Affamare, dilaniare, distruggere tutto ciò che sostiene la vita. Siamo di fronte all’ultimo atto del progetto sionista? Malgrado tutto sono tante le persone che a Gaza con straordinaria forza d’animo soccorrono, proteggono, consolano, salvano umani e animali. Intanto ovunque nel mondo non smettono di svolgersi manifestazioni per chiedere il cessate il fuoco e la fine della occupazione. Dare risonanza a queste voci, denunciare le sofferenze inflitte, conservare la memoria, contribuire a spezzare la catena delle complicità denunciando gli stati che inviano armi, che accettano di sospendere gli aiuti, chiarire la natura del colonialismo sionista, contribuire a creare un movimento di opinione, sono le uniche vie per fermare l’orrore della violenza coloniale e genocida che si è fusa con la violenza delle armi pesanti all’avanguardia
“Israele ha bisogno di creare una crisi umanitaria a Gaza […]. Gaza diventerà un luogo in cui nessun essere umano può esistere…”
(Giora Eiland, ex generale del Cons. nazion. sicurezza israeliano, 8/10/23)
“Coloro che ritorneranno qui, se mai ritorneranno, troveranno terra bruciata. Niente case, niente agricoltura, niente di niente…”
(Yogev Bar-Shesht, colonnello resp. amministrazione civile a Gaza, 4/11/23)
A partire dal 7 ottobre 2023 dichiarazioni simili a quelle di Eiland e Bar-Shesht sono state reiteratamente e pubblicamente espresse da autorità politiche, militari e di governo. Frasi di incitamento a radere al suolo Gaza sono apparse con insistenza sui social.
Mentre la Corte penale internazionale, ritenendo plausibile l’esistenza di un genocidio a Gaza, ha adottato alcune misure cautelari richieste dal Sud Africa in attesa della verifica delle violazioni commesse, non si ferma l’invio di armi ad Israele e le vittime non cessano di aumentare (ad oggi oltre 32.000 oltre alle migliaia, forse decine di migliaia, ancora sepolte sotto le macerie), dilaniate dalle bombe, stroncate dalla fame, dalla sete, dalle malattie che colpiscono la popolazione civile a cui si impedisce di ricevere gli aiuti, bloccando i camion, sparando sulla folla che si accalca per ricevere un po’ di cibo. Tutto ciò che consente la vita, e quindi il ritorno – le case, gli ospedali, i luoghi di culto, i negozi, i panifici, le infrastrutture, le coltivazioni, le imbarcazioni da pesca – sono state distrutte e l’acqua è stata contaminata. I bambini e le donne pagano il prezzo più alto e rappresentano il 70 per cento di coloro che hanno perso la vita (9.000 donne e 12.000 bambini). Alla metà di febbraio il 90 per cento dei bambini al di sotto dei due anni e il 95 per cento delle donne gravide e delle nutrici erano in una condizione di grave denutrizione.
L’arma della fame
I bambini e le bambine, coloro che rappresentano il futuro, sono stati i bersagli privilegiati di una violenza volta a spezzare la continuità della popolazione. Lo rivelarono già nel 2008-2009, nel corso della operazione Cast Lead, i disegni che i soldati israeliani scelsero per le loro magliette e che ponevano bambini e donne gravide al centro del mirino. Oggi la volontà di annientamento si esprime anche con l’oltraggio ai segni della presenza dei bambini – uccisi, dispersi o profughi – che ancora rimangono tra le rovine delle case abbandonate. I video diffusi attraverso i social media dai soldati israeliani e che li ritraggono mentre distruggono i giocattoli, pedalano in mezzo alle macerie in segno di trionfo su biciclettine infantili, sono drammaticamente eloquenti. Quegli stessi video riprendono i soldati mentre appiccano il fuoco a casse di cibo e travolgono filari di ulivi con i carri armati.
