La cura dell’altro è il gesto con cui prende forma il corpo relazionale. Per questo è un terreno fecondo per qualsiasi percorso sui temi dell’antirazzismo ma soprattutto per creare in tanti modi diversi mondi nuovi nei quali emergono relazioni non capitaliste. Abbiamo bisogno di ripensare la relazione tra resistenza, lotta e cura, scrive in questo saggio (diviso in due parti – qui la prima, di seguito la seconda – e pubblicato interamente nel quaderno Benvenuti) Gian Andrea Franchi. Possiamo farlo partendo dalla vita di ogni giorno
[Qui la prima parte dell’articolo Per un comunismo della cura] [….] Nella vicenda storica degli umani, una piccola parte della terra chiamata Europa, a partire dalla fine del XV secolo, ha cominciato a espandersi nel resto del mondo e contemporaneamente a immaginare un distacco fra il corpo vivente e il corpo relazionale dell’essere umano – la mente, lo spirito – spinto fino alla contrapposizione.
È stato l’inizio di una dinamica globale distruttiva. Qui si allude al fatto storico che il dominio coloniale sull’altro, parallelamente al dominio sulla “natura” – ovvero la civiltà occidentale, il Nord del mondo -, ha prodotto il corpo, i pensieri, le emozioni di noi ‘occidentali’. Siamo tutti cartesiani, costruiti cioè nella separazione natura/cultura. La civiltà di matrice europea è cresciuta diffondendosi, con violenza genocida, in tutto il mondo.
Concretamente e quindi localmente: ecco per me, per noi, il caso dei profughi dalla Rotta balcanica. Da loro arriva l’altro sconosciuto e lontano, ma alla base del nostro modo di vita, l’altro della “distanza abissale” (Sousa Santos), l’altro colonizzato, l’altro del Sud del mondo.
Scrive ancora Pulcini che “il problema delle motivazioni che ci spingono alla domanda di giustizia o a pratiche di cura verso chi vive in luoghi remoti ovvero chi deve ancora nascere, si configura come una delle sfide, teoriche e politiche, più ardue del nostro tempo” 1.
Direi come la sfida – ardua ma necessaria.
Credo, però, che “domanda di giustizia” e “pratiche di cura” non siano forme separate, sia pur complementari, come ritiene Pulcini, ma che siano la stessa cosa. La pratica di cura è la risposta alla domanda di giustizia sociale: una società giusta è una società in cui ciascuno è messo nelle condizioni di curarsi degli altri, cioè di curarsi veramente di sé, una società in cui la cura dell’altro è alla base del tessuto sociale.
È come dire una società senza Stato: senza un centro di potere. Punto, questo, finora veramente cieco – ma ineludibile.
Siamo di fronte a domande senza risposta ma che esigono ogni giorno che passa una risposta. E ciascuno deve dare questa risposta: non si può rimandarla o demandarla.
Questo è il punto.
Un tentativo di risposta si può dare solo esponendosi, gettandosi, in una situazione che riteniamo politicamente esemplare.
Insieme a un piccolo gruppo, io cerco di darla andando in piazza tutti i giorni ad accogliere i profughi, a dar loro una mano e una spinta nel durissimo cammino, dagli esiti anche mortali.
Pulcini ricorda, inoltre, una fondamentale considerazione di Bernhardt Waldenfelds che scrive di “una forma radicale di sostituzione, la quale presuppone il fatto che ogni individuo si lasci interpellare oltre la sua morte da un futuro estraneo”2.
Credo che questa “interpellazione” sia veramente costitutiva della condizione umana e che la sua rimozione sia alla base della permanente crisi della Cultura occidentale, che ha innescato un meccanismo automatico di violenza mortale.
Oggi, l’irruzione nella nostra vita di chi arriva ogni giorno nella piazza del Mondo di Trieste consegna a ciascuno di noi il proprio “sé” nella sua realtà storica e, collettivamente, ci consegna il nostro ‘noi’ occidentale.
L’incontro con loro ci rivela chi siamo: il nostro passato di ‘occidentali’, figli di una storia di violenza e oppressione, di consumo sfrenato dei beni della terra e il nostro incerto futuro – certo soltanto di immense migrazioni.
