Il naufragio della politica precipita sui regimi giuridici. La vicenda di Alberto Patishtán, il professore indigeno a cui la giustizia messicana nega la libertà nonostante le prove della sua innocenza siano evidenti, è una delle dimostrazioni. Tutti i governi però hanno imparato a ignorare la gente, spiega Gustavo Esteva, e «sarebbe ingenuo aspettarsi che dalla strade, con marce, piantoni o urne, cambieranno direzione». Dobbiamo pensare alla «nostra assemblea, alla capacità autonoma di decidere per conto nostro e creare il nostro ordine sociale dal basso…». «Come ci ha appena detto il comandande Tacho, nella escuelita zapatista, con la resistenza e con l’organizzazione “stiamo dimostrando al malgoverno che non lo vogliamo e che di esso non abbiamo bisogno”». Non si tratta dunque di forzare la mano con questi governi né di sostituirli con altri, «perché il male non sta solo nelle persone ma nel sistema politico ed economico dominante, nel capitalismo e nei suoi amministratori statali».
di Gustavo Esteva
«Il concetto di diritto – ha scritto Ivan Illich quarant’anni fa, – mantiene tutta la sua forza, anche quando una società riserva l’accesso all’apparato giuridico ai privilegiati; anche quando, sistematicamente, avvilisce la giustizia e veste il dispotismo con il manto di simulacri di tribunali».
E’ proprio questo il punto. Dal più piccolo tribunale rurale alla Suprema Corte si tratta solo di simulacri di tribunali. La beffa della giustizia è già un atto cinico, un messaggio, un modo di esercitare il potere che utilizza l’ingiustizia per intimidire la gente e nascondere con violenta prepotenza la mancanza di legittimità. Sì, siamo avvertiti. Qui, in questo paese, possiamo lasciare liberi Ulises Ruiz o Caro Quintero e far restare in prigione Patishtán. Una volta dato l’avvertimento non c’è inganno. Abbiamo detto che avremmo usato tutti gli strumenti dello stato per imporre la nostra politica, per imporci. Lo stiamo facendo.
La distruzione dello stato di diritto è stata sistematica. Non è un atto casuale o un eccesso eccezionale. E’ una politica, un orientamento. Lo stato d’eccezione non dichiarato, questa condizione nella quale si utilizza la legge per ciò che sta palesemente al di fuori di essa, definisce uno stato delle cose legalmente illegale. E’ chiaro alla vista di ciascuno che l’utilizzo di tutti gli strumenti dello stato ha un obbiettivo e una direzione: mantenere, per il beneficio di alcuni, un ordine sociale basato su istituzioni che hanno smesso di adempiere alle loro funzioni.
E’ rimasto il simbolo, per la storia. Si ricorre alla forza pubblica contro cittadini inermi per proteggere la cerimonia dell’indipendenza, nel momento stesso in cui questa indipendenza si trova compromessa e il regime sacrifica quotidianamente vite e territori in favore di interessi stranieri.
Esaminiamo con attenzione i fatti per poter affrontare integralmente la situazione. I tre poteri costituiti ci voltano le spalle. Il punto di rottura è stato segnato dall’inadempienza agli Accordi di San Andrés, quando i tre poteri costituiti e tutti i partiti politici rifiutarono di riconoscere una volontà maggioritaria. Il processo non è cominciato da lì, ma da allora, negli ultimi dieci anni, si è accelerato.
Nonostante tutto ciò, cerchiamo di riconoscere che il concetto di diritto conserva la sua forza. «I procedimenti politici e giuridici sono incastrati strutturalmente l’uno con l’altro», aggiungeva Illich; «entrambi danno forma e esprimono la struttura della libertà». Si tratta di questo, oggi, della libertà. Siamo di fronte al fallimento della politica e del regime giuridico, di fronte alla loro distruzione sistematica, ma anche così «il procedimento formale può essere il migliore strumento teatrale, simbolico e conviviale dell’azione politica. … Solo dentro alla sua fragilità, la parola può riunire la moltitudine degli uomini per fare in modo che la valanga della violenza si trasformi in ricostruzione conviviale». E’ ciò che è stato fatto, di certo, negli Altos del Chiapas.
