La cura dell’altro è il gesto con cui prende forma il corpo relazionale. Per questo è un terreno fecondo per qualsiasi percorso sui temi dell’antirazzismo ma soprattutto per creare in tanti modi diversi mondi nuovi nei quali emergono relazioni non capitaliste. Abbiamo bisogno di ripensare la relazione tra resistenza, lotta e cura, scrive in questo saggio (qui diviso in due parti e pubblicato interamente nel quaderno Benvenuti) Gian Andrea Franchi. Possiamo farlo partendo dalla vita di ogni giorno
“I can’t breathe” George Floyd, 25 maggio 2020
La cura dell’altro è il gesto fondamentale dell’antropogenesi. È il modo attraverso cui sul corpo del vivente umano cresce quello che mi vien da chiamare il corpo di desiderio, il corpo relazionale umano.
Alcune modalità di cura si possono osservare anche in altre forme viventi, ma nella forma umana la cura acquista un’importanza assoluta.
La vita umana non può darsi senza un minimo di cura – in altri termini, senza una certa quantità e qualità di “amore”. Il bambino non amato o poco amato diventerà, a seconda dell’intensità di questa carenza, un essere più o meno deprivato delle sue possibilità di vita o un violento.
Intorno a questa tematica fondamentale, sento risonanza con ciò che Chiara Bottici chiama “comunismo somatico” per distinguerlo dal “comunismo politico”: il primo inteso nei termini marxisti classici di “proprietà collettiva dei mezzi di produzione e abolizione della proprietà privata”; il secondo nei modi in cui “i corpi pervengano ad essere, e si mantengano, solo attraverso ciò che condividono con altri corpi”1.
La violenza, e quindi il potere, affondano le radici nella mancanza o nella povertà di cura – si potrebbe dire: nella recinzione razziale della cura nel genere femminile -, che porta al diffondersi di relazioni basate sulla contrapposizione fra individui: l’individuo che si crede separato e si vede contrapposto agli altri individui sorge dalla povertà di cura.
Il lungo periodo di formazione dell’essere umano e la particolare importanza dei primi anni di vita aiutano a capire la diffusione e la saldezza dei sistemi di potere e, in particolare, di quelli che controllano gli ambiti in cui si formano le nuove vite, primo fra tutti la famiglia, con la subordinazione e lo sfruttamento del necessario impegno di cura, frutto caratteristico di un sistema sociale patriarcale, che prende uno slancio diverso con lo sviluppo del capitalismo.
E qui si inserisce, dunque, anche la questione essenziale del predominio dell’uomo sulla donna, tuttora elemento strutturale nella stragrande maggioranza delle società oggi esistenti. Il predominio maschile è infatti alla base della formazione dell’essere umano, non in tutte le civiltà passate o presenti – è importante ricordarlo -, ma specialmente nelle grandi civiltà e, in particolare, in quella sviluppatasi nell’Europa, divenuta dominante in tutto il globo2.
Storicamente nelle culture patriarcali, la cura necessaria è stata affidata alle donne, che portavano in grembo la nuova vita, mentre ai maschi spettava l’esercizio della forza, della violenza e la loro istituzionalizzazione, che significa controllo e gestione del rapporto tra la vita e la morte: la formazione di sistemi di potere.
Alle donne subalterne la cura della vita, agli uomini dominanti la gestione della mortalità.
Credo che questa separazione abbia dato portato o dato un forte impulso alla scissione e contrapposizione fra due dimensioni che sono invece complementari:morire e vivere, irrigidendoli nella contrapposizione fra morte e vita, considerati come opposti invece che complementari nella dinamica temporale dell’iniziare e del finire. In tal modo, il morire si è irrigidito nella contrapposizione, facendo prevalere il bisogno di controllare la minaccia della morte sul desiderio di vivere. L’essere sociale è stato quindi disposto sulla base della gestione della mortalità – fondamento di ogni potere -, della paura della morte. Da ciò il sorgere dei sistemi di potere come capacità di far vivere o far morire, di lasciar vivere o lasciar morire, fra cui emerge, in Occidente, lo Stato.