L’impegno quotidiano con i profughi della Rotta balcanica offre, quindi, questa possibilità di fare esperienza, storicamente concreta con corpi feriti e umiliati ma non domi, di fare cioè politica, di diventare ed essere corpi politici: agenti per cambiare una situazione inaccettabile.
Ciò significa anche cambiare noi stessi.
Si tratta dell’impegno con “corpi di dolore”. Corpi con la loro storia singolare, portatori, insieme, di un messaggio universale: il dolore inciso nei loro piedi gonfi, nelle membra ferite, anche dalle violenze poliziesche, nella fame e nelle vesti stracciate: è il dolore della ‘catastrofe’ geostorica in atto, di cui sono gli annunciatori.
È una catastrofe nota, ma che, nella diffusa indifferenza, è narrata secondo la paradossale dinamica costituiva del sistema di informazione nei regimi “democratici”: informare per nascondere.
L’uso dell’informazione è oggi la forma più efficace di nascondimento. A differenza delle “dittature”, come il fascismo originario, che vietava con la censura la diffusione delle notizie: il fascismo storico aveva ancora paura della possibilità di fare esperienza. Oggi, se ne abbiamo voglia e capacità, l’informazione è più facilmente reperibile. Nella nostra epoca che si regge sui media, è anche più difficile nascondere perché la dinamica commerciale, fino a un certo punto, tende a prevalere sull’interesse statale a tenere nascosto.
Il punto, però, è un altro. È il fatto che ogni informazione, quindi, anche la più grave – come la strage di profughi provenienti dall’Africa nel Mediterraneo -, viene appiattita nel grande costante flusso informativo in cui tutto è posto sullo stesso piano: una strage come una partita di calcio o un evento mondano, producendo astrazione – un effetto che chiamerei di “irrealtà”.
Che l’informazione sia diventata una sorta di macchina della distrazione è dimostrato anche dal fatto che quando una informazione riesce a bucare l’indifferenza, rivelando le dinamiche nascoste del potere, viene considerata un delitto di leso potere: il delitto più grave.
Esemplare è il caso di Julian Assange, in cui si vuol giungere di fatto a una condanna a morte. Anche in questo caso, però, malgrado petizioni e indignazione da parte di una minoranza, un governo come quello britannico può permettersi di uccidere lentamente in prigione questo giornalista coraggioso, che era riuscito a render pubblici documenti a prova delle attività criminali del governo degli Stati Uniti.
Il governo britannico, peraltro, può anche permettersi di chiudere profughi in un vistoso lager sul mare.
Complessivamente agisce, dunque, la produzione dell’impossibilità di fare esperienza, stigma fondamentale del nostro modo di vivere. È la conseguenza della produzione economico-statale di “individui”.
Fare esperienza vuol dire instaurare il rapporto fra l’unicità di ciascun essere umano, la collettività entro cui questa unicità si manifesta e l’insieme della vita, che agisce fin nelle fibre dei nostri corpi: la comune umanità presente, passata e futura, ma anche il rapporto con gli altri esseri viventi…
La vita storica è data dal rapporto interattivo fra singoli unici, ciascuno dei quali riceve sé stesso dagli altri: rapporto temporale fra i singoli nella misura in cui ciascuna singolarità è complementare di ogni altra passata e presente, consegnandosi inoltre alle future, a coloro che nasceranno.
Il rapporto quotidiano con i profughi è l’apprendistato di un modo di fare esperienza che parte dall’incontro con un corpo sofferente e offeso, espressione adeguata dell’intensità e della vastità della condizione storica in cui siamo.
Ogni profugo è una storia singolare, immersa in una storia collettiva, nella nostra storia di figli dei colonizzatori.
Ci prospetta un futuro che l’immaginazione esperienziale può ben definire apocalittico.
Oggi deve essere assolutamente chiaro che per fare politica, senza naufragare nella nebbia di una disperata impotenza, bisogna cominciare da un punto concreto d’esperienza. L’esperienza, se veramente tale, è insieme concreta – si deve toccare con mano come il corpo – e collettiva, ma collettiva nel senso che riguarda tutti coloro che vivono sulla terra: non volendo usare la parola “universale”, mi viene da dire “terrestre”…
Solo se è concreta, corporea, è terrestre.
