Nella crisi in corso una cosa diventa sempre più chiara: la distanza dell’istituzione statale dalla società. È sempre più evidente fino a che punto lo Stato sia parte integrante dei flussi di denaro, tanto da non apparire più come un’istituzione che possa essere orientata diversamente. La sola cosa importante, per lo Stato, sono i mercati finanziari, l’accumulazione del capitale. In una conversazione con Jerome Roos tratta dal libro agire altrimenti (a cura di Salvo Vaccaro, Elèuthera editrice), John Holloway sostiene che ovunque, nel mondo, c’è una percezione crescente dell’incapacità di funzionare del capitalismo: se il sistema non ha più posto per noi, se lascia disoccupati la metà dei giovani e taglia le sovvenzioni, se lo Stato rifiuta di negoziare e la polizia si fa ogni giorno più repressiva, allora saremo costretti non solo a inventare forme creative di protesta, a reinventare una politica, ma dovremo creare altri modi possibili di vivere, la base di un nuovo mondo e di una nuova società
John Holloway in una conversazione* con Jerome Roos
Sono passati più di dieci anni da quando hai pubblicato Change the World Without Taking Power: The Meaning of Revolution Today (Cambiare il mondo senza prendere il potere: il significato della rivoluzione oggi), e da allora molte cose sono venute a galla: le crisi finanziarie, la crisi del debito nell’Eurozona o la scelta statale di scaricare sul pubblico i debiti privati. Credi che la crisi corrente del capitalismo ci stia dicendo qualcosa di nuovo che ancora non sapevamo oppure sta solo confermando ciò che già sapevamo sulla natura dello Stato e le possibilità che ha un’azione rivoluzionaria ancorata alla concezione statuale nel contesto del capitalismo finanziario mondiale?
Credo che nella crisi attuale una cosa davvero impressionante a proposito dello Stato sia proprio il suo grado di chiusura. Forse la questione da porre non è se siamo di fronte a qualcosa che non sapevamo. Piuttosto, l’aspetto sorprendente è constatare come lo Stato non risponda minimamente alla sequela di proteste in atto. Mi pare che ciò sia soprattutto evidente guardando al caso greco e a quello spagnolo con le loro proteste massicce, sia da parte della sinistra più tradizionale sia da parte della sinistra più creativa, se vogliamo chiamarla così. Lo Stato semplicemente non ascolta nessuno e tira dritto per la sua strada. Infatti, a me sembra che nella crisi in corso una cosa sia divenuta sempre più chiara a porzioni sempre maggiori di popolazione, ovvero la distanza dell’istituzione statale dalla società. Non solo, ma è diventato sempre più evidente anche fino a che punto lo Stato sia parte integrante dei flussi di denaro, tanto da non apparire più come un’istituzione che possa essere orientata diversamente. È ormai palese che lo Stato tende a fare tutto quanto è in suo potere per soddisfare le esigenze dei mercati finanziari, così da garantire l’accumulazione di capitale. E questo è diventato sempre più evidente nel corso degli ultimi quattro o cinque anni. Se questa decisione comporta di lasciare completamente inascoltate le proteste, o di non intervenire quando le città vengono prese d’assalto dai rivoltosi, ebbene sia quel che sia. La cosa realmente importante è il mercato finanziario. Pensiamo alla Grecia del 2011 e alle straordinarie manifestazioni che hanno avuto luogo in quel periodo, durante le quali sono stati incendiati parecchi edifici del centro città: lo Stato ha proseguito imperterrito per la sua strada. A mio avviso si tratta di un fatto decisamente importante, e forse cruciale per possibili direzioni da prendere in futuro, perché la forza di attrazione delle politiche e delle proteste ancorate al paradigma statuale dipende in ultima istanza dalla disponibilità dello Stato ad aprire tavoli di negoziazione e confronto con i sindacati e con la popolazione che protesta. Se lo Stato decide che non ci sono più margini di manovra per trattative e cambiamenti, se semplicemente decide di attestarsi sulla linea del «non è possibile alcuna negoziazione», allora si chiuderanno tutti gli spazi a disposizione di una politica statalista di sinistra e le persone saranno spinte verso l’idea che cercare di realizzare qualcosa attraverso lo Stato sia del tutto inutile. A questo punto possiamo sperare che le politiche non statuali diventino sempre più comuni e diffuse in tutta la società.
