L’interrogativo è abbastanza classico: possiamo immaginare un futuro diverso da quello che prefigura il sistema o, se si preferisce, il modo di vivere che ci domina? Gran parte delle persone che pur manifestano oggi un malessere che si spinge ormai al limite della sopravvivenza pensa che in fondo, in oltre un secolo, non si è trovato nulla di meglio. Oppure, invece, la lotta contro il capitale non è mai stata come oggi lotta per la sopravvivenza del pianeta e di chi lo abita? Sono alcuni dei grandi interrogativi che accompagnano le molteplici crisi contemporanee e paiono segnalare nuove e diverse minacce per il capitalismo stesso, il quale, però, rimane tutt’altro che a guardare. Come in passato, reagisce trasformandosi e riconfigurandosi. Qui si colloca, a parer di molti analisti, la specificità della crisi climatica con l’impossibilità di crescita indeterminata e di sfruttamento senza limiti delle risorse naturali. Il capitalismo riuscirà a cambiare se stesso fino a rendersi compatibile con quel che accade, oppure siamo già in qualcosa di diverso che non sappiamo ancora riconoscere? E possiamo farne a meno? Lara Monticelli, sociologa e ricercatrice alla Copenhagen Business School, studia questi temi e ha fondato la rete di ricerca “Alternatives to Capitalism” per approfondire la ricerca. Nell’interessante intervista realizzata per Idee Sottosopra che ci ha inviato racconta come vede le molteplici crisi contemporanee

Innumerevoli pensatori, attivisti e politici, da un paio di secoli a questa parte, hanno sperato, invocato, paventato la fine del capitalismo descrivendolo come un sistema economico insostenibile e distruttivo. Tuttavia esso sembra godere di ottima salute, come dimostrato dalla resilienza alle crisi cicliche che esso stesso genera. È vero che è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo, come direbbe Mark Fisher?
Camilla Pelosi, dell’associazione culturale milanese “Idee Sottosopra”, ne ha discusso con la ricercatrice e sociologa Lara Monticelli rivolgendole alcune domande essenziali nell’ambito di un ciclo di incontri intitolati “Idee per ripensare il presente e immaginare il futuro” e tenuto a fine 2020. Questo testo è una versione trascritta ed editata di quell’intervista.
Partiamo con una citazione dell’economista italiano Claudio Napoleoni “Il conseguimento dell’autonomia da parte del discorso economico e il suo costituirsi in scienza specifica, corrisponde alla raggiunta autonomia del processo economico nella storia, ad opera del capitale”. Questo significa che l’economia è stata definita come “scienza” solo a seguito dello sviluppo del sistema economico capitalista. Il capitalismo in sé è stato per decenni il “grande assente” dal dibattito, sempre accettato come dato e mai messo in discussione nella sua struttura costitutiva. Tuttavia, a seguito della crisi finanziaria del 2008 prima, e dell’attuale crisi sanitaria poi, questo paradigma totalizzante inizia a essere messo in discussione, tanto che persino il Financial Times ha inaugurato una rubrica che si propone di reinventare “a better form of capitalism”. Il Capitale, la “cosa innominabile” descritta da Deleuze e Guattari, è tornato al centro del dibattito. Ora più che mai, dunque, è fondamentale chiedersi: cos’è il capitalismo?