Nel nostro caso una piazza, in una città sul confine balcanico, affollata di corpi di profughi che ci parla, ci grida, dello stato del Mondo.
La ricerca della polis umana comincia sempre da un luogo. Ma un luogo, un incontro fra corpi, rimanda sempre ad altri luoghi, deve diramarsi in rete, rampollando dal basso come una sorgente, raggiungere altri luoghi, altre situazioni: i profughi che noi incontriamo vogliono andare ‘altrove’. Un altrove che dobbiamo costruire, ma che è inciso come richiesta nel loro corpo e, diversamente, anche nel nostro.
Manifestano un diritto, che chiamerei il diritto del vivente, includendovi anche le altre forme di vita, non riconosciuto e non riconoscibile dal potere dello Stato, di ogni Stato, in quanto articolazione storica del potere, che nella modernità si fonda nel capitalismo. Il diritto di andare dove ciascuno ritiene di poter vivere meglio o meno peggio, dove sperano, immaginano di poter ‘essere rispettati’ – diritto che, nel mio libretto, ho chiamato il Diritto di Antigone. Un diritto radicalmente sovversivo perché affonda nel contrasto fra le radici dei sistemi di potere e le radici della comunità dei singoli.
“Diritto”, però, è una parola che sarebbe meglio non usare più, essendo storicamente, come mostra l’etimologia, legata al potere, allo Stato. Bisogna rompere con la retorica dei diritti umani, copertura di ogni nefandezza.
L’etimologia di “diritto” ne indica l’originario legame con il potere, se deriva dal latino dirigere, tracciare un linea retta, quindi dare un direzione, “dirigere” nel significato corrente. Il titolare di diritti è colui che è diretto.
A questo proposito mi balza in mente un ricordo.
Quando andavamo in Bosnia, prima che la Croazia fosse del tutto integrata nell’Unione europea e quindi bisognava presentare un documento al confine sloveno- croato, si formavano in estate lunghissime file di automobili turistiche lungo il rettilineo d’asfalto: grosse autovetture, camper, soprattutto di turisti del Nordeuropa, persone ben pasciute, allegre fin troppo, che affollavano i posti di ristoro per raggiungere le coste e le isole della Croazia, che ha nel turismo la sua principale fonte di reddito.
Noi sapevamo che, non molto distanti, c’erano altre file o gruppi di persone che percorrevano invece cammini tortuosi: le silenziose file dei profughi.
Mi sorgeva spontaneamente allora l’immagine del contrasto fra l’itinerario dritto dei cittadini legali e quello storto dei profughi: il contrasto fra il diritto e lo storto. I profughi, fuori dal diritto, dall’astrazione obbligatoria della linea retta, portatori di itinerari imprevedibili, non dritti ma storti, tortuosi.
Come è la vita.
I migranti profughi, con i loro corpi offesi, ci pongono davanti all’esigenza, divenuta oggi necessità, di qualcosa che non c’è, ma che ci può e ci deve essere, se vogliamo vivere e non solo, forse, sopravvivere.
Qualcosa che ci può essere perché è radicata nella condizione umana e nella condizione della vita. È radicata, infatti, nella riproduzione e la vita è riproduzione di se stessa, cui la produzione dei mezzi necessari per vivere è – deve essere – subordinata. Oggi, la diffusione della consapevolezza di tale subordinazione è l’unico modo per salvarci dalla catastrofe.
Possiamo chiamare una società consapevole società della cura.
Questo significa fare politica nel tempo del “totalitarismo morbido” (Günther Anders), moltopiù pericoloso di quello duro,e della catastrofe terrestre. Il totalitarismo morbido, comunque, se lo riterrà opportuno, sarà sempre pronto a tirar fuori i mostri della peggiore violenza.
In Italia, oggi, funziona meglio il concetto di “fascismo sociale” (Sousa Santos).
Dall’esigenza esistenziale di ‘fare politica’, anzi dall’esigenza vitale – perché non deve riguardare solo gli umani; dall’esigenza di vivere, dunque, e non solo di sopravvivere, piantando, giorno dopo giorno, semi per una autentica polis e non solo frammenti di un immenso supermercato, nasce anche l’esigenza di scrivere: meditare camminando e comunicando, lasciando una traccia del proprio percorso, non individuale ma singolare.
