La direttrice di Pikara, eccellente magazine basco che esprime un giornalismo di qualità con una prospettiva di genere, racconta l’esperienza contraddittoria della partecipazione a un incontro di intellettuali, artisti e movimenti sociali promosso dal governo del Venezuela alla fine del 2015. Un meeting nato per iniziativa di Hugo Chávez e Fidel Castro con l’obiettivo di vincolare personalità della cultura e delle organizzazioni sociali al progetto bolivariano. June Fernandez si è certo indignata vedendo da vicino il golpismo della destra venezuelana e le conseguenze degli abusi e delle ingerenze statunitensi, ha imparato da esperienze comunitarie concrete di teatro invisibile, realizzazione di murales e di piani urbanistici basati sulla filosofia del buen vivir ma l’entusiasmo è stato molto mitigato dal settarismo, dal culto del leader (valga per tutti gli esempi la spilla dorata con lo sguardo del “Comandante Eterno” regalata ai partecipanti), dallo spreco di risorse e dall’ autoritarismo che si respirava in un forum che avrebbe voluto tessere alternative all’ordine neoliberista
di June Fernández*
”¡Chávez vive, vive! ¡La lucha sigue, sigue!”. Sono fra le poche persone nella sala a non alzare il pugno sinistro. Perché non sono affatto mitomane e perché preferisco osservare. Se sono a Caracas è, in grande misura, per curiosità antropologica. A novembre 2014 ho ricevuto un invito sorprendente: il Ministero della Cultura venezuelano voleva avere Pikara Magazine per una tavola rotonda intitolata “Femminismo, genere e potere”. L’attività era inserita nel secondo incontro della rete di intellettuali, artisti e movimenti sociali in difesa dell’umanità, la cui esistenza, fino a quel momento, ignoravo. Poi mi sono resa conto che si trattava di un’iniziativa promossa da Hugo Chávez e Fidel Castro con l’obiettivo di vincolare personalità della cultura e delle organizzazioni sociali al progetto bolivariano.
Eravamo 300 persone, di tutti i tipi e di tutti gli aspetti: dai governanti (come il vicepresidente boliviano o l’ex presidente dell’Honduras Mel Zelaya), ai giornalisti, i militanti di sinistra, le scrittrici e i blogueros. Ho visto altre persone provenienti dallo stato spagnolo, ma non hanno avuto uno speciale protagonismo, e si è parlato molto di più di Palestina che, ad esempio, di Catalogna o di Paesi Baschi. Io ero invitata per parlare di femminismo. Non mi hanno chiesto la mia opinione riguardo il chavismo e non mi hanno invitato a prendere posizione su nessun tema politico.
Ho confermato la mia presenza sedotta da un titolo senza complessi e per nulla istituzionale: “femminismo, genere e potere”. Il programma sembrava stimolante e mi interessava sia conoscere collettivi sociali che far conoscere Pikara. E poi, perché no?, volevo farmi un’opinione su uno dei governi più attaccati dalla stampa spagnola. Allo stesso modo mi era servito andare a Cuba per conoscere una sinistra critica che non trova spazio sui media. Non ero preoccupata di compromettere la mia indipendenza politica; partecipare aquesto incontro non mi trasforma in chavista, così come partecipare a un incontro organizzato dal governo basco non mi trasforma in PNVista (Partito Nazionalista Basco, ndt).
E di fatto, se l’obiettivo era che sposassimo la causa, nel mio caso non avrebbero potuto fare di peggio. Leggo su La Marea (nell’articolo in cui citano la partecipazione di Pikara al congresso, per il quale mi hanno chiesto da eldiario.es che raccontassi la mia esperienza) che Anna Gabriel è intervenuta alla sessione dove si parlava di migrazioni dal punto di vista dei diritti umani. Mi sarebbe piaciuto molto assistervi, ma non è stato possibile, e qui arriva la prima critica: il programma dell’evento era organizzato in modo che le attività di maggior interesse dal punto di vista sociale si svolgevano in contemporanea (le sessioni su femminismo, migrazioni, popoli indigeni, cambiamenti climatici…), mentre le plenarie erano orientate all’indottrinamento politico.
Assistere al discorso di Nicolás Maduro (quattro ore sotto il sole senza poter uscire dal Cuartel de la Montaña, il luogo dove riposano i resti di Chavez) o presenziare all’inaugurazione di un istituto sul pensiero di Hugo Chávez erano “obbligatorie” (l’unica attività prevista in quella fascia oraria).
Quando sono tornata a Managua mi sono sfogata sulla mia bacheca di Facebook per un caos logistico che le persone dell’organizzazione (giovani, molto gentili e impegnate) hanno arginato come hanno potuto. E ho anche criticato uno sperpero di risorse che ci si può aspettare da un vertice governativo, ma che è criticabile quando ci si presenta come un forum anticapitalista. Siamo stati alloggiati in un hotel cinque stelle, spagnolo per di più, e si è abusato (a mio avviso) delle auto ufficiali e dello spiegamento di polizia. E sì, abbiamo viaggiato su voli privati. Nel mio caso in un jet del governo assieme alle altre 7 persone centroamericane invitate. Io me ne sono resa conto quello stesso giorno; hanno detto che era la soluzione più facile, in parte perché le cattive relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti ed i loro alleati rendevano complicato l’utilizzo di voli commerciali.