Bisognerà continuare mobilitazioni e resistenze, poiché i tentativi di usurpazione continueranno, sia contro i territori che contro i diritti e in realtà contro tutte le condizioni di sopravvivenza autonoma. Si cerca di distruggere tutte le protezioni sociali che nel corso dei secoli di lotta sono riuscite ad assicurare alcune condizioni minime a coloro che sono stati espropriati dal capitalismo.
Allo stesso tempo, dobbiamo riconoscere che questi governi hanno imparato a ignorare la gente. Non importa quanti scenderanno per le strade. Essi continueranno ciechi e sordi nel loro cammino verso l’abisso. Sarebbe ingenuo aspettarsi che dalla strade, con marce, piantoni o urne, cambieranno direzione, cesseranno le loro violenze e noi raggiungeremo ciò che vogliamo.
Ricorrere al procedimento formale significa oggi pensare a ciò che è nostro, alla nostra organizzazione, alla nostra assemblea, alla capacità autonoma di decidere per conto nostro e creare il nostro ordine sociale dal basso.
Con la parola, con l’accordo, possiamo sfidare davvero l’orrore. Come ci ha appena detto il comandande Tacho, nella escuelita zapatista, con la resistenza e con l’organizzazione «stiamo dimostrando al malgoverno che non lo vogliamo e che di esso non abbiamo bisogno». Ripensiamo a ciò con attenzione. Non si tratta di forzare la mano con questo malgoverno, nell’affanno inutile di cogliere mele da questo olmo disseccato. Ancora di meno di concentrarci nell’illusione di sostituire con altri coloro che ora ci governano, perché il male non sta solo nelle persone ma anche negli stessi apparati, nel sistema politico ed economico dominante, nel capitalismo e nei suoi amministratori statali. Si tratta di costruire un altro ordine sociale e un altra forma di governo, dal basso, con le piccole azioni decisa e coraggiose che possiamo realizzare tra uomini e donne comuni, in maniera organizzata nella nostra realtà, nelle nostre trincee, qualunque esse siano….
Gustavo Esteva vive a Oaxaca, in Messico. I suoi libri vengono pubblicati in diversi paesi del mondo. In Italia, sono stati tradotti: «Elogio dello zapatismo», Karma edizioni: «La Comune di Oaxaca», Carta; e, proprio in questi mesi, per l’editore Asterios gli ultimi tre: «Antistasis. L’insurrezione in corso»; «Torniamo alla Tavola» e «Senza Insegnanti». In Messico Esteva scrive regolarmente per il quotidiano La Jornada ma i suoi saggi vengono pubblicati anche in molti altri paesi. In Italia collabora con Comune-info.
Gli altri articoli di Gustavo Esteva su Comune-info li trovate QUI.
DA LEGGERE:
Patishtán è un ostaggio
di Luis Hernández Navarro
Il professor Alberto Patishtán, indigeno tzotzil, è il prigioniero politico messicano più conosciuto nel mondo. Una grande campagna internazionale ne chiede la liberazione perché le prove della sua innocenza sono evidenti quanto le irregolarità di un processo segnato dal razzismo e dalla faziosità. Il potere giudiziario ha invece scelto di confermare ancora una volta una condanna scandalosa per lanciare un avvertimento: la protesta degli indigeni e degli insegnanti non sarà tollerata. Dopo tredici anni, quell’uomo malato e vittima di un’atroce ingiustizia, può continuare a marcire in galera. Agli zapatisti, e a chi simpatizza con i ribelli del sudest messicano, lo Stato manda a dire che la guerra non è finita
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