La scrittura è uno strumento antropologico fondamentale con cui cerchiamo di gestire il rapporto con il tempo: “La scrittura aveva dato all’ispirazione poetica e al pensiero astratto un nuovo contratto con il tempo”3, e quindi con la morte e con la nostra angoscia, come forma possibile della sua accoglienza, lasciandosi interpellare, come dice Waldenfelds, “oltre la sua morte da un futuro estraneo”.
La qualità temporale di ciò che chiamiamo epoca o periodo storico dipende dalla capacità di percepire, elaborare e affrontare il tempo, che contiene il nascere e il morire, cioè il passare, l’andare verso una meta, che, per ogni singolo, è posteriore alla sua presenza: è la restituzione della dimensione collettiva, dell’accoglienza del nostro nascere – restituzione che, inevitabilmente, risente del modo in cui siamo stati accolti.
La narrazione – e, nella forma per noi ‘occidentali’ più forte, la scrittura – è il modo in cui affrontiamo il tempo e insieme ne ac-cogliamo l’inafferrabilità: miti, religioni, in seguito narrazioni storiche propriamente dette.
Le religioni del libro sono l’esempio più evidente e più forte di affrontare il ‘mistero del tempo’, della vita, nello sforzo inane di negarlo, illuminandolo, con grandi narrazioni intorno a cui si costruiscono intere culture.
Nella cultura greca possiamo leggerne un processo lineare: dalle narrazione mitologiche sull’origine degli esseri umani ai grandi poemi, L’Iliade, l’Odissea, alla tragedia, alle storie di Erodoto e Tucidide.
‘Istoréo’ in greco vuol dire: investigo, esploro, osservo, indago, ricerco; ‘istoría’, quindi: indagine, investigazione e poi relazione orale o scritta, narrazione.
‘Narrare’ indica il porre una connessione temporale (e spaziale), una dicibilità del tempo, una direzione, un senso, in cui ciò che nominiamo “presente” è connesso a un “passato” e in qualche misura può immaginare, prevedere ciò che sarà, il “futuro”. È la costruzione fondamentale della “memoria culturale”.
Narrare implica il tentativo, sempre destinato ad avvolgersi nell’immaginario collettivo più sfuggente, di risalire alle origini, di far tacere o addormentare l’angoscia del non sapere chi siamo, donde veniamo e, quindi, dove andiamo.
Narrare è costruire un rapporto con il tempo nei termini della costruzione di una genealogia: un rapporto con il nostro essere generati, la ricerca impossibile di un’origine.
Le grandi religioni, soprattutto quelle del libro, ci indicano un’origine assoluta, un fondamento assoluto, un padre assoluto, sciolto cioè da ogni condizionamento ma fonte di tutti i condizionamenti, che dovrebbe calmare l’angoscia del non sapere donde veniamo e dove andiamo, trasformandola in speranza.
La narrazione, il racconto, da quella mitica alla storica, è il modo d’esistere dell’essere umano per ordinare il tempo e lo spazio, per affrontare l’ignoto della vita.
Oltre alle varie forme di narrazione, c’era il rito, dissolto dalla modernità occidentale, che rappresenta collettivamente nella disposizione spaziale e ritmica dei corpi il raccogliersi, il rifondarsi, della comunità di fronte al mistero del passare, del tempo. Il rito è una sintesi di tempo e di spazio che rappresenta il mistero della vita in quanto tale, in quanto condizione essenziale del corpo che vi è immerso. Il rito mette in atto la dimensione collettiva del corpo: qui stanno la sua profondità e la sua importanza.
Il bambino si affida all’adulto per una sorta di rito che gli consenta di vincere l’angoscia tramite il gioco che è appunto una forma elementare e primaria di rito che gli permette di fare esperienza, di articolare, comunicare in qualche modo le emozioni profonde. Rito e narrazione si completano, perché il rito comunica l’inenarrabile.
Se c’è un “malinteso” con l’adulto nasce il trauma infantile della perdita di fiducia: l’identificazione con l’adulto scompare e nasce una fuga verso l’irrappresentabile, “fuori dal tempo”, verso la dissoluzione onirica: “Il carattere insopportabile di una situazione conduce a uno stato psichico simile al sonno dove ogni eventualità può essere trasfigurata come nel sogno”4.