Oggi, il potere formativo della famiglia è in fase di riduzione in Occidente e i processi di socializzazione sono ampiamente diffusi attraverso la capillare pervasività del potente medium della rete. Queste dinamiche sociali tendono a dissolvere, in gran parte, la rigidità del patriarcato nella dinamica più elastica e più subdola di un androcentrismo diffuso.
bell hooks chiarisce, però, che non è il ‘genere’ a racchiudere o meno la violenza. Anche le donne possono essere molto violente, introiettando il modello virile: è stata una lunga dinamica storica a fissare nel maschio il potere, il dominio, quindi, la violenza, implicita nel “modo in cui trasformiamo i ragazzi in uomini”. Riferendosi soprattutto alla società del suo paese, che pretende di ergersi a modello per il mondo (e di fatto lo è stato per molti decenni e in parte lo è ancora), nota che “oggi i bambini e i giovani sono quotidianamente bombardati da una pedagogia velenosa che incoraggia la violenza e il predominio maschile. … Lo spietato attacco patriarcale all’autostima degli adolescenti maschi è diventata la norma accettata”3.
Si danno quindi due possibilità storiche d’esistenza, due forme di costruzione del corpo desiderante, attribuite ad un genere:
- la cura – rimasta subalterna e incarnata storicamente nel genere femminile che, a sua volta, ne è stato definito. Dalla cura scaturisce la possibilità della formazione dell’essere umano come singolarità, portatrice di quell’assoluta novità esistenziale che può caratterizzare ogni essere umano.
L’autoaffermazione di ogni essere umano come singolo – evento unico, dato una volta sola nella storia – è un fenomeno pienamente relazionale: io ricevo me stesso dall’altro: non c’è ‘io’ senza ‘ sé’, ma il ‘sé’ nasce dall’altro. La forma essenziale di rispecchiamento umano, di riflessione, è lo sguardo dell’altro.
Il collettivo e il singolo, quindi, si implicano reciprocamente.
È il “comunismo somatico”, cui fa riferimento Chiara Bottici.
- E, viceversa, un’altra possibilità dalla quale scaturisce l’’individuo’, la cui incorporazione storicamente esemplare è nel maschio dominante. In questo caso, la relazione è segnata da contrapposizione e potere.
Il tipo di cultura androcentrica, che oggi mondialmente domina, ha, per così dire, sciolto ma ovviamente non dissolto, il patriarcato nell’Economia di mercato o Capitalismo: lo ha confermato, anzi, rendendolo capillare e invisibile come l’aria, soprattutto nei paesi in cui può sembrare ormai più limitato.
Ontologicamente, il potere è un surrogato dell’amore: nasce dall’allucinata speranza di poter controllare la vita e, quindi, la morte, che ne è elemento costitutivo.
Le culture organizzate sulla base di sistemi di potere hanno, probabilmente, anche una base nelle dinamiche della vita, fra cui rientra la predazione. Il capitalismo può apparire come una sorta di squilibrio predatorio che rompe l’equilibrio dell’insieme della vita – in cui i bisogni dei predatori sono comunque contenuti dentro il limite vitale di una specie -, avendo costruito, con la diffusione mondiale della Cultura dell’economia di mercato, un sistema predatorio senza limiti, mai apparso prima.
Sulla base dell’esperienza della singolarità, ovvero della novità assoluta di cui ogni essere umano può esser capace, il nascere e il morire (l’iniziare e il finire) non si contrappongono nell’esperienza temporale della finitezza della vita umana e di ogni forma di vita, ma sono, invece, i due modi complementari che disegnano la forma temporale dell’esistenza e della vita.
La finitezza coincide con l’unicità di ogni essere umano: unico proprio perché finito – attivo una volta sola -, su cui si fonda il valore “assoluto” della singolarità.
È necessario, a questo punto, aggiungere una considerazione non secondaria.
Il concetto di singolarità, in quanto indicatore del valore assoluto di ogni essere umano, esclude e supera ogni considerazione legata al genere, perché un essere umano vale in quanto singolo, portatore di un novità creativa legata alla sua unicità, oltre ogni qualificazione generica o extra generica.
