Dopo estenuanti tentativi e ripetuti fallimenti, un regime assoluto e totalizzante del lavoro (gratuito e coatto) può rendere liberi dalla “devianza”? E che cos’è la “devianza”? È l’assuefazione da sostanze che la legge definisce illegali che provoca tragedie sociali e individuali, oppure vi contribuiscono in modo essenziale le stesse leggi e le convenzioni che ne regolano la vendita e il consumo? Perché in Italia è ancora legale morire, più o meno lentamente, di alcol e di tabacco e non di overdose di eroina? Queste e molte altre domande si sono accavallate per decenni nelle idee e, soprattutto, nelle pratiche di chiunque abbia avuto a che fare seriamente con le tossicodipendenze nei favolosi anni Ottanta del secolo scorso. Gli anni in cui l’Italia ha cominciato a liberarsi finalmente dalle ” gabbie ideologiche”, cioè dal pensiero critico. La storia della comunità-fabbrica di San Patrignano, quella della delirante sete di onnipotenza del suo padre-padrone, ma soprattutto quel che la parabola dell’esperienza di Muccioli ha rappresentato per la cultura, la società e le istituzioni (in primis la famiglia, naturalmente) di quegli anni sono un nodo essenziale anche per comprendere quel che è avvenuto dopo. La docu-serie prodotta da Netflix sulle “luci e le tenebre” di San Patrignano ha acceso in questi giorni molte pretestuose polemiche, ma ha certo il merito di aver portato a conoscenza dei tanti che non possono averne memoria del contenuto di uno dei cassetti più bui e inquietanti della storia italiana di fine Novecento. Sarebbe importante, al di là dell’evidenza dell’impatto nefasto di decenni di clandestinità e criminalizzazione, spiegare che di overdose (e di carcere, Aids, emarginazione, ecc.) si continua a morire anche perché, per i media e le istituzioni, quelle vite di scarto non fanno più notizia né audience

A volte ritornano, come fantasmi maligni, come ricordi amari.
Gli anni ’80 periodicamente riemergono dal limbo in cui avresti voluto relegarli, con tutto il loro portato reazionario. Rappresentano il giro di boa, il decennio in cui il capitale si è ripreso il suo spazio per costruire un nuovo ordine, sulle ceneri dell’ultimo tentativo di rivoluzione dell’Italia del ‘900. E sulle ceneri della generazione che aveva cercato di cambiare tutto, rinchiusa nelle carceri speciali, ricacciata nel riflusso, devastata con l’eroina.
L’eroina era la sostanza perfetta. Uno strumento di ‘pacificazione’ di successo già collaudato (assieme al crack) per neutralizzare la ribellione giovanile e le organizzazioni della rivoluzione nera negli Stati Uniti.
L’eroina riusciva a deviare il sogno di rivoluzione verso la fuga individuale in un paradiso fittizio. Rendeva deboli e ricattabili i potenziali ribelli.
Spostava il campo di battaglia dallo scontro contro lo Stato a quello della microconflittualità contro i propri simili, creando disgregazione sociale e desolidarizzazione all’interno dei quartieri popolari. Forniva pretesto alla militarizzazione dei territori.
Il suo consumo si espandeva veloce, probabilmente anche al di là delle intenzioni iniziali, colpendo le generazioni successive, straripando dalle case popolari ai quartieri del ceto medio, fino alle ville dei ricchi. Producendo, in questo modo, tantissimo ‘materiale umano’, utilizzabile per la sperimentazione di nuovi modelli di controllo sociale.
“SanPa: luci e tenebre di San Patrignano”, narra la storia del principale fra questi esperimenti, creato da Vincenzo Muccioli sulle colline riminesi, e da lui diretto con poteri assoluti fino alla sua morte nel 1995.
Un racconto costruito attraverso l’alternarsi di numerose testimonianze: ospiti ed ex ospiti della comunità (fra cui alcuni stretti collaboratori del fondatore), membri della famiglia Muccioli, giornalisti, giudici, psichiatri, supporters, rappresentanti istituzionali.