Anche per l’adulto “un dolore molto grande è un dolore senza rappresentazione nel quale il soggetto è fuori dal tempo cronologico, dal tempo della storia”5.
Freud aveva parlato di una ”esigenza di eternità”6 come effetto dell’angoscia per la morte, quindi di un inconscio desiderio d’immortalità da parte degli esseri umani. Diversi psicanalisti ritengono che la schizofrenia sia un’estrema difesa di fronte “al fatto che la vita è mortale”7. In tal senso, possiamo ritenere la civiltà occidentale, il capitalismo, una diffusa e potentissima forma storica di schizofrenia sociale.
Freud e poi Winnicott avevano osservato in alcuni giochi e abitudini infantili (il gioco del rocchetto, gli oggetti transizionali) le forme simboliche per rendere sopportabile fino a un certo tempo l’assenza della madre, del caregiver’, cioè il rischio della perdita dell’interlocutore senza di cui il ‘sé’ svanisce.
La narrazione storica, nelle sue varie forme, ha preso nella modernità il posto del rito. Ma la narrazione storica è gestita soprattutto dai sistemi di potere e dallo Stato, che cercano di eliminare possibili contronarrazioni. Una caratteristica degli ultimi due secoli in Occidente è stata, appunto, il conflitto fra la narrazione capitalistica e la narrazione o le narrazioni che vi si opponevano, come quelle di matrice marxista.
Oggi, nell’epoca dell’elettronica, la narrazione è caduta in una sorta di fibrillazione, di autodissoluzione, è diventata una sorta di chiacchiera, come notava già Heidegger, dietro cui però a tirare le fila agisce la potenza dell’economia di mercato e di finanza.
Noi oggi siamo andati ben oltre quello che aveva attirato l’attenzione di Walter Benjamin: il fatto che i massacri della Prima guerra mondiale avevano alterato la capacità simbolica, narrativa, della gente provata da anni di quotidiana morte di massa, per cui la morte era diventata un massacro privo di senso. La singolarità era stata inghiottita dalla serialità delle masse militari in uniforme e dal trauma sociale diffuso.
Oggi, scivoliamo su di un piano inclinato verso una possibile distruzione della vita.
La follia, geograficamente casalinga, della guerra in Ucraina, come trent’anni fa l’ancora più vicina guerra nei Balcani che dissolse la Jugoslavia socialista, riproduce a livello di massa la perdita della capacità di fare esperienza, oggi divenuta pervasiva attraverso la smisurata diffusione dei media elettronici. Questa fondamentale crisi della capacità di fare esperienza agisce in forme molto più diffuse e pervasive che ai tempi della Prima guerra mondiale: sia in ciò che appare come una sorta di follia dei gruppi dirigenti, in cui si agita l’impulso distruttivo dell’economia e del potere; che a livello della cosiddetta opinione pubblica, gestita largamente dai media.
Le migrazioni verso l’Europa da quei territori che noi chiamiamo Medioriente e Oriente, dall’Africa, dal Sudamerica verso gli Stati del Nordamerica, sono un avvertimento epocale alla necessità di fare esperienza.
A proposito dell’Africa, ad esempio, Achille Mbembe scrive:
“Il continente è ancora un luogo, ma per molti si tratta spesso di un luogo di passaggio o di transito. È un luogo che si sta decidendo intorno a un modello nomade, di transito, errante o di asili. La sedentarietà tende a diventare l’eccezione… Gli Stati, là dove ne esistono, sono nodi più o meno giustapposti che si cerca di scavalcare, sono luoghi di scambio e spazi di passaggio”8.
A questa riflessione corrisponde perfettamente, al livello dell’impegno quotidiano di strada, il disperato quanto inutile appello alla stampa del missionario comboniano Zanotelli, che ha vissuto anni in Africa9.
La condizione di questo continente, luogo esemplare del colonialismo europeo può – deve – essere un segnale per tutti.