Il concetto di singolarità, inoltre, esclude quello di identità: la singolarità non è identitaria, all’opposto è disidentificata e disidentificante. Si manifesta come dinamica di tracce, espressioni, passaggi, relazioni cangianti. La sua unità è storica: una sintesi temporale di incontri, di relazioni, quindi creativamente inscritta in una storia collettiva. Possiamo dire che è inafferrabile, a differenza dell’identità. La sua fedeltà a se stessa è fedeltà al cambiamento, in un percorso unico e imprevedibile, quindi singolare, di incontri.
Tutto ciò si esprime nelle manifestazioni affettive profonde, nelle scelte radicali di vita, nella creatività in tutte le sue manifestazioni. È un concetto temporale e squisitamente relazionale: vive nel passaggio “fra” singoli. La singolarità è un “fra”: una tensione fra l’io e l’altro.
L‘assolutezza’ della singolarità consiste nella possibilità per ciascun essere umano di portare relazioni assolutamente nuove nella dinamica collettiva dell’esistenza, consegnandole a chi verrà dopo di lui. Ogni vita dovrebbe essere come un poema, un racconto, una manifestazione di qualcosa di nuovo, che incrementa l’esistenza di tutti: da uno per tutti.
Anche la morte – l’esser morti, l’esser passati di qui, l’esser stati vivi – è un rapporto: è la storia umana, composta di rapporti con coloro che sono stati nel passato e con coloro che saranno nel futuro. Essere non è un sostantivo, come im-posto dalla tradizione religiosa e metafisica, ma un verbo che si coniuga in presente, passato, futuro: “è – è stato – sarà”. Sarò quel che ho lasciato agli altri.
Il precipitato narrativo del tempo costituisce un rapporto essenziale, sempre diverso, mai unificabile in un processo unico: non è “la storia”, che rimanda a un potere unificante, ma sono “le storie”, innumerevoli, degli esseri umani, delle collettività e dei singoli, nel tempo e nello spazio.
Non possiamo escludere la possibilità, difficile ma non astratta, perché ontologicamente radicata, che il futuro della terra porti all’esigenza diffusa di costruire finalmente una narrazione collettiva degli umani… Ciò non dovrebbe portare, però, a un’omologazione, ma, al contrario, alla ricchezza degli scambi vitali tra diverse esperienze collettive.
È più probabile, tuttavia, il contrario: un aumento della contrapposizione.
Morire significa che l’Io deve lasciare il posto all’Altro che sarà, cui dona la propria traccia di vita, mentre dall’Altro passato ha ricevuto: la relazione nel tempo, la relazione storica, è la forma essenziale e radicale di socialità: tipicamente umana.
Il tempo storico tiene insieme morire e vivere: iniziare e finire. “Finire” nel senso di compiere, completare, vuol dire dar forma temporale a una vita, che quindi è una connessione di tanti inizi e tante fini, sino alla fine ultima che è il passaggio comunicativo a chi viene dopo.
Iniziare e finire sono la forma e l’ordinamento del tempo della vita. Una vita infinita è mera astrazione.
L’errore – se così si può chiamare – è irrigidire iniziare e finire, morire e vivere, separando e contrapponendo, sostantivamente, “morte” e “vita”.
Ciò dipende dalla consapevolezza della morte propria dell’essere umano e quindi dall’angoscia che ne insorge: è un dato antropologico. La relazione tra ‘vita’ e ‘morte’, tra nascere e morire, tuttavia, può essere elaborata in maniera diversa nelle diverse culture. Ci sono culture, infatti, nelle Americhe, in Africa, in Asia, che hanno con la morte un rapporto diverso da quello dell’Occidente, meno drammatico, più accogliente, in cui i morti con il loro lascito alla collettività dei vivi, mantengono, per così dire, una presenza quotidiana: per questo occorre, appunto, una dimensione collettiva.