Innanzitutto, hai ragione quando dici che la crisi finanziaria del 2008, anche grazie alla presenza di movimenti sociali quali Occupy Wall Street negli Stati Uniti e gli Indignados in Spagna, ha fatto spostare l’attenzione dei critici e degli attivisti dal neoliberalismo e dal discorso sulla globalizzazione al capitalismo più in generale. La consapevolezza dell’insostenibilità del sistema economico dominante è diventata mainstream: è stata accettata anche da soggetti molto lontani dall’attivismo e dalla militanza politica radicale. Persino il Financial Times, quotidiano dell’establishment del sistema finanziario e politico, riconosce la necessità di rivedere il sistema economico dominante! Cerchiamo però di fare chiarezza: che cos’è il capitalismo e come viene esso compreso dall’economia politica classica? Il capitalismo viene definito come un sistema economico che si basa su quattro principi fondamentali: i mezzi di produzione sono di proprietà privata, il lavoro viene offerto in cambio di un salario e i lavoratori possono liberamente cambiare occupazione a seconda dell’offerta, l’obiettivo primario è l’accumulazione del capitale, ed infine, il mercato riveste una posizione centrale nei meccanismi di scambio. Beninteso: il mercato non coincide con il sistema capitalista. Non è che uno strumento che permette alla domanda e all’offerta di incontrarsi. Quello che invece è caratterizzante del capitalismo è l’utilizzo della logica di mercato per allocare gli input produttivi e il surplus prodotto.

Aggiungerei alcune precisazioni. Innanzitutto, il capitalismo ha una natura storica e contestuale. Il capitalismo moderno nasce con la rivoluzione industriale del diciannovesimo secolo e i primi poli industriali. In quel momento storico, in Inghilterra, tramite alcune emanazioni legislative, i terreni pubblici vennero privatizzati, stabilendo le cosiddette enclosures, “recinzioni”. Questi terreni erano il mezzo di sostentamento principale dei cottagers, i piccoli proprietari terrieri. A seguito della loro privatizzazione, i contadini e i cottagers si riversarono nelle città, offrendo manodopera a bassissimo costo. Nel frattempo, l’evoluzione tecnologica permise l’invenzione di macchinari alimentati attraverso la combustione di materiali fossili e la formazione di una classe di proprietari terrieri e una borghesia, entrambi proprietari di tale capitale. Questi due elementi costituirono le condizioni perfette per la nascita del capitalismo moderno. Ma questa è solo la storia del capitalismo moderno: alcuni studiosi e studiose, in particolare coloro che mettono al centro i temi della decolonialità e dell’ecologia mondo, ci ricordano che il capitalismo affonda le proprie radici nel 1500 con il colonialismo perpetrato da potenze commerciali come la Spagna e l’Olanda.
Il secondo aspetto è che il capitalismo evolve nel tempo. Possiamo rintracciare delle fasi storiche: il capitalismo del diciannovesimo secolo è quello “del liberalismo”, che sopravvive fino ai due conflitti mondiali; con gli accordi di Bretton Woods ha inizio la fase del capitalismo “di stato”. Per risollevare le sorti dell’Europa e dell’economia mondiale, si decide di cambiare sistema: nasce il Fondo Monetario Internazionale e tutte le monete vengono ancorate al dollaro, a sua volta ancorato all’oro. Questo sistema ha permesso lo sviluppo economico, la creazione di ricchezza, l’innalzamento del livello di educazione; tuttavia, ha prodotto dentro di sé le condizioni per la propria crisi. Arriviamo dunque agli anni Settanta: dopo i movimenti di protesta di studenti e lavoratori del Sessantotto, assistiamo alla formazione dei governi Thatcher, Nixon, Reagan e alla fine degli accordi di Bretton Woods. Si opta per quello che è il sistema che conosciamo tutti e che chiamiamo neoliberismo. Non si tratta solo di un sistema economico, ma di un vero e proprio progetto politico e ideologico dietro al quale siedono illustri economisti, quali Friedrich von Hayek e Milton Friedman, e che, dopo gli anni post-bellici caratterizzati dalla forte presenza dello Stato nell’economia, spingono verso liberalizzazione, privatizzazione, deregolamentazione. Tutto questo, però, sempre utilizzando la cosa pubblica: perché è proprio attraverso la politica che il progetto neoliberista si traduce in realtà. Pensiamo al governo Thatcher e a tutti i provvedimenti legislativi a favore del progetto neoliberista.