Noi, per quel minimo che possiamo, cerchiamo di raccoglierlo, con fatica, ma anche con momenti di gioia, nella piazza del Mondo di Trieste. Cerchiamo di diffonderlo, creando solidarietà e reti con e per i profughi della Rotta balcanica o, piuttosto, come è corretto dire, della rotta dell’Unione Europea, violenta e indifferente, avvolta e sempre di più stordita nella nube oppiacea dell’Economia di mercato.
A questo punto, voglio tentare un breve spunto riflessivo intorno a concetti chiave, come “probabilità”, “possibilità”, “necessità”, con cui pensiamo l’esistenza umana nel contesto di quel più vasto insieme dinamico che chiamiamo “vita”; e quindi con cui pensiamo ciò che chiamiamo, con una parola forse logora, ma per ora insostituibile, “politica”.
Sono concetti con cui tentiamo l’impensabile: il tempo. Pensare, almeno per noi occidentali, è rappresentare, cioè usare metafore spaziali. Non possiamo rappresentare il tempo, ma lo sentiamo, lo viviamo nella tensione dei nostri corpi che sono una sintesi di tempo e di spazio, di visibilità che insegue l’invisibile inafferrabile tempo, dentro cui siamo come pesci nel mare.
Ci sono diverse sintesi corporee nelle diverse culture. Nella nostra occidentale, predomina la vista, che comporta il distacco da ciò che è visto: la rappresentazione10. Penso ad esempio alla concezione lacaniana dello stadio dello specchio nella formazione del bambino che introduce una funzione alienante nella formazione dell’io. Il nostro vero specchio è lo sguardo dell’altro, di cui non potremmo mai sapere come effettivamente ci vede, per cui siamo sempre protesi al di là di noi stessi verso una sintesi che non sarà mai conclusa.
In altre culture l’udito, l’olfatto, il tatto possono predominare o comunque avere un’importanza molto maggiore che per noi: questo comporta un’altra percezione del corpo e del rapporto intrinseco fra i corpi – quel che chiamiamo vita.
Il dominio della produzione sulla riproduzione della vita, di una produzione che sembra credersi ciecamente liberata dalla riproduzione, perché sganciata dai bisogni vitali ma orientata ad un accumulo illimitato, sta uccidendo la vita.
Questo è, ormai, del tutto evidente. Agisce, però, una dialettica perversa fra tale evidenza e l’indifferenza nei suoi confronti, come di chi, in vista di un pericolo inevitabile, non ha altra risorsa che girare lo sguardo da un’altra parte.
La parola “riproduzione” può dare una risonanza fredda, biologistica od economicista, ma è l’atto fondamentale della vita. La vita è potentia, energia, capacità produttiva e riproduttiva di forme.
Nascita, crescita (che è come una continua ri-nascita) e restituzione, ovvero lascito della propria traccia, quando la nostra forma di vita ha raggiunto il suo limite intrinseco.
Diventa necessario far prevalere il dato fondamentale per cui la vita è, prima di tutto, riproduzione di se stessa, delle sue molteplici forme e, quindi, con-divisione e con-vivenza, com-unità: cura, perché il con-essere significa cura reciproca.
Più di ogni altra, la vita umana: la forma di vita più complessa.
Non c’è dubbio che nella vita ci siano anche violenza e lotta per la sopravvivenza, ma entro un limite, un equilibrio, posto, appunto, dalla condivisione e dalla convivenza dell’insieme.
La vita è, nel suo insieme, con. Non è contro. C’è anche il “contro”, ma è dentro il “con”.
Il tutto comprende anche la violenza, ma dentro un equilibrio – ben espresso da quei cacciatori amazzonici che chiedono scusa alla preda prima di ucciderla.
Questa comprensione, questo contenimento, sono stati rotti negli ultimi secoli da quella peculiare dinamica culturale nata in Europa e imposta ovunque. Si è rotto ogni equilibrio di condivisione e convivenza. Ha prevalso il “contro” sul “con”.
È divenuto necessario, allora, ciò che voglio ancora chiamare comunismo: un comunismo inteso non solo nel senso classico marxista, ormai limitato, troppo ‘occidentale’, di proprietà comune dei mezzi di produzione e abolizione della proprietà privata, ma un comunismo che nasce nella cura necessaria per la vita; che ha le sue radici nella riproduzione, che deve prevalere sulla produzione. Un comunismo dei corpi.
