
di Alessandro Pertosa*
Soffiano venti gelidi di guerra sopra le nostre teste. Le grandi potenze mondiali minacciano interventi nucleari, assalti, reazioni. Anche il vecchio continente europeo torna a essere terreno di scontro. E l’esito del referendum in Turchia, che incorona Erdogan super-presidente, non aiuta certo a mantenere calme le acque.
E quando il livello della tensione si alza, quando tutto sembra franare e il pessimismo della ragione pare ormai dilagare, resta pur sempre la speranza della disperazione. Resta pur sempre quella speranza che spera oltre ogni speranza. E si appiglia a qualcosa di estremo, di smisurato. A un ottimismo utopico che nonostante tutto continua a brillare.
ARTICOLI CONNESSI
Un silenzio assurdo sulla guerra “a pezzi” Alex Zanotelli
Lettera alle scuole. Un grido contro la guerra
L’ultimo tweet di Trump Santiago Alba Rico
Certo, c’è chi dinanzi a queste ipotesi (che possono sembrare a primo acchito magari persino strampalate) parla di sogno, di inutile vaneggiamento. Eppure se guardiamo indietro, fra le pieghe della nostra storia anche recente, troviamo figure gloriose di uomini e donne che hanno sfidato poteri più grandi di loro. E lo hanno fatto contro ogni ragionevole possibilità di riuscire nell’impresa. Lo hanno fatto perché era giusto, non pensando al risultato o alla possibile vittoria.
Fra queste figure eroiche e donchisciottesche, in un prezioso saggio dal titolo Più forti delle armi (Editrice Ave, 2016), il saggista Anselmo Palini racconta l’epica di Dietrich Bonhoeffer, Edith Stein e Jerzy Popieluszko: spiriti liberi, che pur di non rassegnarsi al male, lottarono “a mani nude” contro il potere costituito.
Si tratta di tre “resistenti nonviolenti”, di persone che si sono basate unicamente sulla forza della propria debolezza, sul vigore fragile della parola e della testimonianza. Perché non basta dirle le cose. Bisogna anche farle. Incarnarle.
Di fronte all’ingiustizia, al terrore, alla violenza, queste persone hanno spezzato la catena dell’odio; per difendersi, non hanno messo in campo una violenza maggiore e contraria, non hanno risposto al male con il male, ma si sono esposti con la loro travolgente delicatezza fino al sacrificio della vita. E proprio grazie a questo sacrificio estremo hanno lasciato un segno indelebile, la loro voce oggi risuona più alta che mai. Perché quando il potere uccide ingiustamente, i resti di chi muore diventano semi di una speranza immortale.
Con loro si avvera di nuovo la profezia dell’anarchico Bartolomeo Vanzetti, che poco prima di morire ammazzato ingiustamente dal boia di Charlestown, il 23 agosto 1927, insieme al suo compagno anarchico Nicola Sacco, proprio nell’elogiare lo spirito nonviolento e tollerante del suo amico Nicola contro la boria violenta del giudice Thayer e della giuria, dice:
“Quando le sue ossa, signor Thayer, non saranno che polvere, e i vostri nomi, le vostre istituzioni, non saranno che il ricordo di un passato maledetto, il suo nome – il nome di Nicola Sacco – sarà ancora vivo nel cuore della gente. Noi dobbiamo ringraziarvi. Senza di voi saremmo morti come due poveri sfruttati: un buon calzolaio, un bravo pescivendolo… E mai, in tutta la nostra vita, avremmo potuto sperare di fare tanto in favore della tolleranza, della giustizia, della comprensione fra gli uomini”.
Il potere, quando uccide, scatena una reazione iatrogena. Ottiene l’opposto di ciò che sperava. E Anselmo Palini è qui a dimostrarcelo ancora una volta. Dietrich Bonhoeffer, Edith Stein e Jerzy Popieluszko non hanno voltato le spalle al male, non hanno girato lo sguardo dall’altra parte. Si sono fatti carico delle sofferenze del proprio popolo, reclamando ad alta voce il diritto alla pace e alla libertà.
E se a distanza di decenni i loro volti commuovono ancora, questa è la dimostrazione che alla prova del tempo la forza del male non vince mai.
.
Questa è l’unica vera lotta