Ognun* con la sua angolazione visuale, tale da costruire nell’insieme l’immagine di un fenomeno sicuramente multiforme e complesso.

La docu-serie prodotta da Netflix ha acceso in questi giorni ferventi polemiche. L’attuale direzione della comunità e i suoi fedeli, da Red Ronnie a Letizia Moratti, l’accusano di essere “sommaria e parziale con una narrazione che si focalizza sulle testimonianze dei detrattori”.
Un’opinione contraddetta dall’ampio spazio concesso dal docufilm ad Andrea Muccioli, figlio del fondatore, allo stesso Red Ronnie, e ad Antonio Boschini (tuttora responsabile medico della Comunità), le cui interviste attraversano l’intero corso delle cinque puntate.
Interviste che si affiancano anche a numerose immagini di repertorio non certamente ostili: cortei di madri che inneggiano a SanPa, le parole dei giornalisti amici (da Minoli a Biagi, da Costanzo a Montanelli), il sostegno del petroliere Gian Marco Moratti, principale sponsor finanziario della comunità.

Ma soprattutto, la voce che si ascolta maggiormente è quella di Vincenzo Muccioli.
E non è certo colpa dei suoi detrattori se rivendica lui stesso, davanti alle telecamere, la giustezza della riduzione in catene dei fuggiaschi, l’uso della violenza fisica come metodo rieducativo, o la negazione del sostegno farmacologico durante le crisi di astinenza.
Se ridicolizza in modo sessista e spregevole (col giochino dell’anello) le denunce di violenze sessuali delle recluse, o se dichiara candidamente di aver taciuto e mentito sull’omicidio di Roberto Maranzano, massacrato di botte e ucciso in un reparto punitivo della Comunità.
È Vincenzo Muccioli il peggior detrattore di se stesso, con le sue esternazioni che finiscono per rendere poco credibili anche le difese d’ufficio dei suoi più convinti sostenitori. I quali probabilmente si aspettavano di partecipare ad un documentario apologetico, che è ciò a cui erano stati abituati durante decenni di ostracismo televisivo nei confronti delle vittime della comunità.
Come ricorda Rita Maranzano, sorella di Roberto, in una conferenza stampa del 1994 il cui audio è disponibile sul sito di Radio Radicale1:
“E’ stato dato spazio a tutti coloro che sostengono il signor Muccioli, a lui e alla sua famiglia, a chi invece voleva opporvisi è stato dato sempre un netto rifiuto. Io per esempio due anni fa dovevo partecipare alla trasmissione I fatti vostri , mi hanno fatta andare a Roma e poi a Roma mi hanno detto che era arrivato il veto di Minoli [all’epoca capostruttura di Rai2] e quindi non potevo partecipare . Ho sempre cercato di contattare Rai 1, Rai 2, Rai 3, la Fininvest. Ho trovato un muro.”
Il docufilm sceneggiato da Gianluca Neri, Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli, per la regia di Cosima Spender, rappresenta finalmente una breccia su quel muro, e una restituzione di verità e dignità per tutt* quell* che hanno avuto il coraggio di denunciare ciò che hanno visto e subito là dentro, nonostante le minacce, le rappresaglie e la denigrazione.
Un laboratorio per le controriforme
Come dicevo, San Patrignano è stato (e non so in che misura sia ancora) un fenomeno multiforme e complesso, non banale.
Non riducibile solo all’aspetto della violenza fisica, che comunque l’ha accompagnato fin dalla nascita, da quel primo messaggio di aiuto lanciato nel ’79 dal ventisettenne Paolo Morosini: “Sono prigioniero di queste persone. Telefonate alla polizia o ai carabinieri. Ho già avuto 7 collassi e sto malissimo“.
Un segnale seguito dalla seconda denuncia nell’ottobre dell’80, quando Maria Rosa Cesarini riesce a fuggire dalla comunità dopo essere stata rinchiusa per sedici giorni in una piccionaia.