In una cultura individualistica come la nostra occidentale, il rapporto con il carattere finito di ogni forma di vita, il rapporto con la morte, è particolarmente negativo. L’individuo è terrorizzato dalla morte, perché la vita nasce e finisce con lui stesso. Il terrore e l’angoscia della morte producono, però, violenza e morte, in una circolarità micidiale, come dobbiamo constatare soprattutto nelle società occidentali e occidentalizzate.
È il paradosso tragico del potere, da cui nasce la violenza: violenza, infatti, è esercitare un potere sull’altro. Caratteristica della violenza è la riproduzione di ciò da cui vuol difendersi, la morte, perché al fondo di ogni potere c’è la possibilità – per quanto astratta, remota, simbolica – di dare la morte.
Si innesca così un tragico dinamismo antropologico e storico: la violenza, infatti, è alimentata dall’angoscia per la morte, da cui vuol difendersi riproducendola. Questo paradosso ha il suo culmine nel capitalismo, cui sono intrinseche due forme fondamentali di violenza storica, androcentrismo (patriarcato) e colonialismo, caratterizzato da razzismo, schiavismo ed estrattivismo, ovvero la concezione della terra come mera fonte e deposito di materiali da utilizzare.
Il potere e la violenza sono il modo negativo di rapportarsi al carattere finito, alla mortalità, di ogni forma di vita, nell’illusione di difendersene.
Il modo alternativo fondamentale di vivere il tempo è il desiderio. Il tempo è colto allora come possibilità di incontri per trovare sé stesso nell’altro. Il desiderio è sempre e soltanto desiderio dell’altro, perché è solo nell’altro, nella relazione, che cerchiamo e possiamo trovare noi stessi. La temporalità del desiderio è quindi il carattere temporale, processuale, della relazione.
La politica come resistenza, lotta e trasformazione di una condizione inaccettabile, deve partire dalla ricostruzione della possibilità di fare esperienza, sulla cui perdita aveva cominciato a riflettere Walter Benjamin nel clima angoscioso del primo dopoguerra.
L’”esperienza” sorge innanzitutto quale relazione con l’altro da sé.
Alla base della difficile capacità di fare esperienza c’è la fondamentale percezione emotiva che l’intrinseca relazione con l’altro costruisce il ‘sé’- nel gioco continuo fra ‘io’ e ‘sé’, costitutivo di ciò che Hannah Arendt chiamava efficacemente “l’insorgenza” dell’unicità del singolo “poiché noi siamo tutti uguali, cioè umani, ma in modo tale che nessuno è mai identico a nessun altro che visse, vive o vivrà”: “la pluralità umana è la paradossale pluralità di esseri unici”4.
Questa relazione paradossale è il fondamento della comunità, del collettivo e quindi alla base di ciò che voglio chiamare “politica”, cioè della possibilità di costruire forme sociali basate appunto sull’essere-in-comune.
Contrariamente a quel che sosteneva Hannah Arendt, ritengo che non ci sia e non ci possa essere differenza tra una dimensione “privata” e la dimensione “politica” o collettiva. Questa differenza è il frutto avvelenato delle società ‘occidentali’ che producono individui isolati, chiusi nelle loro paure.
Riflette Donna Haraway:
“La risposta al ‘Chi sono?’ è la (mai irrealizzabile) identità. Sempre in bilico, ancora ruota intorno al perno della sacra legge del padre, della sacra immagine del medesimo. E poiché sono una moralista, non esito a dire che la vera domanda deve avere più virtù: ‘chi siamo noi?’ Questa è una domanda intrinsecamente più aperta, sempre pronta per le articolazioni impreviste, che generano frizioni, una domanda rivendicativa”5.
La vera risposta alla vera domanda è che l’io e il noi si implicano: non c’è “io” senza “noi” e viceversa.
Ma, usciamo dalla letteratura.
