
di Alain Goussot*
La scuola italiana è stata deprivata della parte più viva e profonda delle sua identità cioè la preparazione e l’azione pedagogica. È stata colonizzata dallo sguardo clinico-diagnostico (leggi anche I rischi di medicalizzazione nella scuola ndr)) e da una concezione puramente procedurale della didattica. Il paradigma clinico-terapeutico e il didatticismo, come procedura standardizzata, sono diventati i due pilastri di una operazione di svuotamento culturale del sistema scuola.
Oggi con il progetto sulla ‘Buona scuola’ si prefigura una scuola senza anima, senza cultura e ingranaggio del meccanismo di riproduzione delle diseguaglianze sociali oltre che di adattamento della formazione ai bisogni del mondo dell economia e dell’impresa. Non si tratta di una scuola aperta alla vita sociale come la immaginavano John Dewey oppure Célestin Freinet, quindi non si tratta più di formare l’uomo e il cittadino, ma di preparare degli individui sufficientemente adatti e flessibili per le esigenze del mercato del lavoro e dei bisogni del nuovo capitalismo imprenditoriale e finanziario. Da questo punto di vista la pedagogia come disciplina che s’interroga sull’educazione e sul suo rapporto stresso con l’istruzione, sul come fare accedere tutti ai sapere e alle conoscenze, non ha importanza, anzi rappresenta un ostacolo per il disegno di una scuola che prepara individui competenti per la concorrenza sul mercato del lavoro precarizzato e frammentato (leggi anche Coltivare la capacità di sognare).

La pedagogia che si chiede il perché dell’educazione, per quale società e quale democrazia, sul come fare del processo di insegnamento/apprendimento un processo autentico di emancipazione umana che garantisca l’eguaglianza delle opportunità di fronte all’istruzione, costituisce un pericolo. Meglio gli specialismi tecnici e clinici di una certa psicologia clinica-comportamentale per formattare e controllare gli elementi pericolosi e considerati come ‘devianti’.

Inoltre una pedagogia che s’interroga sul come appassionare gli alunni più resistenti alla lettura dei grandi autori come Alessandro Manzoni, Giacomo Leopardi, Honoré de Balzac o Lev Tolstoj non sarebbe abbastanza moderna e utile per le esigenze immediate di un mercato del lavoro diventato frammentato e disumanizzante. Leggere quegli autori, partendo dal buon lavoro pedagogico di un insegnante potrebbe fare riflettere gli alunni e le alunne sul mondo di oggi e questo non va bene. La parola d’ordine resta: non pensare ma fare ed essere pronto a fare in modo ‘competente’ senza chiedersi più di tanto il perché delle cose che si fanno (se ne parla anche qui Il pensiero come virtù). In questo senso la riflessione pedagogica rappresenta un pericolo per chi detiene il potere di dominio e manipolazione delle coscienze.
* Alain Goussot è docente di pedagogia speciale presso l’Università di Bologna. Pedagogista, educatore, filosofo e storico, collaboratore di diverse riviste, attento alle problematiche dell’educazione e del suo rapporto con la dimensione etico-politica, privilegia un approccio interdisciplinare (pedagogia, sociologia, antropologia, psicologia e storia). Ha pubblicato: La scuola nella vita. Il pensiero pedagogico di Ovide Decroly (Erickson); Epistemologia, tappe costitutive e metodi della pedagogia speciale (Aracneeditrice); L’approccio transculturale di Georges Devereux (Aracneeditrice); Bambini «stranieri» con bisogni speciali (Aracneeditrice); Pedagogie dell’uguaglianza (Edizioni del Rosone). Il suo ultimo libro è L’Educazione Nuova per una scuola inclusiva (Edizioni del Rosone)
DA LEGGERE
► CHIAMATA DIRETTA DEI PRESIDI AD OBIETTARE Rosaria Gasparro
► ASSEMBLEA NAZIONALE DEL MONDO DELLA SCUOLA
► MATITE SPUNTATE CLAUDIA FANTI
► IL TEMPO DELLA DISOBBEDIENZA VALENTINA GUASTINI
► LA CRISI CULTURALE DELLA SCUOLA ITALIANA ANTONIO VIGILANTE
► 25 IDEE PER UNA SCUOLA DIVERSA PAOLO MOTTANA
Ahimè, in qualsiasi luogo su qualsiasi argomento qualunque sia la posta in gioco (anche quando si tratta della propria vita, della propria salute, della propria terra), il non pensare è già il paradigma più diffuso.
Sì Rosaria, troneggiano la spocchia e l’arroganza, la meschina tutela dei propri interessi, le invidie (forse il peccato capitale più diffuso), la sopraffazione…quei pochi che sanno amare, spogliarsi del proprio io, riflettere sul bene dell’altro/a per darsi senza pretendere, non si contano neppure sulle dita della mano…e questi ultimi ce li dobbiamo tenere stretti, e con essi costruire, non perdendo tempo con tutti gli altri. Io ne ho perso tanto di tempo con gente che più che altro assorbiva e mi usava. Ora sto con chi è modesto, sensibile, sincero, che legge e studia per fare e per pensare a soluzioni per tutti. Si perdono tanti pezzi per strada, pezzi di sé, pezzi delle proprie idee…si arranca un po’, si soffre, ma poi è bello incontrare persone come te e come qualcun altro qui e fuori, qualcuno che mette a disposizione se stesso con le proprie competenze e il cuore nei ruoli e nei luoghi in cui sa di poter dare e fare, non apparire e dominare.