Durate la perquisizione che ne segue, vengono trovati dalla polizia, al freddo e nel sudiciume, “Luciano Rubini e Leonardo Biagiotti incatenati in due locali usati come canile, Marco Marcello Costi incatenato alla porta in ferro di un locale di tre metri per uno e Massimo Sola incatenato ad un manufatto adibito a colombaia”2.
Sono loro i ragazzi ritratti nelle foto simbolo del “processo delle catene”, un processo fortemente mediatizzato che porterà San Patrignano ai disonori delle cronaca, ma non fermerà la violenza.

Perché al di fuori dell’aula di tribunale, gran parte della società plaude a quella violenza. Plaude alla sospensione delle garanzie dello stato di diritto per i tossicodipendenti, alla liceità di sequestrarli e richiuderli al di fuori di qualsiasi previsione di legge, ed è disposta ad accettare anche l’uso di trattamenti inumani e degradanti pur di toglierseli di torno.
Partecipa a quella violenza, rifiutando di accogliere e proteggere chi tenta di sottrarsene.
Una società che quando evadi ti cattura, e ti riconsegna a loro.
O che ti chiude tutte le porte, costringendoti a tornarci, perché è l’unico posto dove ti è concesso stare.
Durante il “processo delle catene”, anche dopo la condanna in primo grado, i tribunali di tutta Italia continuano ad inviare tossicodipendenti a SanPa per scontare la pena, nonostante i suoi sistemi siano ormai noti.
In appello, e poi in Cassazione, la magistratura finisce per assolvere Vincenzo Muccioli, spalleggiato dal potere politico e dalle televisioni pubbliche e private a reti unificate.
Lo assolve dalle accuse di sequestro di persona, violenza e maltrattamenti, per “aver agito in stato di necessità putativa”, legittimando con l’impunità il via libera all’uso di quegli stessi metodi, che nel frattempo continuano ad essere esercitati “as usual”.
Una decisione che conferma quell’aura di “extraterritorialità” che avvolge la comunità sulla collina, apparentemente immune anche alle leggi edilizie e fiscali.

Tanta accondiscendenza da parte dello Stato è legata certamente a numerosi interessi contingenti – la comunità muove soldi, voti e consenso – ma al di sopra di questi, c’è il fatto che San Patrignano interpreta pienamente lo spirito del tempo, di quegli anni ’80 inaugurati dalla sconfitta operaia alla Fiat e dalle crociate antiabortiste di Wojtyla.
La comunità partecipa alla costruzione del nuovo ordine, riuscendo a riassumere in una sola esperienza tutte le controriforme possibili.
A partire dalla logica patriarcale che la sottende, con al centro un Dio/padre/padrone dotato di potere assoluto sui suoi ‘figli’, redenti dalla colpa della tossicodipendenza attraverso l’imposizione della disciplina e la rieducazione del lavoro.
Un lavoro coatto e gratuito – nelle strutture agricole e artigianali di SanPa – che riporta alla mente, più che lo spirito cooperativo, quello delle workhouses dell’età vittoriana, le fabbriche/prigione istituite per togliere i poveri e vergognosi dalle strade e raddrizzare le loro cattive abitudini.
In fatto di diritti del lavoro, San Patrignano incarna, in pratica, il sogno proibito di quella borghesia industriale che negli anni ’80 ha da poco riguadagnato il controllo delle fabbriche, la libertà di licenziamento e la vittoria al referendum sulla scala mobile.
Inoltre la vocazione reclusoria della comunità fa da contraltare alla Legge Basaglia, che ha da poco modificato radicalmente i presupposti per la privazione della libertà personale in assenza di reati, ed alla riforma sulle tossicodipendenze del ’75 (quella che istituisce i servizi territoriali pubblici di assistenza) che, come vedremo, SanPa si impegnerà ad emendare dettando ai decisori politici il testo della Iervolino Vassalli.