Nella concretezza della lotta, di una lotta lunghissima – troppo lunga oramai, malgrado abbia prodotto un consenso sociale non indifferente -, i lavoratori del Collettivo di fabbrica GKN di Firenze scrivono nel loro Diario collettivo di lotta operaia (e non solo): “Dov’era l’io fare il noi”, invitando “a sviluppare una mobilitazione che non sia dettata solo dall’emergenza… Una mobilitazione fuori dallo stato di emergenza continuo, dove ci viene imposta l’agenda della lotta”6.
I compagni della GKN indicano la necessità storica di un passaggio fondamentale: il passaggio dalla contrapposizione alla costruzione; dalla lotta contro il ‘padrone’, che oggi sfuma nell’indistinto di un fondo d’investimento o di altri inafferrabili meccanismi gestionali, alla costruzione nel territorio di forme di socialità alternativa.
Questo collettivo operaio esprime una grande consapevolezza. C’è il forte rischio che, prima o poi, rimanga isolato. Dell’isolamento sociale i compagni NoTav della Val di Susa sanno qualcosa, in una lotta che dura da decenni.
Ecco un compito che si prefigura: riuscire a collegare fra di loro diverse situazioni di resistenza, lotta e formazione di collettivi.
Esiste una rete di solidarietà con gli attivisti fra profughi dal Medioriente e dall’Africa, per quanto ancora ben fragile: gli attivisti di confine – da Trieste alla Val di Susa, a Ventimiglia, a Bolzano, ai porti e ai luoghi di sbarco. Si sta faticosamente formando una rete fra tutti gli attivisti con i profughi di terra e di mare.
Così, dovrebbe formarsi una rete tra queste reti, l’intervento politico operaio, di cui è esempio il collettivo Gkn, e altre situazioni di resistenza, lotta e solidarietà, sparse, semisconosciute, sconosciute…
L’azione politica, ovvero l’azione collettiva, deve trasformare l’individuo rinchiuso nella propria identità, frutto delle dinamiche di potere statali ed economiche in singolo frutto di relazioni. Questo è mancato sinora in larga misura nella tradizione ‘rivoluzionaria’, che non è riuscita a curarsi dei problemi relazionali, rimasti spesso soffocati o stritolati dai meccanismi ideologici.
Elena Pulcini, nel suo libro sulla cura così ricco di stimoli, osserva che” il primo presupposto fondamentale della disposizione della cura è la consapevolezza della condizione di vulnerabilità”7.
Questo è un dato centrale, che aiuta a capire tante difficoltà.
La vulnerabilità è una conseguenza fondamentale del carattere relazionale dell’essere umano, dal quale scaturisce anche il desiderio. Della vulnerabilità è necessario tener conto nel complesso impegno di un agire di cui non si può scorgere il compimento.
Nel passato delle lotte sociali la vulnerabilità è stata sempre nascosta dietro l’esaltazione della forza.
Scrive Judith Butler:
“Dire che ciascuno di noi è un essere vulnerabile significa ribadire la nostra radicale dipendenza non solo dagli altri ma da un mondo che ci supporta e che deve essere in grado di farlo. Ciò ha implicazioni di grande rilievo per la comprensione di chi siamo in quanto esseri emotivi e sessuali, in quanto legati gli uni agli altri fin dall’inizio, ma anche in quanto esseri che tentano di persistere, e la cui persistenza può essere messa in pericolo o, al contrario, sostenuta dal supporto offerto dalle strutture sociali, economiche e politiche a una vita vivibile”8.
Questo aspetto, fondamentale ma difficile “per la comprensione di chi siamo”, è una delle ragioni principali per cui i movimenti politici degli anni Sessanta-Settanta, che finivano di fatto con l’esaltare la lotta – la contra-posizione – come momento quasi unico, hanno affrontato in maniera inadeguata la questione della relazione – della com-posizione – fra singoli.
Il movimento delle donne, il femminismo, ha introdotto questa problematica essenziale, ma non ha avuto il tempo e forse i modi opportuni per penetrare nei movimenti sociali e radicarsi in maniera sufficiente da farne un elemento centrale.
La condizione ontologica dell’essere umano è, dunque, determinata dalla relazione con gli altri, che precede e fonda quella con se stesso. Da ciò, la primordiale esigenza culturale di essere riconosciuto e di riconoscere l’altro.