“Far politica”, in senso pieno e forte, oggi significa dunque sviluppare questo comunismo – il comunismo della cura – intrinseco e necessario alla vita, non solo agli esseri umani. Oggi, però, è ristretto in limiti ormai sempre più insufficienti a promuovere la vita.
È necessario tentare di svilupparlo in un comunismo diffuso, di contro alle forze ostili che stanno minando la vita stessa.
Di conseguenza, ciò significa anche costruire un nuovo rapporto con il tempo: orientarsi nel tempo partendo dall’attualità della cura, che già è nella vita. Da questo dato ontologico e storico dobbiamo partire, rendendo la cura sempre più attiva nel presente. La prospettiva è la costruzione di cammini politici che partano dalla cura, ma che non possono non implicare anche resistenza e lotta.
Il comunismo è necessario per la vita. Allora è anche attuale. Non è un’utopia. Esiste già come atto fondativo della vita. Ma è attivo solo ai minimi termini. Ed è minacciato con la vita intera.
Dire che è necessario e attuale non significa dire che sia probabile. Anzi, possiamo amaramente dire che è improbabile. Dire che è improbabile non vuol dire che è impossibile.
Significa dire che è ontologicamente possibile, che non è un’utopia astratta, perché radicato, letteralmente, nella struttura stessa della vita.
È possibile, improbabile e necessario.
Quello che oggi avviene, dunque, senza nessun freno, è il peggioramento continuo delle condizioni della vita: una guerra capillare, quotidiana contro l’equilibrio che rende possibile la vita, umana e non umana, contro il comunismo della cura reciproca, insito, appunto, nella vita.
In tal modo possibile è anche la stessa distruzione della vita. Nell’oggi in cui viviamo, sembra ciò che è più probabile.
La distruzione della vita è, dunque, possibile e probabile.
Queste considerazioni non sono orientate ad una visione vitalistica, né ad una metafisica della vita. Ogni pensiero che elabori una visione definitiva è una metafisica, cioè un pensiero difensivo, in fondo religioso. Anche il materialismo è una metafisica.
Noi non sappiamo che cosa sia in sé “la vita”. Gli esseri umani possono narrarla in modi diversi: dalle diverse narrazioni che chiamiamo religione a quelle della scienza occidentale, a quelle di culture diverse che l’Occidente ha sempre considerato inferiori. La tradizione filosofica, quindi occidentale, preferisce una terminologia più astratta, cioè più generale, ad esempio, la parola ‘essere’, come nel testo heideggeriano Essere e tempo.
Io uso provvisoriamente – non volentieri, in mancanza di meglio -, la parola “vita”, perché oggi assistiamo alla continua messa in crisi dell’equilibrio terrestre, entro cui si è formato e sviluppato l’essere umano insieme a una moltitudine di altri viventi che lo con-costituiscono. Ricostituire questo equilibrio – ciò che significa costruirne un altro -, vuol dire mettere davanti al nostro cammino l’utopia pratica di una comunità terrestre; a partire, però – questo è fondamentale –, da singole comunità, da comunità locali diffuse, in grado di dialogare fra loro, non da una proposta universale, di matrice occidentale, che sarebbe un’imposizione e che ricadrebbe necessariamente negli errori e nelle tragedie del passato.
Il fallimento drammatico della visione guevariana dei ‘fuochi’ rivoluzionari ne è stato l’annuncio. Ma tutti i tentativi rivoluzionari sono falliti: bisogna prenderne atto. E non credo che siano falliti perché insufficientemente rivoluzionari o insufficientemente diffusi, ma perché incapaci di praticare e, soprattutto, far durare nel tempo, una dimensione comunitaria.
Siamo come pesci nel profondo dell’oceano: non possiamo pensare o immaginare ciò dentro cui siamo completamente immersi e che ci costituisce. Non possiamo comprendere ciò che ci comprende11.
Possiamo rendercelo intelligibile, nel senso che ci possiamo orientare dentro come il pesce si orienta nel mare.
Le nostre intelligenze servono per intelligere, intus legere, per orientarci dentro la vita, che rimane incomprensibile nel suo insieme. Dobbiamo instaurare una dialettica fra comprendere, porre cioè davanti a noi e intelligere. Fondamentale è un atteggiamento di accoglienza e rispetto per ciò che non comprendiamo. Non dobbiamo chiuderci in una ideologia, in un sistema di rappresentazioni da difendere, ma dobbiamo essere sempre capaci di metterci in discussione, di farci “distruggere”.