Ha detto Michael Fakhri, giurista canadese-libanese, esperto in diritti umani e relatore speciale ONU a proposito dell’inedia che ha colpito le giovani generazioni di Gaza:
La velocità con la quale si è manifestata la denutrizione nei bambini piccoli è stupefacente. I bombardamenti e le uccisioni dirette sono brutali, ma l’inedia, il deperimento e l’arresto della crescita dei bambini sono forme di tortura e sono vili. Tutto ciò avrà un impatto a lungo termine sulla popolazione dal punto di vista fisico, cognitivo e morale […]. Tutto indica che questo è stato intenzionale.
Israele, continua Fakhri, non si limita a colpire i civili, ma “cerca di lanciare una maledizione sul futuro del popolo palestinese” facendo del male ai suoi bambini.
Si spiega in questo modo anche l’accanimento sulle donne e tra loro le più vulnerabili, le donne in gravidanza e le puerpere che sono costrette a partorire senza assistenza e senza acqua e dopo poco molte di loro vedono morire i loro bambini. “L’aggressione ai diritti riproduttivi è parte essenziale della sproporzione con cui la guerra ha colpito le donne palestinesi” si legge in un post della Carnegie Endowment for International Peace a firma di Shahad Safi. E questa aggressione è stata “senza sosta e particolarmente allarmante” come hanno dimostrato gli studi di Nadera Shalhoub-Kevorkian.
Le ragioni della rapidità con cui si è sviluppata la crisi alimentare, e che ha colpito anche gli studiosi della morte di massa per fame come Alex de Waal, direttore della World Peace Foundation alla Tufts University e autore dell’opera Mass Starvation: The History and Future of Famine, risalgono alla struttura della occupazione e a sedici anni di blocco e di assedio. Quando è scoppiata la guerra l’80 per cento della popolazione di Gaza dipendeva dall’aiuto umanitario e la “fine improvvisa di quell’aiuto sulla base di presunte accuse contro un piccolo numero di persone” ha gettato la popolazione in una condizione disperata. I paesi che hanno sottratto questa fonte di sopravvivenza, ha aggiunto Fakhri, sono indubbiamente complici della morte per fame dei palestinesi. L’Italia è tra questi.
L’inedia di massa è aggravata dall’impossibilità di trarre sostentamento dalla pesca. Dal 7 ottobre quasi l’80 per cento del settore della pesca di Gaza è stato distrutto, una attività che anche prima del conflitto era stata limitata dal divieto imposto da Israele di praticare la pesca oltre sei-quindici miglia dalla costa. L’inquinamento dell’acqua ora ridurrà ulteriormente l’attività delle poche imbarcazioni rimaste. Al pari della pesca, le coltivazioni sono state prese di mira dai bombardamenti; le immagini satellitari raccolte da Human Rights Watch hanno rivelato che le forze di terra israeliane hanno “sistematicamente” raso al suolo frutteti, ulivi, campi e orti, creando una terra desolata di sabbia e detriti. Secondo un rapporto del gennaio 2024 a cura dell’Operazione satellitare delle Nazioni Unite, almeno il 35% del suolo agricolo è stato devastato.
Anche la scarsità dell’acqua e la sua contaminazione con le acque reflue (130.000 metri cubi sversati in mare ogni giorno) hanno aggravato la condizione sanitaria della popolazione infantile. Dopo quattro mesi di guerra, almeno il 90 per cento dei bambini sotto i cinque anni ha contratto almeno una malattia infettiva.
Devi Sridhar, docente di salute pubblica all’Università di Edimburgo, ha calcolato che un quarto della popolazione di Gaza potrebbe perdere la vita a causa delle malattie nell’arco di un anno. Ma le epidemie sono le benvenute; lo ha auspicato Giora Eiland perché accelererebbero la vittoria di Israele.