Questo desiderio di essere è stato trasposto dal capitalismo in desiderio di possedere quale forma diffusa capillarmente di identità fra individui contra-posti (invece che com-posti). Da ciò l’identità come relazione di potere: potere di vivere, potere sulla vita, sulle sue fonti, quindi sugli altri.
Ma il potere è, nel suo fondo, una disperata denegazione della vulnerabilità dell’essere umano. E la forma economicistica del potere, il capitalismo, è una sorta di feroce laicizzazione della tensione religiosa, se accettiamo la riflessione sul rapporto fra religione e calvinismo di Max Weber.
La vulnerabilità, infatti, è l’altra faccia del desiderio, della condizione ontologicamente relazionale dell’essere umano.
Questa double-face della condizione umana implica e richiede un equilibrio molto difficile da raggiungere.
L’aver trascurato – rimosso – la questione della vulnerabilità ha spinto l’impegno politico “rivoluzionario” alla convinzione della necessità di forme alternative di potere.
Le vicende storiche, invece, hanno dimostrato che non esistono “forme alternative di potere”: potere è “pochi che comandano” sui molti – non si scappa. Le intenzioni dei pochi possono essere eccellenti – come storicamente in alcuni casi è stato – ma potere implica sempre un apparato, una macchina, gestionale. La ricerca del potere ha fatto ricadere proprio in quel che si voleva superare, per una sorta di maligna Aufhebung hegeliana: togliere per conservare, abbattere per riprodurre, nel passaggio da un potere all’altro.
La comprensione e l’assunzione della vulnerabilità non significa rinunciare alla lotta, quindi alla forza, che non coincide necessariamente con la violenza, nella consapevolezza, però, di un suo uso nei limiti delnecessario, perché necessarie sono resistenza e reazione alla violenza del potere – ma non come soluzione all’ingiustizia.
Il gesto politico, nella sua complessità, deve implicare sempre tre momenti strettamente complementari:lotta, resistenza e cura, che vanno sempre colte insieme. Se uno dei momenti manca, non compare la dimensione politica nel significato che cerco di esprimere, estraneo alla relazione di potere.
Uno dei tre momenti può prevalere, a seconda delle circostanze, ma gli altri non vanno mai dimenticati, mai accantonati in un futuro lontano. La prevalenza di un momento non deve significare l’oblio o l’abbandono degli altri, che stanno in un rapporto circolare a costituire il fondamento dell’atto politico, radicato nell’ontologia dell’umano.
La qualità propria dell’impegno politico, al di fuori e contro le dinamiche di potere, stanel mantenere sempre la relazione circolare fra resistenza, lotta e cura,adeguandola con intelligenza alle situazioni in atto.
In tal senso, posso dire, ricordando la frase incisa sui muri calcinati di un villaggio palestinese, che è necessario passare dalla resistenza alla re-esistenza.
La cura come forma di vita che dà forma alla vita, è l’anima della Re-esistenza.
Nell’attuale drammatica fase storica, in cui sono difficili, rare e scarne di risultati le forme di lotta, dobbiamo risignificare la nozione di Resistenza, con cui ci si riferisce normalmente alla fase di lotta armata contro il nazifascismo – ricordandoci anche che il razzismo, figlio della violenta diffusione mondiale della Cultura dell’Occidente nei termini del colonialismo, è intrinseco al capitalismoche vive di sfruttamento degli esseri umani e della vita intera.
Dobbiamo quindi andare verso una pratica di vita quotidiana e una visione dell’esistenza come re-esistenza, che implica i tre momenti di resistenza, lotta e cura.
Voglio notare che “cura” si contrappone a quello che possiamo considerare la parola d’ordine che lo Stato sventaglia in ogni occasione: sicurezza. L’etimologia di “sicurezza” è sine-cura: esattamente il contrario di “cura”.
