Chissà se questo tempo in parte ancora sospeso che limita gli spostamenti può favorire almeno la messa in discussione della città-merce, nella quale gli spazi pubblici sono sempre meno luoghi da abitare ma zone da consumare in tempi e modi prestabiliti da altri. Si tratta di coltivare nuovi sguardi sugli spazi che abitiamo, una percezione diversa della città, una critica alla progettazione come allontanamento dai tempi veri del territorio e di chi lo vive ogni giorno. Un tema che non possiamo lasciare a coloro che si autoproclamano esperti, come urbanisti e architetti. Secondo Franco La Cecla abbiamo bisogno di ripensare e organizzare lo spazio fuori dalla dittatura del profitto, riscoprire la conoscenza dei luoghi, esplorare la geografia dei territori fisici e mentali, inventare spazi per coloro che sono di passaggio, come i numerosi migranti transitanti di molte città italiane diretti per lo più nel nord Europa, ma anche di proteggere la capacità delle città di mescolare volti, lingue, ceti, ambizioni e frustrazioni. Nel libro Perdersi. L’uomo senza l’ambiente (Meltemi) – proposto in una edizione aggiornata, con la prefazione di Gianni Vattimo e l’introduzione di Andrea Staid – dedica un paragrafo (qui pubblicato) ai gruppi di artisti e studiosi che in diverso luoghi hanno cominciato a elaborare una narrazione differente degli spazi urbani marginali e vuoti. Nel paragrafo, tra l’altro, si legge: «Oggi la città soffre di una mancanza sostanziale di “luoghi accanto”, di luoghi in cui la vita può trovare spazio per allargare lo spazio e stirarsi, stiracchiarsi…»
5. Stalker
Alcuni gruppi di artisti e di studiosi della città hanno capito quanto sta di nuovo avvenendo e per fortuna c’è un nuovo sguardo. Lo spazio come percorso, come luogo di percezione, come soprattutto “spazio tra”. È interessante notare come i luoghi dentro cui si gioca l’innovazione per molti di questi gruppi siano proprio quelle frange e quei terrain vagues, quelle pieghe lasciate da parte, i luoghi della distrazione del piano; i luoghi che la città regolata lascia fuori perché i criteri di omogeneizzazione somigliano sempre di più a vestiti troppo stretti per corpi in movimento.
In Italia opera un gruppo che, collegato con gruppi simili, è sensibile alle provocazioni nel “nuovo spazio”. Sta tra l’arte, l’antropologia, l’architettura, l’autocostruzione, la performance e l’intervento nel sociale. Si chiama Stalker e ha elaborato una poetica degli spazi marginali e vuoti. Quello che li salva, almeno per ora, dalla caduta in un esercizio puramente estetico, è che ogni loro azione è un tentativo di far risaltare “pratiche spaziali” che sono già in atto. Sia che essi percorrano a piedi il contorno di una città, con l’intento pasoliniano di dare risalto al lasciato fuori, sia che dormano in spazi abbandonati o che lavorino con una comunità zingara o kurda alla ricostruzione di luoghi di accoglienza in strutture abbandonate, sia che a Miami distribuiscano caffè sul ponte che separa la parte ispanica da quella nera, sia che distribuiscano acqua a Pristina in bottiglie in cui si dà l’allarme per le condizioni igieniche della città, il loro lavoro dà sempre la precedenza al contesto e al momento, al qui e all’ora delle pratiche spaziali degli insediati: come se il messaggio fosse un ridimensionamento della temporalità nei confronti della geografia.
Stalker, nel rifarsi all’omonimo film di Tarkovskij, sta per l’impossibilità di darsi punti di riferimento se non per settori limitati, immanenti, di tempo (stalker significa, in inglese, qualcuno che procede con cautela). Una critica alla progettazione come allontanamento dai tempi veri del territorio e dei suoi abitanti. Come se la mente locale fosse percepibile solo nell’ascolto della verità geografica del qui ed ora.