Ciò a cui stiamo assistendo, ha osservato Saree Makdisi, in Tolerance Is a Wasteland: Palestine and the Culture of Denial (2022) non ha precedenti nella storia coloniale […] è forse la prima fusione della violenza coloniale e genocida della vecchia scuola con armi pesanti all’avanguardia; un amalgama contorto del XVII secolo e del XXI, confezionato e avvolto in un linguaggio che rimanda a tempi primitivi e a fragorose scene bibliche che prevedono il massacro di interi popoli: i Gebusei, gli Amelikiti, i Cananei e, naturalmente, i Filistei.
Un tale micidiale connubio non ha incontrato ostacoli sul suo cammino, né dalla politica, né dal diritto. Il diritto internazionale, infatti, non è stato invocato a difesa della popolazione palestinese con la stessa forza con cui è stata denunciata la violazione delle sue norme nel conflitto in Ucraina. Israele continua a godere di una impunità mai concessa a nessun altro stato che abbia commesso simili violazioni delle risoluzioni delle Nazioni unite, degli accordi sottoscritti e delle Convenzioni internazionali. In questo conflitto non c’è norma del diritto internazionale che non sia stata violata, con gravissime conseguenze per le persone e per l’ambiente.
Lo ha denunciato Craig Mokhiber, direttore dell’Ufficio di New York dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani nella sua lettera di dimissioni del 28 ottobre 2023:
Negli anni Ottanta avevamo il diritto internazionale dalla nostra parte. Avevamo i diritti umani dalla nostra parte. Avevamo i principi dalla nostra parte. La nostra autorità era radicata nella nostra integrità. Ma ora non più. Negli ultimi decenni parti importanti delle Nazioni Unite si sono arrese al potere degli Stati Uniti e alla paura della lobby di Israele, abbandonando questi principi e ritirandosi dal diritto internazionale stesso. Abbiamo perso molto in questo abbandono, non da ultimo la nostra credibilità globale.
Il costo ambientale della guerra
Nella guerra a Gaza, il cui l’obiettivo è l’annientamento di tutto ciò che consente la vita, la devastazione dell’ambiente ha assunto dimensioni di enorme portata. Si pensi, ricorda PAX for Peace nel suo ultimo rapporto, alle discariche non smaltite, alla decomposizione dei corpi sotto le macerie, ai milioni di tonnellate di detriti che emettono polveri e sostanze tossiche: amianto, diossine, pesticidi, materiali medici ed elettrici, batterie, cemento, solventi, sostanze chimiche, radioattive, farmaceutiche provenienti dalle varie industrie e che si sono diffuse nell’aria, sono penetrate nell’acqua e nel suolo (p. 14).
Armi proibite all’uranio impoverito e al fosforo bianco di fabbricazione statunitense causeranno i danni più gravi e duraturi sulla salute. Immediate saranno certamente le ripercussioni della guerra sul clima a livello locale e globale.
Già prima dell’attuale conflitto la regione di cui Gaza fa parte, a parere dell’IPCC, era in una condizione di grave vulnerabilità dal punto di vista climatico. L’organizzazione umanitaria Climate Refugees in un rapporto dell’11 gennaio 2024 ha previsto che le precipitazioni saranno ancora più irregolari rispetto agli anni precedenti e diminuiranno del 20 per cento entro il 2050. Nello stesso tempo si prevede che le temperature continueranno a salire, fino a 2,5 gradi entro il 2055, insieme all’aumento di periodi di siccità e di ondate di calore. “L’innalzamento del livello del mare comporterà il rischio di erosione costiera e di intrusione di acqua salata nelle falde acquifere di Gaza, già esaurite, contaminate ed estratte in eccesso, mentre l’inquinamento delle acque sotterranee e del suolo e i problemi di smaltimento dei rifiuti stanno già aggravando il degrado ambientale” a cui Israele e il pianeta stesso, non saranno certo immuni.