Non è proprio quello che abbiamo visto verificarsi per un certo periodo, specialmente nel 2011, con il movimento Occupy?
Assolutamente sì, e in tutto il mondo. Alcuni affermano che stiamo entrando in un’era di rivolte. Di fatto, una chiusura da parte dello Stato implica la fine di qualunque trattativa, e di conseguenza ogni forma di protesta si incanala verso la rivolta. Che cosa questo comporti nel nostro modo di procedere, non lo so per certo. Suppongo tuttavia che possa verificarsi uno sviluppo davvero fertile e produttivo.
Come un rigetto?
Sì, come un rigetto. Una sorta di radicale rottura con il vecchio modo di fare le cose, il quale potrebbe anche portare qualche beneficio minore, ma finora non ha condotto nessuno molto lontano. Sono anche convinto che un gran numero di persone si è visto costretto a reinventare non solo le proprie strategie politiche ma la stessa concezione della politica, sia in termini di protesta che in termini di invenzione di nuove alternative. Se il sistema non ha posto per noi, se lascia disoccupato il 50% della popolazione giovanile, se taglia le sovvenzioni statali, se lo Stato si rifiuta di negoziare e la polizia diventa ogni giorno più repressiva, allora credo che siamo costretti non solo a inventare forme creative di protesta, ma anche a inventarci altri possibili modi di vivere. E lo vediamo bene in Grecia e in Spagna, dove le cose stanno andando esattamente in quella direzione. Credo che la crisi ci stia dicendo proprio che quella è la via da percorrere, ma che non ci siamo spinti ancora abbastanza avanti. Non siamo ancora al punto di poter dire al capitale che se ne può andare all’inferno perché tanto ce la caviamo benissimo senza di lui. Il vero problema sta qui. Ma credo comunque che sia questa la direzione da seguire.
Per poter rompere definitivamente con il capitalismo, tu suggerisci di iniziare creando delle «crepe» al suo interno in molti punti e momenti. Tuttavia queste «crepe», come le chiami, sembrano prodursi soprattutto nei tempi di crisi. L’abbiamo visto nella rivolta popolare in Argentina nel 2001-2002, come ha acutamente rilevato Marina Sitrin nel suo libro Everyday Revolutions, e lo rivediamo oggi nell’Europa meridionale. Ritieni che ci sia un modo per protrarre queste crepe oltre i «tempi duri» delle crisi economiche oppure questo tipo di organizzazione popolare spontanea si verifica necessariamente in tempi di crisi, per poi ricomporsi nel populismo statal-capitalista in stile kirchnerista?
Non saprei, perché in primo luogo non sono certo che i tempi miglioreranno, e in secondo luogo non sono neppure certo che ci si debba preoccupare di perpetuare queste crepe. Se pensiamo all’Argentina, lì c’era chiaramente la convinzione che le cose sarebbero migliorate. Appena l’economia e i tassi di profitto hanno recuperato, molti movimenti del biennio 2001-2002 sono stati risucchiati dallo Stato. Ma i problemi naturalmente sono riemersi altrove. Se guardiamo alla Spagna e alla Grecia, innanzi tutto notiamo che non ci sono prospettive di miglioramento a breve termine. Inoltre, qualora migliorassero davvero, la crisi si sposterebbe da un’altra parte. E la ricerca di stili di vita alternativi continuerebbe.
Sono convinto che esista un accumulo di esperienze e anche un accumulo di coscienza che si diffonde da un paese all’altro, e che ci dice che il capitalismo semplicemente non sta funzionando e anzi ha dei seri problemi. Credo che la gente in Grecia guardi all’Argentina e riconosca l’importanza dell’esperienza di dieci anni fa. E credo che le persone in Argentina (anche se le condizioni economiche sono migliorate da allora) guardino alla Grecia e rivedano l’instabilità del capitalismo. Il fallimento del capitalismo si sta palesando ancora una volta ma in un altro posto. E a mio avviso c’è una percezione crescente ovunque nel mondo dell’incapacità di funzionare del capitalismo. C’è una crescente certezza che le crepe o i progetti folli che creiamo potrebbero davvero essere la base di un nuovo mondo e di una nuova società, anzi che siano il solo modo per farlo.
