Quell’espressione lì, “Israele siamo noi”, viene usata sempre più spesso da giornalisti, intellettuali e opinion maker. Wasim Dahmash, grande studioso di lingua e letteratura araba, nato in Siria da genitori palestinesi espulsi nel 1948 e vissuto per decenni in Italia, spiega perché quell’espressione ha una dimensione che abbraccia tutta l’Europa e le sue estensioni coloniali e perché è del tutto comprensibile: Israele è l’ultima colonia dell’Europa e il suo successo rappresenta una ‘ricompensa’ per l’esaurimento dei vecchi progetti coloniali. Il massacro di questi giorni a Gaza dovrebbe portare, secondo Netanyahu, ad ‘alleggerire’ il peso demografico palestinese liberandosi di una fetta consistente della popolazione di Gaza, per potersi poi dedicare, con maggiore agio, alla pulizia “etnica” di altri territori, da Gerusalemme e la Cisgiordania alla Galilea

In questi giorni mi capita d’imbattermi nell’espressione “Israele siamo noi”. Trovo che sia una buona sintesi delle opinioni dei sostenitori di Israele, della percezione di se stessi e del loro ruolo sociale, non solo di militanti di ‘destra’, ma anche di giornalisti, intellettuali e altri opinion maker.
Altri vanno oltre il generico “Israele siamo noi” e si definiscono ‘sionisti’, seguendo l’esempio del presidente statunitense Biden che ama ripetere di essere ‘sionista’ perché “mio padre mi ha detto che non è necessario essere ebrei per essere sionisti”. Come a dire che il sionismo è radicato negli USA da generazioni e non interessa solo gli ebrei, ma riguarda tutti. Anche in Italia non mancano intellettuali e personaggi in vista che si definiscono “sionisti appassionati”. Non so ovviamente cosa pensano e come intendono il sionismo, probabilmente lo concepiscono come ‘cosa buona e giusta’. Ma posso dire cosa pensano e come l’hanno vissuto i palestinesi. Il sionismo significa per noi palestinesi il furto del nostro paese e il tentativo di furto della nostra storia. Il furto, come tutti sanno, ma pochi vogliono ricordare, è stato possibile grazie all’occupazione britannica della Palestina e soprattutto grazie alla pulizia etnica attuata dalle milizie sioniste organizzate e sostenute dalla Gran Bretagna, quelle che sono diventate esercito israeliano. Un esercito che ha continuato la pulizia etnica dopo la costituzione dello Stato d’Israele nel 1948, espellendo 962.000 persone (unica statistica affidabile, è quella dell’ONU). Una pulizia etnica che i palestinesi hanno subito ancora una volta nei territori palestinesi conquistati da Israele nel 1967. I dirigenti israeliani continuano a ripetere di voler continuare “il lavoro iniziato nel 1948” e oggi lo sostiene Netanyahu il quale, non appagato dalla pulizia etnica strisciante di Gerusalemme e Cisgiordania, vorrebbe ripetere ‘il colpo’ a Gaza con gli stessi metodi a lungo sperimentati: uccidere il più grande numero di ‘indigeni’ in modo da creare il panico e spingerli ad andarsene. Questo è il senso dell’ordine di andare verso sud dato dall’esercito israeliano a un milione di palestinesi di Gaza.

Quando i primi coloni sionisti arrivano in Palestina, i palestinesi, preoccupati chiedono l’intervento del governo centrale di Istambul, perché i coloni vanno in giro armati. I coloni sono armati dalla Gran Bretagna che occupa la Palestina con l’intento dichiarato di trasformarla in una colonia per ebrei europei e che subito comincia a modificare il sistema delle leggi, a trasferire proprietà ai coloni, a espellere i contadini palestinesi dalle terre che coltivano da secoli e soprattutto a organizzare un esercito sionista che darà prova delle sue capacità militari contro la popolazione civile.
I palestinesi sperimentano il sionismo soprattutto quando il paese viene consegnato alle bande armate sioniste che espellono tutti gli abitanti, a suon di stragi e massacri, dalle regioni che man mano occupano. Oggi, i profughi palestinesi registrati dall’ONU sono 5.800.000 di cui oltre 2.000.000 si trovano nei territori occupati da Israele nel 1967. Se i profughi hanno assistito al furto delle loro terre e delle loro case, degli averi personali, del loro paese, della loro storia, della loro arte e di tutto ciò che forma un paese normale, coloro che non hanno subito quella sorte vivono sotto un regime di apartheid. Basterebbe un solo esempio: un bambino israeliano è considerato incapace di intendere e volere fino al superamento del quattordicesimo anno d’età, mentre un bambino palestinese sotto i quattordici anni può essere giudicato da un tribunale militare e condannato ad anni di carcere perché ‘sospettato’ di aver lanciato una pietra contro soldati armati di tutto punto. Senza parlare della continua demolizione di case, delle irruzioni notturne dei soldati, dei pogrom effettuati dai coloni protetti dai soldati, ecc.