Un recente studio di Benjamin Neimark dell’Università Queen Mary di Londra, in collaborazione con i ricercatori dell’Università di Lancaster e del Climate and Community Project (CCP) apparso il 5 gennaio 2024, A Multitemporal Snapshot of Greenhouse Gas Emissions from the Israel-Gaza Conflict, ha tracciato un quadro delle emissioni causate dalla guerra (stime per difetto a causa dell’esonero delle organizzazioni militari di segnalare le emissioni delle loro attività e del segreto militare). Le bombe che hanno devastato Gaza nei primi due mesi di guerra, hanno rilasciato, secondo le valutazioni dei ricercatori, 281.000 tonnellate di CO2, pari alla combustione di almeno 150.000 tonnellate di carbone. Quasi la metà delle emissioni totali (133.000 tonnellate valutate al 4 dicembre) sono dovute agli aerei cargo statunitensi che hanno trasportato forniture militari in Israele. La nuova ricerca inoltre ha calcolato che il costo in termini di emissioni della ricostruzione, se mai ci sarà, dei 100.000 edifici danneggiati di Gaza, che genererà almeno 30 milioni di tonnellate di gas serra, una cifra pari alle emissioni annuali di CO2 della Nuova Zelanda e superiore a quella di altri 135 paesi. Valutazioni relative ai primi tre mesi hanno valutato in 45.000 le bombe sganciate su Gaza per un complesso di 65.000 tonnellate di esplosivo, una quantità superiore a quella delle bombe che hanno colpito Hiroshima.
La devastazione ambientale dell’occupazione
Benché secondo i media dei paesi europei e nordamericani Gaza pare non avere una storia prima del 7 ottobre 2023, “come se l’assedio possa confinare la striscia in uno spazio-tempo di assenza al di fuori della storia”, ciò che sta accadendo affonda le sue radici in una lunghissima storia di violenza in ogni aspetto della vita e di ciò che la sostiene nella logica dell’eliminazione.
Ne offre un quadro la recentissima opera di Shourideh Molavi, studiosa di architettura forense nella sua opera Environmental Warfare in Gaza: Colonial Violence and New Landscapes of Resistance (2024) che si sofferma in particolare sulla desertificazione del perimetro di Gaza. Il continuo intervento con i bulldozer e le massicce irrorazioni di pesticidi estremamente pericolosi per distruggere le coltivazioni e liberare il campo visivo a scopi di sorveglianza e aggressione, ha cambiato il paesaggio, favorito cambiamenti climatici, sottratto le risorse alla popolazione, avvelenato la terra, distrutto il legame della popolazione con il suo ambiente, creato desolazione. Il divieto di coltivare piante oltre il metro di altezza nelle zone lungo il perimetro o prodotti che potessero competere con quelli israeliani ha accelerato la sparizione di ulivi e degli agrumeti. Un tempo un fiorente distretto delle spezie e paradiso dei pescatori, ora Gaza è una terra desolata.
Solo molto recentemente l’interesse degli studi si è rivolto alla distruzione ambientale creata dall’occupazione. Benché benché non analizzino in modo particolare la striscia di Gaza, sono illuminati della violenza ecocida che si è abbattuta sul paesaggio palestinese nella volontà di mutarne il carattere fisico e la composizione demografica, come se i palestinesi non fossero mai esistiti.
Come ha scritto Lila Sharif, richiamandosi alla teoria femminista postcoloniale, “I colonizzatori sionisti ed europei hanno interpretato il paesaggio indigeno come manifestazioni del nativo abietto, da cancellare e sostituire”, un paesaggio primitivo femminilizzato e arretrato che richiede la modernità coloniale dei “bravi giardinieri” (Sharif 2016, p. 18). “Voi siete bravissimi giardinieri” affermò Obama nel marzo 2013 quando donò e lui stesso mise a dimora una magnolia nella residenza presidenziale di Shimon Peres.
Così, gli ulivi e gli agrumeti sono stati sradicati a milioni, la macchia mediterranea formatasi in migliaia di anni è stata sostituita da una monocultura di pini ed eucalipti – questi ultimi importati dall’Australia – essenze che hanno il pregio di crescere rapidamente e che, acidificando il suolo, impediscono alla flora autoctona di germinare, ma che, non essendo adatte al clima locale richiedono molta acqua e sono a rischio di incendio.