Ma è nella distruzione/costruzione delle identità e delle coscienze dei reclusi, e nello sviluppo di modelli originali nell’organizzazione delle funzioni di controllo, coercizione, punizione, che la comunità di Muccioli riuscirà a dare il meglio di sé.
San Patrignano non avrebbe potuto funzionare se alla violenza fisica non si fosse accompagnato un forte condizionamento mentale.
La riabilitazione infatti non consisteva nel rafforzare la tua personalità per farti rialzare.
La ‘riabilitazione’ consisteva nel distruggerla.
Nel farti uscire dal ‘tunnel della droga’ per farti entrare nel tunnel della comunità, sostituendo una dipendenza con un’altra.
Questa ‘modalità terapeutica’ era presente sin dalle origini, quando SanPa aveva ancora l’aspetto di una comunità freak.
Come testimonia uno dei reclusi del 1980:
“Avevo spiegato con chiarezza, e motivandolo, perché non volevo più rimanere, perché quel che si faceva in quel posto non mi andava. E sono stato rinchiuso in “piccionaia”. Otto giorni ci sono rimasto. E quando sei lì da solo senza niente da fare, senza neppure le sigarette da fumare, se ti opponi a quella che consideri un’ingiustizia nei tuoi confronti rischi di diventare pazzo. L’unica cosa per sopravvivere è cercare delle giustificazioni per quelli che ti hanno rinchiuso. Ed è proprio quello lo scopo. Fare in modo che lì dentro, piano piano, tu ti annulli. È questo che non mi va della “comune”. Io ero alla ricerca di una vita diversa, in campagna, in mezzo alla tranquillità. Invece si trattava di distruggere una persona completamente, per costruirne una nuova. Ma su quali basi? Su quale modello? … Leonardo [un ragazzo suicida] non aveva accettato di scomparire per lasciare il posto a uno che non era lui. È quella cameretta che l’ha ucciso“.
“Il problema vero non è quello della droga. Passate le 52 ore di crisi di astinenza diventa secondario. È che lì, partendo dalla considerazione che tutto quel che c’è fuori è marcio e fa schifo, vanno alla ricerca di un modello tutto loro facendo un plagio sui compagni. Quelli se li mettevano in divisa e li mandavano a sparare ci andavano. Si credono depositari di una verità e non guardano ai mezzi per raggiungerla“.3 .
Il ‘percorso rieducativo’ – nell’accezione muccioliana del termine – prevedeva che la comunità ti privasse, per un tempo lungo e indefinito, del potere decisionale su ogni aspetto della tua vita, dai più importanti ai più minimali: il diritto di scegliere chi frequentare fra gli altri reclusi, di chi innamorarti, cosa mangiare, quante sigarette ti spettavano.
Non sceglievi tu cosa potevi leggere, che programmi televisivi vedere.
Non esisteva più un tuo momento privato, nel dormitorio collettivo, nel bagno, nel reparto di lavoro o nelle due ore di accesso serale allo spazio ricreativo comune. E comunque la presenza del tuo sorvegliante era continua.
La tua vita diventava trasparente agli occhi di chiunque volesse colpirti.

Tutti gli orari erano imposti, da quello della sveglia a quello del sonno, del lavoro, della mensa, del televisore. Occorreva rispettarli rigidamente, così come la lunga lista di divieti: bere un caffè, lasciare il cibo nel piatto, alzarsi da tavola prima degli altri.
Erano puniti il ritardo e la negligenza sul lavoro. Rifiutare il lavoro – coatto e gratuito – era considerato grave segno di non collaborazione, che comportava conseguenze.
Esprimere dubbi era gravissimo e, soprattutto, era gravissimo cercare di andare via.
Del resto con che soldi ?
Lavoravi tutto il giorno ma non avevi un salario, non possedevi niente, non potevi mettere nulla da parte per prepararti a un futuro fuori di lì.