Il capitalismo inoltre cambia nello spazio e assume forme diverse anche geograficamente parlando: il capitalismo cinese non si può paragonare a quello europeo e Nord-americano. Un’ultima precisazione fondamentale: il capitalismo, come ci ricordano pensatrici critiche come Nancy Fraser o Rahel Jaeggi, ha una storia di superficie, quella che leggiamo su tutti i libri di storia e economia, e una storia nascosta: la sua esistenza infatti si fonda su economie che sono assolutamente non capitaliste. Ne sono esempi pratici l’economia della cura, il prendersi cura dei bambini, degli anziani e dei malati, e il lavoro domestico, la cosiddetta “riproduzione sociale”, storicamente di competenza femminile. Queste economie “altre” non rispondono alle logiche del sistema capitalista. Le madri non vengono retribuite per il loro lavoro, tuttavia il loro ruolo è fondamentale perché permette l’esistenza materiale della forza lavoro. Un secondo esempio è lo sfruttamento delle risorse naturali: pensiamo alle enclosures di fine diciannovesimo secolo, ma anche a quelle contemporanee. La foresta amazzonica non è proprietà privata, tuttavia le sue risorse vengono sfruttate, “espropriate e sfruttate” come si dice nel linguaggio Marxiano, dalle multinazionali. Un terzo presupposto è la presenza di lavoro non salariato. Nello stesso modo in cui l’economia delle colonie americane si fondava in gran parte sul lavoro forzato degli schiavi, gran parte della produzione odierna in India, Bangladesh, Pakistan è molto vicina a tali livelli di sfruttamento. In conclusione, il capitalismo presenta una resistenza agli shock e alle crisi che viene resa possibile da economie non capitaliste.

Abbiamo detto che il capitalismo di stato portava in sé i germi della propria crisi. Qual è il ruolo della crisi nel sistema di produzione e riproduzione capitalista?
La crisi ha un ruolo fondamentale, tanto che potremmo inserirla tra le caratteristiche costitutive del capitalismo. È proprio con la crisi della Grande Depressione del 1929 e con i due conflitti mondiali che finisce l’epoca del liberismo e inizia quella del capitalismo di stato. Più di recente, gli studiosi Luc Boltanski e Ève Chiapello, parlando del “nuovo spirito del capitalismo”, ci offrono un’interpretazione inusuale del ruolo dei movimenti sociali degli anni Sessanta che si mobilitarono contro lo stato padrone dietro allo slogan “Potere all’immaginazione”. Se ci rifacciamo alla loro teoria, all’interno di queste proteste è nato il seme del neoliberismo, il quale esalta l’individualismo, la creatività dell’imprenditore, l’innovazione, incarnata negli anni Duemila dalla figura di Steve Jobs col il suo motto “Stay hungry, stay foolish”. In sintesi: il capitalismo è un sistema che alterna momenti di stabilità e assestamento a momenti di crisi e rottura e, paradossalmente, sono proprio questi ultimi a permettergli di adattarsi e, in ultima analisi, di sopravvivere. In sintesi, la crisi costituisce la logica e la dialettica che permette al capitalismo di evolvere nel tempo mantenendo – questo è un punto chiave problematico – le sue caratteristiche fondamentali.
Nel 2008 sembrava essere crollato un intero sistema di pensiero e di produzione, letteralmente imploso per effetto delle sue stesse dinamiche interne. La caduta del muro di Berlino nel 1989 ha segnato la fine del mondo sovietico: perché la crisi finanziaria non ha sortito lo stesso effetto sul neoliberismo?
La crisi finanziaria non ha sortito lo stesso effetto del crollo del muro di Berlino nel senso che il neoliberismo è rimasto il sistema economico dominante. La crisi del 2008 però ha fornito spunti importanti per la critica al capitalismo. All’interno del dibattito accademico, per esempio, ha dato origine a una forte protesta contro i principi dell’economia neoclassica, i quali sono ancora dominanti in moltissimi dipartimenti di economia a livello mondiale, soprattutto nel mondo anglosassone. Si tratta di modelli fondati su assunti molto lontani dalla realtà (informazione perfetta tra gli operatori economici, decisioni prese per massimizzare la curva di utilità dell’individuo…), criticati da movimenti di studenti e da economisti: pensiamo a Rethinking Economics o ad altre reti che si sono formate e diffuse dal 2008. Allo stesso tempo, il modello neoclassico è stato lo strumento di legittimazione delle politiche di austerity che ha messo in ginocchio paesi come la Grecia.