Lo Stato afferma che suo compito è occuparsi del “cittadino”. Il cittadino è colui che viene identificato dallo Stato come tale e di cui istituzionalmente vuole e deve garantire la sicurezza, la sine-cura. In nome della sicurezza, lo Stato può spingersi, magari utilizzando opportunamente i necessari segmenti segreti, fino all’estrema violenza nei confronti dei suoi cittadini, per restare nella storia del nostro paese negli anni Sessanta-Ottanta del Novecento; ma vanno ricordati anche i “fatti” di Genova del luglio 2001: l’uccisione di Carlo Giuliani e le estreme violenze della polizia nell’assalto alla scuola Diaz.
Anche, là dove non esiste più la pena di morte, lo Stato rimane arbitro della vita e della morte. Fuori dalla “legge”, se lo ritiene necessario. Lo Stato non è mai, non può essere, soltanto mera legalità: la parte in ombra gli è essenziale. Soltanto la presenza attiva di forme di autorganizzazione sociale possono costringere lo Stato a una legalità pubblica, che, nella misura sempre incerta esiste, è un campo di lotta.
In nome della sicurezza, lo Stato lascia morire, fa morire, fa o partecipa alle guerre, come oggi dobbiamo constatare in condizioni che sembrano il frutto di un’allucinazione collettiva, guidata però con lo stesso cinismo – per fare un esempio fondativo di un periodo storico – con cui la dirigenza statunitense decise di sperimentare la neonata bomba atomica sulla pelle di civili giapponesi.
Sulla vulnerabilità, Pulcini fa riferimento a Hans Jonas, il quale afferma che “la forza della vulnerabilità… è pari a quella che induce i genitori a prendersi cura del neonato, il quale ‘con il suo solo respiro’ impone di farsi carico della sua vita, configurandosi come ‘l’archetipo atemporale’ della responsabilità e della cura”.
Hans Jonas rimanda ad una nota affermazione di Simone Weil, spesso citata, sull’invincibile aspettativa, propria di ogni essere umano, che gli si faccia del bene e non del male9.
Un altro aspetto fondamentale dell’impegno politico su cui Pulcini richiama la nostra attenzione è la domanda:
Perché “gli esseri umani dovrebbero mobilitarsi per “l’altro sconosciuto e distante?”, “l’altro distante nello spazio e distante nel tempo”. “Ciò vuol dire che l’altro oggi non è solo colui/colei di cui farsi carico in una relazione face-to-face e in un contesto di prossimità: è anche, appunto, l’altro sconosciuto e distante che in un modo o nell’altro irrompe nella nostra vita, chiamandoci a una preoccupazione e a una risposta che diventa ineludibile”10.
[QUI LA SECONDA PARTE DELL’ARTICOLO]
1 Chiara Bottici, Nessuna sottomissione. Il femminismo come critica dell’ordine sociale, Laterza, Bari Roma 2021, p. 270.
2 Esiste una letteratura che studia la possibilità di forme sociali chiamate matriarcali, con un rapporto paritario o comunque diverso fra i generi, precedenti all’affermazione e diffusione delle società patriarcali. Su questo tema, ovviamente, non è qui il caso di insistere. Mi limito a citare la sintesi di Heide Goettner-Abendroth, Le società matriarcali del passato e la nascita del patriarcato, Mimesis, Milano-Udine 2023.
3 bell hooks, La volontà di cambiare. Mascolinità e amore, il Saggiatore, Milano 2022, pp. 77 e 69.
4 Hannah Arendt, Vita Activa, Bompiani, Milano 2001, pp. 8 e 128.
5 Donna Haraway, Le promesse dei mostri, DeriveApprodi, Roma 2019, pag. 123.
6 Collettivo di fabbrica Gkn, Insorgiamo, Alegre, Roma 2022, p. 8.
7 E. Pulcini, Tra cura e giustizia. Le passioni come risorsa sociale, Bollati Boringhieri 2020, p. 69.
8 Judith Butler, L’alleanza dei corpi, nottetempo, Milano 2017, p. 236.
9 Simone Weil, L’Enracinement, Gallimard, Paris, 1949, p.13
10 E. Pulcini, Tra cura e giustizia, cit., pp. 85, 84.
Lascia un commento