Vivere l’arte come una forma di cambiamento e il teatro come cura significa rompere l’isolamento provocato dal tempo pandemico. È questo il filo rosso che ha legato diverse proposte web ma soprattutto nei territori. La compagnia Fuori Contesto, ad esempio, è tornata in strada bussando letteralmente alle porte dei vicini di casa, chiedendogli se potevamo recitare un pezzo teatrale. Un’iniziativa alla quale hanno aderito circa duecento compagnie. Strade, piazze, cortili, ingressi di scuole… per non tornare al mondo e al teatro di prima
Le foto di questo articolo sono tratte dalla pag. fb Innamorati del teatro
«La cultura è una forma di cura perché ci indica possibili strade, come quando si legge un libro, a maggior ragione ciò vale per il teatro che si basa sulla catarsi attraverso la quale lo spettatore entra in contatto con una parte di se. Sì, questa è una forma di cura». Emilia Martinelli, regista e autrice della compagnia Fuori Contesto, riflette in una giornata di sole, finalmente all’aperto seduta su una panchina nei giardini di Piazza Vittorio a Roma. Il virus sembra aver allentato la sua morsa, ci si sente inevitabilmente più liberi, o perlomeno non più così diffidenti, e forse è il momento in cui ripercorrere un anno e mezzo dai contorni a tratti surreali, capire se veramente le persone sono diventate qualcosa di diverso come recitava lo slogan abusato del lockdown duro. «La pandemia è stata l’occasione per scoprire tante cose, sia personali che collettive, ora credo che questa possibilità non dovrebbe andare sprecata – aggiunge Emilia – Ma il mio timore è che il teatro tornerà quello di prima. Sarà disposto a cambiare?».
Emilia si definisce una teatrante ma è anche un’educatrice e ha un’idea che la guida: l’arte è una forma di cambiamento. Da vent’anni anni lavora su progetti che mettono insieme persone diverse per fare teatro, laboratori con bambini, anziani, persone con disabilità, donne vittime di violenza, ragazzi a rischio. «Mi interessa lavorare non con professionisti – racconta – ma con coloro che hanno vissuti talmente forti che una volta messi in scena generino un cambiamento in chi li osserva. Il teatro però non è una terapia, infonde solo consapevolezza su certe cose».

Fuori contesto nel 2005 è diventata anche un’associazione culturale che lavora su progetti sia con enti pubblici che privati. Ma al centro della sua attività c’è sempre la stessa esigenza, quella di raccontare storie di persone in cerca di un equilibrio; esperienze vere fonti per testi originali, dove i protagonisti sono uomini e donne dall’esistenza semplice ed eccezionale allo stesso tempo. Con la pandemia però è aumentato l’isolamento, quasi si fosse seccato il fluire della vita. Un senso di mancanza di prospettiva immersi in un eterno e cupo presente.
Il teatro allora è stata una forma di reazione, una sorta di anticorpo per combattere la malattia. Chiusi i teatri, fermi i laboratori, saltato anche il festival Fuori Posto, che la compagnia organizzava nelle strade della capitale da ben otto anni, portando il pubblico all’interno delle opere rappresentate, la risorsa immediata è stata la dimensione virtuale. Emilia spiega come «il festival è stato trasformato in un museo di storie on line, un spazio per vedere video di spettacoli. Poi abbiamo fatto anche dirette streaming. È stata un’esperienza unica perché abbiamo lavorato tutti da casa, un lavoro artigianale. Ad esempio un collega ha creato una rappresentazione chiamata Casa di bambole, realizzata attraverso la tecnica della stop motion. Il sito è stato totalmente accessibile per persone con disabilità visiva o di parola. Il lavoro fortunatamente è stato finanziato dalla Regione Lazio ma si è basato su un’idea spontanea iniziale. Vedevo mia figlia affrontare la situazione di chiusura giorno per giorno. Le ho chiesto se quello che scrivevo era effettivamente quello che provava. E l’eredità di tutto ciò è stata quella che ci ha portato oggi a fare un lavoro sull’adolescenza».


Ma se l’on line è stata una finestra sul mondo, l’unica in quel momento, alla fine non bastava più. Riflette Emilia: «Il nostro è un teatro indipendente che ha come caratteristica quella di stare sul territorio, noi non viviamo senza comunità. Questo contatto ci mancava e ci sentivamo un po’ presi in giro, vedi la polemica su Sanremo ad esempio. La chiusura dei teatri nonostante le norme di sicurezza, ha fatto crescere un sentimento d’indignazione. Pensavamo: possibile che in questo paese la cultura è la prima cosa che viene messa da parte».
Ed è a questo punto che si è creato un corto circuito positivo. Da due esigenze, quella di attori e registi di lavorare e quella del pubblico isolato e rinchiuso in casa, è nato un cambiamento e si è sviluppata una riflessione. La compagnia Fuori Contesto ha deciso di tornare in strada bussando letteralmente alle porte dei vicini di casa, chiedendogli se potevamo recitare un pezzo teatrale. «Abbiamo cercato la relazione con il pubblico – spiega Emilia – Quando sei davanti una persona c’è un filo che ti lega ad essa, un attore quando è in scena entra in empatia con il pubblico». Così con altre due compagnie, “Igramul” e il “Naufragar m’è dolce” è stata scelta una giornata chiamata Innamorati del teatro (pag. fb), il giorno di San Valentino di quest’anno, con l’idea di cantare l’amore alle persone. L’iniziativa e stata lanciata in rete e hanno rapidamente aderito circa duecento compagnie sia in Italia che all’estero. Non era una manifestazione, non si gridava “aprite i teatri” ma si voleva far sentire alle persone che la cultura riaccende anche solo per un momento una scintilla di vita. È stato messo un seme per vedere se germoglierà.
«Quel giorno siamo stati in più luoghi differenti – spiega Emilia Martinelli -, ad esempio ci ha accolto il comitato di via Balilla (zona Esquilino, ndr) che ha redatto una mappa dei luoghi, poi siamo stati nel quartiere di san Saba dove si è creato un vero e proprio pubblico che sembrava stare in un teatro greco, poi siamo andati a san Basilio con una situazione allargata, di piazza. Poi nella zona Cornelia all’interno di un cortile interno e davanti una scuola di danza dove il pubblico era costituito dai passanti. A seconda del luogo cambiava anche il modo di recitare. Ma tutta Roma è stata coinvolta da queste performance. Diciamo che ci siamo anche un po’ messi a rischio perché non avevamo nessun permesso, ma tutti avevamo questa esigenza e ognuno ha scelto la sua forma, qualcuno ad esempio ha recitato per il figlio, altri per i vicini di casa, le relazioni sono state diverse ma è stato come al teatro dove ogni sera lo spettacolo non è mai lo stesso».
Questo articolo è il frutto di un corso (intitolato Raccontare la società che cambia) dedicato ai temi della comunicazione sociale, promosso a Roma dalla redazione di Comune insieme all’ong Arcs.
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