Quello che più mi ha infastidito è stato che ci tenessero sotto controllo. Era prevedibile, peraltro: abbiamo conosciuto solo ciò che interessava loro che conoscessimo. Le interessanti visite guidate alle comunità lasciavano un sapore agrodolce per l’eccesso di manfrine politiche (che capisco partissero da una reazione alla guerra mediatica, ma a mio avviso risultavano controproducenti). Non ci hanno dato suggerimenti per conoscere qualcosa della città in modo sicuro, non ci hanno spiegato come funzionava il trasporto pubblico, non avevano previsto un metodo per cambiare denaro e alla fine ci hanno detto che l’unico metodo era il mercato nero (so che questo ha a che vedere con un crudele assedio economico, però lo hanno gestito in un modo dubbioso).
L’ambiente nelle attività plenarie aveva poco di rivoluzionario. Nel discorso inaugurale, celebrato in un’enorme sala stile Nazioni Unite, è intervenuto un solo rappresentante per paese, per la maggior parte uomini con più di 60 anni, molto istituzionali. Non c’è stata la possibilità di ascoltare voci nuove, per non parlare di interventi critici verso governi amici di quello venezuelano. Nelle riunioni che si sono svolte per elaborare il pronunciamento finale, compagne messicane e cubane che sono parte della rete si sono lamentate di non essere state invitate. Le sessioni parallele alle quali ho partecipato, al contrario, hanno dato spazio a dibattiti più liberi e a dissidenze, In quello dei collettivi femministi e LGTB, sono successe due cose degne di nota. Da un lato ho assistito ad un contrasto tra le organizzazioni di donne chaviste, il cui discorso si limitava a ricordare quanto femminista fosse Chávez, e i collettivi femministi che lavoravano sì dall’interno del chavismo, ma facendo pressione sul governo di Maduro perché fosse più coraggioso in questioni come la depenalizzazione dell’aborto o la lotta contro la LGTBfobia.
Confido nel fatto che abbia fatto presa l’intervento di un’intellettuale cubana: ha insistito sull’importanza del fatto che il movimento femminista resti indipendente e critico con il potere, affinché non segua la traiettoria di quello cubano, concentrato nella conservatrice e partitica Federazione delle Donne Cubane. Il dibattito si è però interrotto quando due giovani gay ci hanno dato una terribile notizia: l’assassinio dell’attivista lesbica Giniveth Soto. Tra lacrime di impotenza, ci hanno parlato della situazione di abbandono in cui versava la vedova, dato che le istituzioni venezuelane non riconoscevano il loro matrimonio, registrato in Argentina. Ho raccontato su eldiario.es che questo caso è diventato l’occasione per reclamare un avanzamento nel progetto di legge sul matrimonio civile ugualitario e per mettere sul tavolo le discriminazioni subite dalle famiglie omogenitoriali nei programmi sociali, come quello di accesso alla casa.
In definitiva partecipare a questo incontro è stata un esperienza molto contraddittoria. Mi sono indignata comprendendo da vicino le conseguenze degli abusi ed ingerenze statunitensi. Ho imparato dalla conoscenza di esperienze comunitarie concrete di teatro invisibile, di piani urbanistici basati sulla filosofia del buen vivir. Ma il mio entusiasmo è stato mitigato dalle dosi di settarismo, culto al leader (condensato nella spilla dorata con lo sguardo del “Comandante Eterno” che hanno regalato ad ogni partecipante) e di autoritarismo che si respirava in un forum internazionalista che cercava di tessere alternative all’ordine neoliberista.
Comunque, tra delusioni, entusiasmi e altre delusioni, ho ricevuto un regalo: conoscere due vere rivoluzionarie, le messicane Irina Layevska e Nélida Reyes, invitate a presentare un documentario sulle loro vite: “Morire in piedi”. Questo è l’inizio dell’intervista che ho pubblicato su Pikara: ” Dalla sua sedia a rotelle, la messicana Irina Layevska impugnò il fucile in Nicaragua e portò il petrolio ad una Cuba sprofondata nel ‘periodo speciale’. Pensò di uccidersi quando la sclerosi multipla minacciò di renderla cieca, ma alla fine sotterrò solo la parte di sé che la limitava tanto quanto, o forse più, della disabilità: il genere maschile che le fu assegnato alla nascita e che sopportava travestendosi dal suo idolatrato Ernesto Guevara. Contro ogni pronostico, Irina ha compiuto 50 anni, 13 da quando si è identificata come donna. L’unica cosa che la spaventa della morte è separarsi dalla sua compagna di vita Nélida Reyes, che resta al suo fianco in una battaglia quotidiana contro la malattia e la discriminazione”.
Fonte Publico
Traduzione per Comune-info: Michela Giovannini
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