I rapporti con l’esterno erano interrotti, anche quelli che col mondo della tossicodipendenza non c’entravano. I colloqui (rari) con i familiari avvenivano sotto controllo, la posta era soggetta a censura.
Non potevi chiedere aiuto a nessuno. Se ci provavi ti mettevi a rischio.
“Il giorno prima Natalia Berla mi aveva consegnato personalmente un bigliettino con scritto un numero di telefono di Roma, e mi ha detto velocemente, perché non poteva parlare con nessuno, telefona lì che vengano a prendermi, perché non ne posso più. E aveva gli occhi gonfi e le labbra tumefatte e piangeva. Faceva questo servizio a tavola seguita passo passo da una che si chiama Francesca. Lei si è accorta che mi ha parlato e l’hanno trascinata in dispensa. A quel punto si è inserita la testimonianza di Paolo Negri, che invece era in cucina e ha visto che l’hanno messa in un angolo e l’hanno picchiata proprio in una maniera bestiale. La mattina dopo era morta, ‘sta ragazza. E queste sono storie di omicidi”.4
Ogni infrazione veniva scoperta, grazie a un capillare sistema di controllo.
Ogni infrazione veniva punita. Erano abituali le umiliazioni pubbliche, dove la violenza diventava una dimensione quotidiana, esibita, tanto da farla sembrare normale.

Nei ricordi di infanzia di Andrea Delogu, nata in comunità, “succedeva che nel piazzale della comunità, Muccioli parlasse al microfono degli sbagli commessi da qualcuno. Poi prendeva chi aveva commesso l’errore e gli dava ceffoni davanti a tutti. Ma anche qui ritenevo la cosa normale, se non giusta. Pensavo che evidentemente chi prendeva gli schiaffi li meritava”5 .
Schiaffi che ti potevano rompere il naso in mensa, in mezzo alla folla dell’ora di pranzo, per aver osato bere un caffè di nascosto6.
L’umiliazione pubblica serviva da monito per chi vi assisteva, e contribuiva a spezzare la personalità del ‘reo’, a farlo sentire più isolato che mai, perché quasi nessuno osava opporsi. La solidarietà potevi pagarla duramente.
Dalla deposizione di Elisabetta De Giovanni:
“Vincenzo aveva rinchiuso, sempre per futili motivi, tre ragazze considerate da tutti ed anche da lui stesso fino a qualche giorno prima, guarite. Consuelo, Martina ed Alice, anche loro contestatarie. Le aveva rinchiuse in un casolare e siccome non soffrivano abbastanza, dopo qualche giorno sospese loro i viveri. Era terribile passare da quel capannone e sentire tutto il giorno le povere tre cantare. Mi sentivo ad Auschwitz. Dopo qualche giorno fece portare Alice, la più fragile delle tre, leggermente handicappata, sul piazzale e, con una macchinetta, le rasò i capelli, tra battute deplorevoli e risate grasse. Alice di Roma riuscì a scappare e la ritrovarono l’indomani morta per overdose in Piazza Tre Martiri. Criticai pesantemente l’operato del mio padre-padrone che mi fece rinchiudere nella botte“.
“Durante la mia seconda permanenza a SanPa in due anni visitai quasi tutti i luoghi di prigionia. Venti giorni in piccionaia, un luogo circolare molto angusto, dipinto di arancione e in discesa, dove ti sentivi letteralmente impazzire. Due mesi al buio nella cassaforte della pellicceria insieme ad un dobermann malato. In un vecchio casolare abbandonato sdraiata e incatenata con tutte e due le braccia alla spalliera del letto. Mi veniva liberato un braccio due volte al giorno per mangiare, mentre per i bisogni fisiologici bastava un secchio sotto il letto. Ma la chiusura più terribile, per quanto la più breve, fu una settimana nella botte. Si, un tino vero e proprio, di ferro, dove potevi stare accovacciata e dove una volta al giorno ti passavano il cibo da uno sportellino, il tutto ad un palmo dal solito secchio con gli escrementi. Non avevo ucciso nessuno, ma ben più grave era la mia colpa: ero entrata nella contestazione”7.