Non è chiaro quale forma stia assumendo il capitalismo contemporaneo a seguito di questa ennesima crisi. A mio avviso, è ancora troppo presto per comprenderlo. Sicuramente, il momento storico attuale è caratterizzato da una strana alleanza, come la definisce Nancy Fraser, tra un’agenda politica conservatrice e un’agenda economica con tante anime che oscilla tra aggressivo neoliberismo, ritorno al protezionismo e estrema concentrazione del potere economico in mano a multinazionali e corporation come Amazon e Facebook che monopolizzano e cannibalizzano il mercato. Ci troviamo in una fase ibrida. Yanis Varoufakis ha recentemente utilizzato il termine “tecno-feudalesimo” per descrivere l’ordine economico emergente.
Il capitalismo sembra neutralizzare, inglobandola, ogni possibile critica strutturale che metta in discussione le fondamenta del sistema: emblematica l’uscita di The social dilemma, documentario che si proporrebbe di svelare i perversi meccanismi di manipolazione dei media, proprio su Netflix, l’industria culturale per eccellenza del neoliberismo. Parliamo dunque di piattaforme digitali: costituiscono uno strumento in mano al capitalismo della sorveglianza per istituire nuove forme di controllo, oppure possono rivelarsi terreno fertile per la circolazione libera della conoscenza e per la nascita di una nuova intelligenza collettiva?
Entrambe le alternative sono in gioco. Il dibattito sul capitalismo della sorveglianza, da cui prende il titolo un saggio del 2019 di Shoshana Zuboff, è uno dei più affascinanti degli ultimi tempi. L’autrice descrive come le grandi multinazionali del digitale (Facebook, Amazon, eccetera) sfruttano i dati degli utenti, condivisi dai medesimi più o meno consapevolmente, come prodotti: questi dati sono analizzati e poi rivenduti. I contenuti così prodotti vengono utilizzati per influenzare gli utenti stessi. Il caso di Cambridge Analitica è emblematico: l’azienda inglese recuperava dati dalla rete, in maniera più o meno legale, attraverso tecniche di data mining e profiling per vendere i propri servizi di consulenza a campagne politiche, quali le elezioni americane del 2016 e il referendum sulla Brexit. Allo stesso tempo, però, il capitalismo della sorveglianza crea da sé e in sé i propri dissidenti: sto pensando a Julian Assange, Edward Snowden, Chelsea Manning…Queste persone hanno utilizzato il potere della rete per denunciarne i paradossi e stanno pagando a carissimo prezzo la loro ribellione.
L’altra grande crisi del nostro tempo, in reazione alla quale è stata organizzata questa serie di incontri, è quella ambientale. È possibile costruire un capitalismo sostenibile, o queste due parole utilizzate insieme non sono che una bizzarra antinomia?
Uno dei presupposti del sistema capitalista è quello di funzionare attraverso meccanismi di espansione, crescita, accelerazione. Questo ha portato a una crisi diversa rispetto a quelle sistemiche del passato, tanto che sono stati gli scienziati e non gli economisti ad informarci che siamo entrati in una nuova era geologica, l’Antropocene. Per la prima volta nella storia del nostro pianeta, l’impronta dell’azione umana ne modifica il funzionamento, tanto da mettere a repentaglio la possibilità di vita sulla Terra. È interessante notare come gli stessi studi scientifici permettano di collocare l’inizio dell’Antropocene proprio alla fine del diciannovesimo secolo, quando si sono iniziati a utilizzare combustibili fossili e il capitalismo moderno è venuto alla luce.