Ciò che invece non mi piace nell’idea di rendere qualcosa perpetuo è che rimanda a un procedere stabile e costante. Non credo che funzioni così. Credo piuttosto che sia come un flusso sociale di ribellione, qualcosa che si muove dappertutto nel mondo, con eruzioni ora in un luogo ora in un altro. Ma esistono delle continuità sotto le discontinuità. Dobbiamo pensare in termini di movimenti di rivolta che ribollono qui e lì piuttosto che pensare a come perpetuare il movimento in un solo posto. Se continuiamo a pensare in termini di perpetuazione in un luogo, alla lunga non possiamo che finire nell’istituzionalizzazione, il che non mi sembra proficuo, oppure soccombere a un senso di sconfitta, che non mi sembra corretto.
Potresti spiegarci in modo un po’ più esteso cosa credi ci sia di sbagliato nell’ idea di istituzionalizzazione? Hai aperto un dibattito e un carteggio con Michael Hardt su questo tema, laddove mi pare che per Hardt e Negri l’istituzionalizzazione non sia in sé un problema fintanto che rimane parte di un movimento costituente, di un’auto-organizzazione di rivolta. Qual è il tuo punto di vista su questo argomento?
Credo che l’istituzionalizzazione non sia necessariamente deleteria, può esserlo oppure no, ma non dovremmo impuntarci su questo, dovremmo pensare più in termini di movimenti. L’aspetto pericoloso è che cominciamo a pensare in termini di istituzionalizzazione nel momento in cui i movimenti iniziano a fallire. Istituzionalizzarli può essere un modo di prolungare la loro vita, ma subito dopo si trasformano in qualcosa di poco stimolante e di poco interessante. Se poi intendiamo l’istituzionalizzazione in senso partitico, questo può rivelarsi decisamente pernicioso. È un po’ quello che sta succedendo di recente in Argentina. Se ti convinci che devi presentarti alle prossime elezioni, sarai fortunato se otterrai un 1,5% dei voti, e dopo cinque anni forse ne otterrai il 4% o poco più. Una volta che si procede in quella direzione, sono davvero convinto che la sconfitta sia inevitabile; è un modo di spingere i movimenti nella palude della politica statuale. Se consideriamo l’istituzionalizzazione nei termini del World Social Forum, così com’è oggi, allora non risulta molto dannosa, ma di certo non è lì che batte il cuore dei movimenti. Sono convinto che sia utile avere momenti di incontro ed è certamente proficuo creare collegamenti fra i movimenti presenti nelle diverse parti del mondo. Anzi, è molto importante superare, in termini pratici, l’orientamento nazionale dei movimenti. Ma le istituzioni non sono affatto i luoghi in cui tutto questo può avvenire.
Se vogliamo analizzare un esempio estremo di rivoluzione istituzionalizzata, possiamo guardare al pri (Partido Revolucionario Institucional) qui in Messico, un partito politico che ha risolutamente monopolizzato l’eredità della Rivoluzione messicana e continua a perpetuare questa metodologia rivoluzionaria per legittimare i suoi metodi corrotti e autoritari. Vedi qualche connessione fra la «dittatura perfetta» del pri dal 1930 al 2000 e il proliferare in Messico di movimenti autonomi che cercano di organizzarsi al di fuori dell’apparato statale?
Sì, credo che possa esserci una connessione. L’intera storia del pri, per la maggior parte della popolazione, è la storia dei tentativi falliti di realizzare qualcosa attraverso di esso e del conseguente discredito dello Stato. La convinzione comune è che se si vuol fare qualcosa di innovativo e cambiare radicalmente la società, senza dubbio non è possibile farlo attraverso lo Stato perché quello è il luogo della corruzione, il luogo della cooptazione. Suppongo che il pri possa ben rappresentare l’esaurimento della politica statalista.