La messa a dimora nel corso degli anni di 240 milioni di alberi e finanziata da paesi di tutto il mondo, ha stravolto il paesaggio e l’ecologia naturale in nome della modernità. L’europeizzazione del territorio, parte integrante del colonialismo, è stata presentata come un impegno per rinverdire il pianeta salvandolo dal cambiamento climatico, in realtà è stato uno strumento di apartheid e di distruzione degli ecosistemi.
Il paesaggio inoltre è stato militarizzato; in Cisgiordania il 30 per cento del territorio è stato occupato da zone militari o da “riserve naturali” metà delle quali sono state istituite per uso militare o a beneficio dei coloni con grave impatto sulla natura selvatica. Le barriere si sono rivelate ovunque strumenti di oppressione per le comunità palestinesi e il loro sostentamento; hanno alterato il corso delle acque, rotto l’equilibrio ecologico, frammentato i boschi e le terre coltivate, ridotto i pascoli causando il loro eccessivo sfruttamento.
Nel tentativo di cancellare la memoria della Nakba, boschi e parchi ora sorgono dove una volta c’erano i villaggi; pinete ricoprono le rovine e il pino è diventato un’arma di annientamento, una metafora del dominio sul paesaggio e della terra usurpata per i coloni israeliani, per eliminare tutte le tracce dell’altro e con esse i suoi diritti così che nessun palestinese potesse dire: “questo è il mio villaggio, questo è il mio albero”. Atti apparentemente innocui o addirittura benefici, come piantare alberi, infatti, possono diventare atti di eco-occupazione. Nel processo di giudaizzazione l’ulivo è stato definito “il soldato nemico” (Irus Braverman, p. 2) ed è diventato il simbolo dell’identità e della resistenza palestinesi. “L’ulivo – ha scritto Lila Sharif – porta la storia della nostra identità nei suoi rami, il nostro attaccamento alla terra nelle sue radici e le nostre memorie nei suoi frutti” (p. 3).
Alla creazione di boschi di conifere e di eucalipti si è accompagnato l’inserimento di specie animali “bibliche” – gazzelle, daini, asini selvatici e grifoni – animali appartenenti alla “collettività giudaica”, mentre altre specie (Braverman, p. 4) – cani semi-selvatici, capre, cammelli, insieme ai loro proprietari palestinesi, sono stati sottoposti a restrizioni di movimento, messi in quarantena, allontanati, sterminati, considerati nemici di quello che si definisce lo “stato ecologico”. Anche le piante e gli animali, infatti, fanno parte della struttura coloniale, e il “colonialismo verde” è rivolto alla costruzione della nazione per il solo popolo ebraico, perpetua la violenza verso tutte le forme di vita, umana e non umana, e gli ecosistemi che sostengono entrambi, in un vortice di violenza omnicida con l’obiettivo di affermarsi come i “nuovi nativi”.
Ma le tracce della popolazione nativa restano; le rovine delle case demolite nel 1948 sono ancora là, fanno la loro apparizione come fantasmi che non si riescono a cancellare. Come i cactus, che in quella terra non potranno mai essere completamente sradicati e che caparbiamente spuntano dal terreno tra le conifere, così i palestinesi non hanno mai cessato di resistere allo sradicamento e affermare la loro appartenenza alla terra.
La guerra: ultimo atto del progetto sionista?
Il progetto sionista di negare, occultare, cancellare l’esistenza, la memoria e la storia di un popolo – si pensi alla distruzione degli archivi e delle e biblioteche –, un processo immaginato come coerente, naturale e completo, per tentare di avverarsi, richiede di innalzare sempre più il grado della violenza nell’impunità e nel silenzio della comunità internazionale.