Per avanzare nel ‘percorso terapeutico’ era necessario osservare le regole, ma non bastava. L’affidabilità andava dimostrata con il consenso, con l’entusiasmo, con la partecipazione attiva.
Bisognava denunciare chi trasgrediva, esponendo i propri compagni e compagne alla rappresaglia. Nascondere ogni empatia nei confronti di chi veniva punito, negargli aiuto, anche per evitare di finire a propria volta nel mirino. Sporcarsi, per paura, convenienza o convinzione, con gli aspetti più ignobili di quel sistema.
Tutta la comunità doveva essere coinvolta, a vario titolo, nell’apparato coercitivo.
Chi col silenzio, chi con la delazione, chi assumendo compiti di sorveglianza, chi facendo “carriera” nelle squadre per lo svolgimento di servizi speciali: la caccia ai fuggiaschi, i pestaggi, la gestione dei luoghi di reclusione interni.
A differenza delle altre istituzioni totali, a San Patrignano la funzione coercitiva non era esercitata da un apparato professionale composto da soggetti esterni alla comunità, ma dagli stessi reclusi, selezionati per i compiti più delicati in base alla fedeltà al fondatore, all’obbedienza cieca, al curriculum violento. Ruoli non retribuiti da un salario (come le altre funzioni lavorative, del resto), ma gratificati da privilegi, e soprattutto dalla possibilità di esercitare potere.
In quell’universo chiuso, recintato da sbarre materiali e immateriali, fare il kapò era una delle poche forme di ‘mobilità sociale’.
“Tutti i giorni inseguivo tossici che scappavano da San Patrignano. Tutti i giorni ne riportavo. Tutti i giorni ne picchiavo. Tutti i giorni ne rinchiudevo, soprattutto nella cassaforte della pellicceria. Un luogo angusto, senza finestre… Ho passato sette anni a S. Patrignano e il mio compito é sempre stato quello. Non sapevo mai la ragione di una punizione: eseguivo ordini di Muccioli. Bastava che ci dirigessimo verso qualcuno perché il terrore gli si dipingesse sul viso. Muccioli sa come far sentire importanti, soprattutto le menti semplici. Ha scelto me perché ero un cretino. Ho creduto in Muccioli ciecamente”8.

Nel maggio 1989 Roberto Maranzano veniva ucciso da ripetuti pestaggi nella porcilaia della comunità, e buttato a 600 km di distanza in una discarica di Terzigno (NA), per simulare un omicidio di camorra.
In quegli anni la comunità era all’apice della sua potenza. Poteva permettersi di dettare ai legislatori il contenuto del “Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti” (la Iervolino Vassalli), trovando calda accoglienza nel governo Craxi, affascinato dalle politiche di tolleranza zero che Rudy Giuliani stava sperimentando oltre oceano.
La legge rappresentava un salto di qualità nella criminalizzazione dei consumatori di sostanze, e un salto di quantità nell’aumento progressivo della carcerazione di tossicodipendenti e piccoli spacciatori, che ancora adesso costituiscono circa un terzo dei reclusi nelle patrie galere.
Ma soprattutto, formalizzava l’affidamento dei detenuti alle comunità terapeutiche per le pene alternative, e le relative rette portarono nelle casse di SanPa diversi miliardi di lire.
Il fatturato annuo delle attività produttive della comunità viaggiava sui 22 miliardi, e gli ospiti superavano abbondantemente i duemila.
Per la costruzione del proprio ospedale interno, SanPa ricevette quattro miliardi dal Ministro De Lorenzo, ringraziandolo nel 1993 con 600 voti della comunità a favore del partito liberale (l’esposto che denunciava il voto di scambio, ovviamente, cadde nel nulla)9.