Tuttavia ci sono alcuni che esortano a guardare all’esperimento bolivariano in Venezuela. Il mese scorso abbiamo assistito al funerale di Hugo Chávez. C’ è chi, e penso a Dario Azzelini, ha elogiato Chávez per il suo supporto alla creazione di decine di migliaia di cooperative e consejos comunales sostenendo che la rivoluzione bolivariana ha realmente rafforzato la base popolare. Fino a che punto è possibile mobilitare lo Stato come una crepa dentro il sistema della dominazione capitalista?
Non credo che possa funzionare. D’altronde sono convinto che tutti i movimenti rivoluzionari e tutti i movimenti per un cambiamento radicale siano profondamente contraddittori. Riflettere sul Venezuela è molto interessante, perché da una parte è un movimento decisamente statalista, ma dall’altra ci sono anche molti movimenti genuini che mirano a trasformare la società dal basso, partendo dai propri quartieri. Ritengo che con Chávez ci fosse la netta consapevolezza di questa contraddizione e la sincera volontà, partendo dal basso, di rafforzare in molti modi il movimento e di potenziare i consigli di zona. Ma se si tenta di fare la stessa cosa dall’alto, dallo Stato, la contraddizione diventa palese. E in alcuni casi ha portato a rinvigorire alcuni movimenti popolari, che spesso sono stati in forte tensione con le strutture statali. Ritengo che la durata nel tempo del chavismo dipenda non tanto dall’organizzazione statale quanto dalla forza di questi movimenti comunitari. Quindi no, non credo che si possa pensare lo Stato come una crepa, un’entità anti-capitalista, semplicemente perché lo Stato è una forma di organizzazione che esclude le persone; è una forma di organizzazione che si adatta perfettamente alla riproduzione del capitale e deriva i suoi proventi dall’accumulazione stessa del capitale. Ma credo che persino in quelle nazioni nelle quali il movimento per un cambiamento radicale è dominato dallo Stato, come in Venezuela, Bolivia o in certa misura anche Cuba, continui a esistere contemporaneamente una spinta che punta in direzioni diverse.
Hai sempre avuto questa idea dell’impraticabilità di un’azione rivoluzionaria statalista?
Probabilmente è sempre stata parte del mio modo di vedere. Diciamo che risale ai vecchi dibattiti sullo Stato degli anni Settanta, nei quali l’enfasi era posta sul tentativo di definire lo Stato come una forma capitalista delle relazioni sociali. E credo di aver sempre dato per scontato che, ovviamente, se si immagina lo Stato come un’organizzazione capitalista delle relazioni sociali, allora di certo non è possibile pensare di ricorrere allo Stato per mettere in pratica una rivoluzione. Dobbiamo pensare in termini di forme organizzative anti-statali. Per questo, quando sono arrivato a scrivere Cambiare il mondo senza prendere il potere, pensavo di affermare qualcosa di veramente ovvio, di assodato. Credo che sia sempre stata la mia visione dei fatti, ma quando sono giunto in Messico e dopo le rivolte zapatiste, certamente mi sono imbattuto in nuove forme, in nuovi stimoli.
È nota la critica secondo cui «se non prendi il potere, il potere si prende te». Come rispondi a un simile argomento?
Io sono convinto che quando tu prendi il potere, allora il potere si prende te. Non c’è via di scampo. Intendo dire che è molto difficile posizionarsi nel contesto del potere, almeno nell’accezione comunemente intesa di «potere su». Inevitabilmente si inciampa nei modelli dell’esercizio del potere, dell’esclusione delle persone, della riproduzione di tutto ciò contro cui si stava lottando all’inizio. L’abbiamo visto capitare in continuazione, sempre di più. Se si afferma «non prenderemo il potere», suppongo che una delle critiche possibili sia che se non si prende il potere, allora se lo prenderanno persone veramente nefande, che non prendendo il potere si lascia un vuoto. Credo che non sia vero: dobbiamo considerare il capitalismo come un «modo», non come una «cosa», vederlo come un modo di agire. La lotta contro il capitale e la lotta per creare un altro mondo, un altro «modo», riguarda appunto come fare diversamente le stesse cose. Non ha alcun senso dire che la via migliore per ottenere il nostro «modo» è di reiterare i comportamenti che stiamo rifiutando. È un’affermazione del tutto insensata. Se diciamo che l’obiettivo della lotta è creare modalità diverse di agire, altri tipi di relazioni reciproche, allora molto semplicemente non abbiamo altra scelta che iniziare a farlo, e fare tutto il possibile per resistere all’imposizione del «modo» che rifiutiamo.
