo fluire del tempo,all’interno e all’esterno di noi,che gioca con noi,che ci soaventa e ci intusiasma,che e’ nostro,e di tutti.