Il concetto di Antropocene però ha suscitato un ampio dibattito. I negazionisti del cambiamento climatico lo ritengono una mera costruzione culturale priva di basi scientifiche, benché i dati a sostegno dell’ipotesi del cambiamento climatico siano sempre di più: di recente, alcuni scienziati di Stanford hanno dimostrato che dal 1900 al 2015 abbiamo perso il 50% di varietà di animali vertebrati sul pianeta. D’altra parte, la definizione di “Antropocene” non è del tutto soddisfacente perché essa sembra suggerire che sia l’intero genere umano, anthropos in greco, a generare la catastrofe ambientale che stiamo vivendo. L’economista Jason Moore e lo storico Andreas Malm hanno suggerito un’altra parola, Capitalocene, che ci permette di descrivere in maniera più precisa il fatto che sia il sistema capitalista ad aver causato l’inizio di una nuova era geologica, in quanto basato sullo sfruttamento incontrollato delle risorse naturali. La dominazione dell’uomo sulla natura non è esercitata da tutti gli esseri umani o in tutti i luoghi del mondo nello stesso modo, ma deve essere compresa nell’ottica delle disuguaglianze e dei rapporti di dipendenza e dominazione odierni. La nuova frontiera del dominio dell’uomo sulla natura coincide con l’avvento della biologia sintetica, in cui addirittura si superano le leggi di Darwin: nuove forme di vita possono essere create in laboratorio sulla base di un’idea e non sulla base di un antenato biologico. La storia del capitalismo, in altre parole, si fonda sulla dicotomia “uomo versus natura”.

Se di capitalismo si è tornato a parlare, la pars construens dello sviluppo di un’alternativa sembra ancora lontana. C’è vita oltre al capitalismo? Se sì, in che forma?
La crisi finanziaria del 2007-2008, ha portato alla ribalta l’utilizzo di termini quali utopia, possibilità, speranza. Su questa scia, alcuni teorici del capitalismo, tra i quali il compianto Erik Olin Wright, hanno individuato diverse strategie volte a costruire un’alternativa concreta allo status quo. La prima è quella di una rottura violenta rispetto al sistema, vedi le rivoluzioni del secolo scorso, le quali però non hanno sortito gli effetti desiderati a lungo termine e le cui modalità di attuazione sono impensabili nel mondo di oggi. La seconda è quella di regolamentare il capitalismo nel tentativo di domarlo, principio al quale si ispirano le socialdemocrazie contemporanee. Una terza strategia è la fuga dal capitalismo, sebbene si possa discutere su quanto sia effettivamente possibile distaccarsi da un sistema penetrante e pervasivo come quello capitalista. Ci sono esperienze significative, come quella dei movimenti delle donne in Rojava, che stanno creando società ed economie alternative. Infine, una quarta possibilità è quella dell’erosione dall’interno del sistema dominante, un’erosione lenta ma continua, quasi carsica potremmo dire, partendo dal presupposto che tutti i sistemi economici sono sistemi ibridi, e dunque non esiste un’economia puramente capitalista, ma come abbiamo detto, co-esistono diverse economie parallele. Questo è definito cambiamento interstiziale e si basa sull’idea che il sistema possa essere modificato attraverso la diffusione, al suo interno, di iniziative che si basano su principi di democrazia, uguaglianza, redistribuzione, partecipazione. Ecco che si parla di “utopie reali”. Gli esempi sono numerosi, soprattutto dopo la crisi finanziaria: possiamo citare la rete delle “Transition Towns”, le reti di economia sociale e solidale, gli spazi digitali aperti e partecipativi quali Wikipedia, le forme di lavoro cooperative, le comunità intenzionali e gli eco-villaggi, le esperienze di bilanci pubblici partecipativi utilizzati in città come Amsterdam. Tutti questi esempi possono essere definiti come “prefigurativi”. Il termine deriva dal latino “prae-figurare” e letteralmente significa immaginare qualcosa che verrà nel futuro. Di fatto, questi esperimenti sono prove di futuro, del tipo di società che vorremmo vedere in un futuro prossimo. La direzione verso la quale si sta muovendo la teoria sociale, ma anche gli stessi movimenti, è quella che vede come complementari e non mutualmente esclusivi questi esperimenti dal basso con strategie più classiche (strategie contro-egemoniche, per dirla con Gramsci). Alcuni degli esponenti politici più progressisti tra cui Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortes negli Stati Uniti e Jeremy Corbyn nel Regno Unito hanno creato e promosso agende politiche radicali atte a conciliare e incoraggiare il sodalizio tra movimenti sociali dal basso e politica rappresentativa.