È interessante che questa ipotesi ruoti intorno ad una lettura di ciò che alla città di oggi è venuto a mancare: quegli spazi vaghi e plurifunzionali che impedivano al territorio di essere preso per la gola da prescrizioni troppo astratte: gli usi civici, i commons, gli spazi per le giostre, le fiere, i mercati di strada, le zone di confine e di margine, gli argini dei fiumi, le banchine a lato delle strade. Oggi la città soffre di una mancanza sostanziale di “luoghi accanto”, di luoghi in cui la vita può trovare spazio per allargare lo spazio e stirarsi, stiracchiarsi.
6. Lo spazio come discorso velato
Gli Stalker sostengono, rifacendosi a Zygmunt Bauman (2000), che uno degli spazi che manca è quello dell’agorà, ma bisognerebbe ricordare che l’agorà era uno spazio già fin troppo connotato da regole e restrizioni. Certamente l’abbiamo perso, ma ancor prima abbiamo perso lo spazio che preparava l’agorà, il mercato come primo luogo degli accordi “nonostante le differenze e i malintesi”. La città è stata per secoli, per eccellenza, quel veiled speech, quel “discorso velato” di cui parla Andrew Strathern (1975) come:
insieme di luoghi e di storie che diventano metafore su cui si può fare affidamento per rinegoziare le relazioni umane (M. Khan, 1996).
La città è stato il luogo della messa in scena del malinteso tra individui, gruppi umani, etnie, religioni diverse, dove questo malinteso veniva elaborato per dar luogo ad una convivenza possibile tramite e nonostante le differenze. Ho altrove (F. La Cecla, 1998) dimostrato come lo spazio sia stato essenziale alla composizione di conflitti e tensioni altrimenti irrisolvibili, proprio perché il carattere di ambigua tangibilità dello spazio lo rende capace di fare da filtro, da cuscinetto, da zona di rispetto, da separazione che non separa, da soglia che unisce, da specchio che riflette le identità di chi guarda e di chi è guardato.
Gli Stalker aggiungono che gli altri due luoghi che “ci mancano” oggi sono le “terme” e i “caravanserragli”. Ed è vero che una città a cui i corpi sono sottratti (se le terme, gli hammam, i bagni turchi sono il luogo in cui all’attuale privatezza della funzione igienica si sostituiva la scena del proprio corpo in mezzo agli altri corpi tra i vapori e le acque) è una città “disincarnata” che non accetta che la nostra fisicità sia la prima architettura. Il corpo urbano non è più costituito da Flesh and Stones, da carne e pietre, come racconta Richard Sennett (1994) ma da pietre a cui corrispondono corpi negati. Nello spazio pubblico delle città non si può dormire (F. La Cecla, 1999), lavarsi, fare l’amore, spogliarsi, lavare i panni, attingere acqua, nuotare, o anche solo fare la siesta. È come se un terribile guardiano ci seguisse nei nostri movimenti per impedirci di esprimere per strada tutto ciò che siamo abituati a fare in casa o tra amici. In altre culture dello spazio c’è una varietà di posture, di accoccolamenti, di distensioni, di appoggi e di maniere di sedersi, genuflettersi e piegarsi che noi abbiamo completamente smarrito. Ho cercato di dare testimonianza di ciò per la cultura urbana in Vietnam (ibid.) e sono ancora stupito dell’impoverimento della cultura dei corpi per strada nelle nostre città mediterranee negli ultimi vent’anni. Disembodied Space, uno spazio disincarnato, è quello che oggi ci tocca e per fortuna che ci sono strani nuovi soggetti a ricordarci ogni tanto che la città è anche il luogo del suonare, del mendicare, dello stare fermi, dello stare a guardare.