Muccioli sembrava intoccabile, e di fatto lo era ancora, se nel pieno svolgimento del processo Maranzano accoglieva, all’inaugurazione dell’ospedale, tre ministri e due sottosegretari.
Ma il suo sistema aveva iniziato lentamente a sgretolarsi, perché quell’omicidio e le infamie raccontate per occultarlo andavano, per molti, oltre il limite di ciò che erano disposti a sopportare.
La gente cominciava a parlare, nonostante la feroce campagna denigratoria e la paura di pesanti ritorsioni.
Cominciava a parlare di un pestaggio nella porcilaia, e delle violenze, delle torture, dei sequestri, dei suicidi, delle rappresaglie, e di centinaia di milioni in banconote diretti verso l’estero.
Da tutta Italia gli ex reclusi si presentarono a Rimini per deporre. Non per la giustizia, ‘ché nessuno ha mai pagato. Ma perché emergesse la verità.
A questa gente gli attuali ospiti della comunità hanno molti motivi di rivolgere, ancor oggi, un pensiero grato.
- Presentazione dell’ASS. dei Familiari e Amici delle vittime di San Patrignano, Radio Radicale, Bellaria, 10 dicembre 1994.
- Tratto da “la mappa perduta“.
- Marzio Fabbri, Nella Comune di S. Patrignano non ti curavano, ti annullavano, La Stampa, 1/11/1980. Riportato nel saggio Oltre la comunità coercitiva, del Gruppo di Studio Michel Foucault.
- Intervento di Stefano Ippolito alla presentazione dell’ASS. dei Familiari e Amici delle vittime di San Patrignano, Radio Radicale, Bellaria, 10 dicembre 1994. Il 13 marzo 1989, il giorno dopo il suicidio di Gabriele Di Paola, Natalia Berla è volata fuori da una finestrella che solo un acrobata avrebbe potuto attraversare agevolmente.
- Edoardo Montolli, La mia infanzia fra gli zombie a San Patrignano, GQ, 3′ giugno 2014. Di Andrea Delogu e Andrea Cedrola si consiglia il romanzo La collina, edito da Fandango nel 2014. Rende molto bene il clima che si respirava nella comunità.
- Testimonianza di Antonella De Stefani nel docufilm di Cosima Spender.
- Riportato in: “La Mappa Perduta. La vera storia di San Patrignano“.
- Testimonianza di Raimondo Crivellin, reo confesso di 500 sequestri. Riportata in: “La Mappa Perduta. La vera storia di San Patrignano“.
- Intervento di Manuela Fabbri alla presentazione dell’ASS. dei Familiari e Amici delle vittime di San Patrignano, Radio Radicale, Bellaria, 10 dicembre 1994.
Questo articolo è uscito anche su Carmilla Letteratura, immaginario e cultura d’opposizione della cui redazione Alexik è una delle firme storiche
Agghiacciante!
Ho avuto diretto coinvolgimento nell’argomento da voi trattato, a causa di familiari
problematiche che,
ancora in corso a distanza di cinquanta anni dagli accadimenti, hanno colpito la mia famiglia … poi disgregatasi!
All’epoca mi consigliarono di interferire con un’educazione correttiva in comunità terapeutiche adibite allo scopo, non contribuii alla soluzione propostami per motivi che ancora adesso ritengo collegati alla mia naturale diffidenza verso tali soluzioni generalizzate che, lucrano nostro malgrado, sulle debolezze umane !
Ho avuto diretto coinvolgimento nell’argomento da voi trattato, a causa di familiari
problematiche che,
ancora in corso a distanza di cinquanta anni dagli accadimenti, hanno colpito la mia famiglia … poi disgregatasi!
All’epoca mi consigliarono di interferire con un’educazione correttiva in comunità terapeutiche adibite allo scopo; non contribuii alla soluzione propostami per motivi che ancora adesso ritengo collegati alla mia naturale diffidenza verso tali soluzioni generalizzate che, lucrano nostro malgrado, sulle debolezze umane !