Hai scritto che la transizione dal capitalismo al mondo futuro è necessariamente un processo interstiziale, come lo fu la transizione dal feudalesimo al capitalismo. Questa posizione si pone in netta contraddizione con la visione marxista ortodossa, secondo la quale la rivoluzione è per definizione un ribaltamento drammatico che avviene in un breve periodo di tempo. Se questa visione ortodossa della rivoluzione come evento è scaduta, come descriveresti il processo transitorio che la rimpiazzerebbe?
A prima vista la concezione interstiziale contrasta con la visione tradizionale che suona «prenderemo il potere e ribalteremo la società dall’alto in basso». Ma in realtà persino questa è ancora un’idea interstiziale, perché si basa sull’idea che lo Stato corrisponda alla società, che le due entità coincidano, il che è naturalmente una sciocchezza. Stato e società non hanno gli stessi confini. Dato che esistono circa duecento Stati nel sistema mondiale, e dato che questi Stati non saranno certo rovesciati tutti in un solo giorno, anche se volessimo rifarci al potere statale dovremmo pensare in modo interstiziale. Ma da questa prospettiva, il solo pensare che lo Stato possa essere un interstizio cruciale suona ridicolo. Questo significa che si sta cercando di conquistare la più rilevante forma di organizzazione che è stata costruita dalla nascita del capitale. E ogni evento dell’ultimo secolo testimonia che la cosa non funziona. Quindi dobbiamo pensare in termini di interstizi, ma nel senso di nostre forme di organizzazione. Gli Stati qui non hanno molto senso. Dobbiamo pensare a qualcosa dal basso, a creare nostri modi di relazionarci e di interagire. Facciamolo alla nostra scala: magari è solo una piccola cosa, come il giardino in cui ci troviamo ora. Qualche volta è più grande, come la vasta porzione dello Stato del Chiapas ora auto-governata dagli zapatisti. La domanda cruciale allora diventa: come provocare la confluenza di tutte queste crepe? C’è questa idea che la transizione dal feudalesimo al capitalismo sia avvenuta in modo interstiziale, ma che il movimento dal capitalismo al comunismo o al socialismo non possa invece verificarsi. E questo è evidentemente errato. Se pensiamo al comunismo, o meglio alla società che intendiamo creare sulla base dell’auto-determinazione, essa deve essere costruita dal basso e non a partire dalle strutture che ne negano l’esistenza. Ciò comporta un processo interstiziale in due tempi, felicemente espressi dagli zapatisti. Prima arriva un Ya basta!, ossia non possiamo più accettare questa situazione, né in termini di sopravvivenza, né per la nostra salute mentale. Se questo sistema continuerà a esistere, comporterà la distruzione dell’umanità. Dobbiamo iniziare adesso e aprire una breccia adesso. In questo senso il processo non è graduale: è qui e ora che dobbiamo creare qualcos’altro. Ma ecco che arriva il secondo slogan zapatista: «Noi camminiamo, non corriamo, perché dobbiamo andare molto lontano», con la consapevolezza che non si tratta soltanto di trasformare la società per un giorno, ma di creare un nuovo mondo.
* Il testo qui sopra viene pubblicato per gentile concessione a Comune-info da parte dell’editore. E’ tratta da agire altrimenti (elèuthera): il libro di Salvo Vaccaro che raccoglie saggi, tra gli altri, di David Graeber, Michael Albert, Noam Chomsky, ma anche di alcuni anarchici e altri autori anti-autoritari spagnoli. La conversazione con Holloway è stata realizzata il 3 aprile 2013 a San Andrés de Cholula (Messico).
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