Il discorso dell’‘Israele siamo noi’ non riguarda solo la ‘destra’, ma ha una dimensione che abbraccia tutta l’Europa e le sue estensioni coloniali. Ed è del tutto comprensibile: Israele è l’ultima colonia dell’Europa e il suo successo rappresenta una ‘ricompensa’ per l’esaurimento dei vecchi progetti coloniali. Molti paesi che hanno subito il dominio coloniale hanno ottenuto l’indipendenza, formale nella maggior parte dei casi, effettiva solo in alcuni. Altri colonialismi d’insediamento hanno avuto pieno successo, come in America, Australia, Nuova Zelanda, ecc. ma sono ormai “normalizzati” essendo riusciti a eliminare le popolazioni indigene e a sostituirle con nuove comunità coloniali. Altri ancora sono falliti, come in Algeria o in Sudafrica. Non è il caso di Israele che da una parte ha potuto occupare l’intero territorio della Palestina mandataria, oltre a territori siriani e libanesi, ma non è riuscito a eliminare gli indigeni, cioè i palestinesi, nonostante i ripetuti massacri, a cominciare da quello del 1948. Dopo 75 anni di continui tentativi infatti, gli indigeni sono ancora maggioranza nel territorio. Il genocidio strisciante che Israele porta avanti nei territori occupati nel 1967, intervallato da massacri come quelli di Jenin del 2002 o del 2023 oppure quelli di Gaza del 2008-9 o del 2014, non ha portato al risultato sperato, ovvero provocare un esodo di massa dei palestinesi come quelli del 1948 o del 1967.
È di questi giorni l’invito del primo ministro israeliano Netanyahu rivolto agli abitanti di Gaza di andare via, nel Sinai, unico territorio attiguo a Gaza non occupato dagli israeliani. Lo scopo è
quindi dichiarato: continuare la pulizia etnica della Palestina iniziata settantacinque anni fa e mai interrotta. L’espulsione, nella politica coloniale israeliana, è un primo passo che, nella prassi ormai consolidata, è seguito da pratiche tendenti a disperdere i profughi, spesso con intensi bombardamenti sulle tendopoli. È successo appena costituito lo Stato israeliano che ha cominciato a bombardare i profughi nella striscia di Gaza già nell’ottobre 1948, per continuare in Giordania, in Libano e in Siria. Il massacro di questi giorni a Gaza dovrebbe portare, secondo Netanyahu, ad ‘alleggerire’ il peso demografico palestinese liberandosi di una fetta consistente della popolazione di Gaza, per potersi dedicare, con maggiore agio, alla pulizia etnica di altri territori, da Gerusalemme e la Cisgiordania alla Galilea. Il governo israeliano potrebbe allargare ancora di più il consenso mondiale al massacro e all’espulsione dei palestinesi di Gaza alimentando la campagna propagandistica con fake news che presentano i palestinesi come massacratori di bambini, e che altri forse in buona fede ripetono.
Wasim Dahmash, nato a Damasco nel 1948 da genitori palestinesi espulsi da Lydda, ha insegnato lingua, dialettologia e letteratura araba alle Università di Roma e Cagliari. Tra il 1980 e il 2015 ha tenuto lezioni in quasi tutte le università italiane e tenuto corsi di letteratura, linguistica e storia letteraria. Dal 1999 dirige la casa editrice Edizioni Q, che ha cofondato con alcuni colleghi dell’Università di Roma. È l’unica casa editrice in una lingua diversa dall’arabo interamente dedicata alla Palestina. Si dedica al volontariato con Gazzella, un’associazione senza scopo di lucro che ha cofondato con amici nel 2000. Fornisce assistenza, cure e riabilitazione ai bambini palestinesi che sono stati feriti da armi da guerra e ai bambini con disabilità che vivono nella Striscia di Gaza. Negli ultimi 22 anni, Gazzella ha fornito sostegno a oltre 3.600 bambini e finanziato la fornitura di generatori elettrici per cliniche e programmi di riabilitazione motoria a Gaza.
Piena e TOTALE solidarietà con il popolo Palestinese.
Purtroppo credo che in quella regione non ci sarà mai la pace per il semplice motivo che gli israeliani non la vogliono.
Perchè dico questo? Perchè quella pace prospettata dagli accordi di Oslo che prevedeva due stati, nella mente bacata degli israeliani quello Palestinese dovrebbe essere uno stato “groviera” (come il formaggio svizzero).
Ovvero uno stato con al suo interno centinaia di “enclavi” (le famose colonie) la cui giurisdizione dovrebbe ricadere sotto lo stato di israele.
Ma queste “colonie” sono a volte città con decine di migliaia di abitanti, le quali hanno tutte le infrastrutture x funzionare: acquedotti, elettrodotti, ospedali, fabbriche, gasdotti, scuole ecc.
E voi pensate che gli israeliani siano disposti, non dico a lasciare queste città, ma neanche pur continuando a viverci, che queste ridadano sotto la giurisdizione di un eventuale stato Palestinese.
L’altro grande motivo è che i Palestinesi come i Curdi sono stati sempre strumentalizzati dagli altri paesi arabi, altrimenti con la FORTE arma del petrolio che hanno in mano questi, il problema si sarebbe risolto decenni fa.
Bastava chiudere tutti i rubinetti del petrolio verso i paesi occidentali.
E l’altro grande motivo è che alle cosidette “democrazie liberali” non gliene frega niente dei Palestinesi, visto che ONU, Tribunale Internazinale dei diritti umani, UE hanno prodotto decine di risoluzioni di condanna di israele ma non ne hanno fatto rispettare neanche UNA !!!