Questo rischio è inevitabile per agire pensando e pensare agendo. Direi che è proprio il punto di fusione fra pensare e agire.
Non possiamo rappresentarci, ma nemmeno immaginare ciò che ci fonda. Il costituito non può rappresentarsi, immaginare il costituente.
La vita rimane nel suo insieme un mistero – da accettare e da accogliere come tale nel significato più intenso e, direi, solenne della parola. Mi torna in mente una considerazione dello spinoziano Einstein per cui l’esperienza possibile più bella è il senso del mistero.
Accettare e accogliere il mistero in cui siamo immersi, senza occultarlo con rappresentazioni immaginarie che diventano gabbie ideologiche, vuol dire trasformarlo in un comportamento etico-politico di apertura. Non farcene angosciare, cadendo nell’impotenza. Non chiudersi in una ideologia da difendere a tutti i costi. Non farsi dominare, insomma, dal bisogno di rassicurazioni, di certezze religiose, filosofiche e politiche.
Accogliere una certa misura d’incomprensibile.
Una certezza, però, l’abbiamo – fondamentale: la vita, per come si presenta a noi umani, è vulnerabile.
Nasce quindi un compito che appare immane: riparare la vita che stiamo distruggendo.
Prenderci cura della vita: degli altri, umani e no.
Questa consapevolezza deve diventare la guida fondamentale di ogni attività e, quindi, di quell’attività fondamentale che chiamiamo politica.
Dobbiamo considerare la vita come una “polis”. Il compito di quel tipo fondamentale d’esistenza che chiamiamo politica è ristabilire l’equilibrio dell’insieme dinamico che chiamiamo ‘vita’, fondare quindi un nuovo equilibrio, fondato sulla cura comune.
Sappiamo che quella forma di vita umana, impostasi negli ultimi secoli a tutta la terra, chiamata capitalismo, è, con ogni evidenza, suicida, perché capace di alterare le condizioni di equilibrio che costituiscono la vita – almeno la vita come la conosciamo -, in cui sono sorti e si sono sviluppati i viventi umani, insieme a molti altri della cui attività viviamo e con cui, quindi, dovremmo convivere, ma che invece cerchiamo di dominare.
Il dato innegabile per cui l’equilibrio terrestre è alterato deve aprire un cammino per trovare un nuovo equilibrio, che sarà sempre un equilibrio dinamico, cioè, ancora, un cammino.
L’essere umano è colui che cammina, ma deve camminare con l’insieme della vita e non contro, come ha fatto, soprattutto negli ultimi secoli.
E così mi ricongiungo a coloro che sono in cammino: ai profughi.
Credo che il loro cammino, il loro game, il loro mettersi in gioco, ci dica qualcosa di importante sul cammino che dobbiamo compiere tutti.
Accettare l’attuale stato delle cose, arrendersi, chiudendosi in una quotidianità divenuta mera declinante sopravvivenza, sarebbe quindi suicida – e omicida nei confronti di chi è ancor giovane e di chi nascerà.
La presenza quotidiana di pochissimi attivisti per accogliere i profughi nella piazza del Mondo a Trieste – divenuta peraltro ormai un luogo d’incontro con molti che vengono a trovare i profughi e noi – vorrebbe avere, prima di tutto, questo significato, che trascende verso un futuro inimmaginabile: non ci arrendiamo, pur consapevoli limiti del nostro impegno che, per di più, rischia ogni giorno di scadere in quella forma di complicità che è l’umanitarismo.
I limiti, tuttavia, invece di avvilirci e fermarci, devono essere uno stimolo per andare avanti.
10 Con mezzi diversi, anche il pensiero matematico-fisico moderno tenta di pensare il tempo.
11 Le grandi crisi culturali legate ai nomi del logico Gödel e del fisico Heisenberg han posto fine, per quel che ne capisco, all’idea della conoscibilità del tutto.
maza dice
Appena finito di leggere…
davvero tanta roba!
Gian Andrea Franchi, un
grande grande grande grazie!