I caravanserragli degli Stalker sono infine tutti gli spazi dedicati ai non ancora cittadini, a coloro che sono di passaggio o sono appena arrivati, a coloro che non hanno la cittadinanza, agli ospiti, agli stranieri, ai turisti, ai nemici. Oggi gran parte di questi luoghi sono tutti ricavati nella clandestinità o nel disagio. Giardini pubblici trasformati in spazi di riposo e di riunione per gli immigrati, marciapiedi, stazioni in cui si cerca di ricavare uno spazio del sonno, baracche, e centri, pochi, di accoglienza, spesso lager di nuovo tipo, campi di concentramento di identità a cui non si vuole dare uno spazio accanto a quello dei cittadini. E carceri e false carceri, dove senza alcun diritto riconosciuto vengono lasciati marcire i membri di una diaspora enorme che le nostre stesse città hanno provocato ed auspicato. Il vasto spazio della inospitalità che sostituisce una tradizione urbana che sapeva bene come distinguere cittadini da nuovi arrivati, locali da stranieri, prevedendo per loro luoghi e spazi precisi, caravanserragli, fondaci, alberghi, locande. Le nostre città non vengono pensate a partire dall’elasticità necessaria perché questi luoghi esistano e perché funzionino da filtri tra vecchie e nuove identità e tra vecchie e nuove differenze. Lo straniero è oggi, anzitutto, uno “fuor di luogo” perché nessuno spazio della città è soltanto suo. Per questo suoi sono gli spazi dimenticati, di margine, i giardini pubblici che nessuno vuole più vivere. È un ri-abitatore di luoghi alla deriva, un ri-significatore di giardini che diventano, come a Roma, luoghi di ristorazione per filippini e per passanti o di un centro storico-casbah di origine araba, come Mazara del Vallo, ri-abitato dagli stessi tunisini che l’avevano fondato mille e più anni prima e che i mazzaresi avevano cominciato a rifiutare (K. Hannachi, 1998).
Sarebbe interessante costruire delle mappe mentali dei tipi di funzioni che i nuovi arrivati nelle nostre città vi ravvisano e le funzioni che noi cittadini abituali attribuiamo agli spazi che conosciamo. Spesso usi dismessi, logiche di corpi e di affacci, logiche di panni messi ad asciugare ed antenne paraboliche “rammentano” alla città zone di amnesia, orizzonti perduti di uso.
C’è una memoria delle cose e delle case di cui dovremmo ri-diventare esperti. Qualcuno, come Stewart Brand, ha scritto tempo fa un libro geniale: How Buildings Learn (S. Brand, 1994), come gli edifici imparano per raccontare, come nel corso del tempo le case e le strade “apprendono” a vivere in città. Come certi edifici che sembravano inutili e spocchiosi tutt’a un tratto diventano cari e simpatici, come l’età e la convivenza plasmano spazi inappropriati, case inospitali. Le case, i monumenti, le strade hanno una loro maniera di imparare e lo capiamo bene, se gettiamo uno sguardo alla nostra esperienza dei luoghi. Edifici insignificanti degli anni ’60 si animano di una storia che li rende racconto di qualcosa che prima ci sfuggiva, croste di muri degli anni peggiori del cemento armato sono capaci di accogliere graffiti e superfetazioni che li rendono finalmente capaci di parola e di gesto.
Marc Augé, con i suoi Non Luoghi (M. Augé, 1992), ha raccontato una verità che conoscevamo tutti, ma che forse non avevamo il coraggio di dirci. Ma una volta raccontata, questa verità smette subito di esserlo. Sia perché i “non luoghi” hanno capacità di apprendere, sia perché sono proprio spesso i non luoghi l’occasione di quel perdersi che ci fa ritrovare un senso dello spazio. Come se nell’estrema negazione di significato dei non luoghi ci fosse finalmente la liberazione dalle camicie di forza dei luoghi che non hanno più senso e dalla pretesa che i luoghi abbiano un senso definito e definitivo. Aeroporti, stazioni, stazioni di benzina, e altri luoghi urbani per eccellenza, come la metropolitana, spesso sono posti di una verità che altrove ci viene negata. Il carattere di “eterotopia” che li contraddistingue fa sì che essi sfuggano alle costrizioni della mono-funzione. Stazioni, aeroporti e metropolitane sono luoghi della folla “incondizionata” della mescolanza nuova di facce, etnie, ceti, ambizioni e frustrazioni. Sono i luoghi in cui la città “calmiera” le proprie differenze, dove gli spigoli delle identità diverse sono costretti a fare “gomito a gomito”. Per certi versi sono l’ambito vero della democrazia, in cui la folla deve imparare ad essere urbana, cosmopolita, rapida ed attonita al tempo stesso.
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