“Israele non è forte, il suo potere viene da quegli stati che lo sostengono” ha recentemente detto Nadera Shalhoub-Kevorkian, la criminologa femminista palestinese, studiosa del genocidio, sospesa dall’insegnamento all’Università ebraica di Gerusalemme per le sue affermazioni sulla necessità di abolire il sionismo.
In una lunga intervista si è soffermata sulla violenza epistemica esercitata sulla popolazione palestinese in ogni ambito della vita, fondata sulla teologia della sicurezza e su una politica sacralizzata volta a giudaizzare tutta la Palestina attraverso l’annientamento e lo smembramento. Come il territorio palestinese è stato diviso, spezzato, smembrato, affinché non potesse più rinascere una entità territoriale unificata, così anche i corpi dei palestinesi sono oggi più che mai smembrati, e dispersi.
Alla base della volontà di annientamento è il rifiuto di accettare l’umanità dei popoli nativi. Questa guerra dimostra che non è abbastanza uccidere, torturare, sradicare, negare l’infanzia, la maternità, la paternità, spezzare il territorio, occorre fare a pezzi la materialità dei corpi, violarne l’integrità anche nella morte. Si pensi ai bombardamenti che hanno disperso i resti custoditi in sedici cimiteri, ai neonati lasciati decomporre nelle incubatrici, ai cadaveri sbranati dai cani per le strade; tutte le tracce della vita e dei corpi devono essere cancellate perché non possano diventare mai più delle individualità di una collettività. Ben ne era consapevole quella bambina di 7 anni che nello scorso febbraio, accarezzando il suo gatto lo pregava di non mangiare la sua famiglia se fosse morta.
Eppure, in questa tragedia, sono tante le persone che a Gaza con straordinaria forza d’animo soccorrono, proteggono, consolano, salvano umani e animali, feriti e traumatizzati, in un “disperato ottimismo che si fa lezione di umanità”.
Ovunque nel mondo si svolgono manifestazioni di solidarietà in cui masse di persone non smettono di chiedere ad alta voce il cessate il fuoco e la fine della occupazione: cittadini e cittadine palestinesi, difensori dei diritti umani, organizzazioni cristiane e musulmane, cittadini ebraici anti-sionisti, aderenti a “Jewish Voice for Peace” e a gruppi femministi.
Dare risonanza a queste voci, riconnettere ciò che è stato smembrato e disperso – con le analisi, la parola, l’attivismo – denunciare le sofferenze inflitte a tutte le donne, documentare i traumi, raccogliere le voci e le storie, conservare la memoria, contribuire a spezzare la catena delle complicità denunciando gli stati che inviano armi, che accettano di sospendere gli aiuti, chiarire la natura del colonialismo sionista, contribuire a creare un movimento di opinione, sono le uniche vie per fermare le atrocità.
[Questa pagina fa parte di Voci di pace, spazio web
di studi, documenti e testimonianze a cura di Bruna Bianchi]
José Catalán Deus dice
Brava, tradusco y metto en Facebook per tutte gli meir contatti…
Franca Chizzoli dice
Da diffondere
Fiorella Palomba dice
Cara Bruna, ho letto questo articolo più volte per due ragioni.
Prima di tutto per la documentazione e quindi la lettura dei riferimenti, poi perché, nonostante conosca questa tragedia (ho scritto una nota sulla guerra che deve ancora essere pubblicata) INORRIDISCO ogni volta per questo sterminio nazista.
Mi consola la giusta rivolta delle università italiane e la determinazione della popolazione palestinese. 🌸
Amina salina dice
Brava finalmente qualcuna che non piagnucola per i poveri israeliani che stanno raccogliendo esattamente l odio che hanno seminato per oltre 80 anni quando squartavano le donne musulmane e Cristiane palestinesi bruciando le case e sradicando gli olivi
Israele e un progetto coloniale messo su da russi ucraini buelorussi polacchi che nulla hanno a che fare con l ebraismo storico per costruire un avamposto razzista e suprematista nel Vicino Oriente