Se dovessimo stilare le caratteristiche che fanno di un movimento un movimento prefigurativo, quali sarebbero?
Innanzitutto, il focus deve essere sull’azione, più che sulla protesta. Poi, deve esserci un forte spirito di sperimentazione, che spesso nasce a livello locale ma diventa interconnesso globalmente attraverso reti online o offline, o di organizzazione no-profit. Si parte dal locale, si finisce nel transnazionale. Infine, i movimenti prefigurativi si distaccano dall’assioma secondo cui bisogna seguire ad ogni costo le regole della democrazia rappresentativa e presentano una forte spinta di autonomia rispetto allo stato, sempre però in maniera complementare alle strategie organizzate dai partiti politici.
L’evidenza empirica sembra scongiurare la necessità di una critica radicale dello status quo: di fatto, il capitalismo ha aperto, almeno in parte, uno spiraglio di dialogo nei confronti delle “lotte di confine” come le chiama Nancy Fraser, prendendo atto della necessità di agire per arginare la catastrofe climatica. Come dobbiamo rapportarci a questo “volto umano” del capitalismo?
Mi fai pensare alla senatrice americana Elizabeth Warren, che ha proposto di introdurre una legge chiamata “accountable capitalism”. Questa proposta consiste nel creare dei meccanismi per includere nei processi decisionali delle grandi multinazionali non solo gli azionisti, chiamati in inglese “shareholders”, ma tutti gli “stakeholders”, ovvero i portatori di interesse che più o meno direttamente vengono coinvolti dall’attività dell’azienda: questi possono includere la comunità locale che circonda l’azienda, le famiglie dei lavoratori, l’ambiente naturale circostante. Alcuni think-tanks, inoltre, propongono nuovi strumenti per misurare la performance delle aziende non solo in termini finanziari ma anche in termini di impatto ambientale e sociale. In altre parole, si stanno cercando di creare indicatori complementari a quelli tradizionalmente utilizzati. Penso tuttavia che siamo ancora ben lontani dalla creazione di una nuova teoria del valore capitalista.
Altro nuovo progetto in tal senso è l’“Embankment project for inclusive capitalism” di cui fanno parte grandi banche e società di consulenza. Il progetto si propone di creare nuove metriche per presentare a investitori e stakeholders la creazione di valore a lungo termine: non solo i dividendi, ma anche il valore positivo per la società nel suo complesso. C’è già chi parla di una nuova fase del capitalismo, “dal volto umano”: “conscious” o “woke” capitalism, un capitalismo risvegliato. Io la prendo con cauto pessimismo. Come dicevamo prima, siamo di fronte ad una crisi del capitalismo alla quale il capitalismo stesso fa fronte e reagisce trasformandosi e adattandosi. È una strategia di sopravvivenza. Tuttavia, questa crisi, la crisi climatica, è diversa dalle altre perché va a minacciare i presupposti della sua stessa esistenza, ovvero la possibilità di crescita indeterminata e di sfruttamento senza limiti delle risorse naturali.

Per immaginare un futuro oltre al capitalismo entra in gioco un altro elemento imprescindibile nella costruzione dell’alternativa: l’utopia. Di che cosa si tratta?
Utopia è un termine coniato nel 1516 da Tommaso Moro. È una parola che viene dal greco e si presta a una doppia interpretazione: “eu-topos”, luogo positivo, oppure “u-topos”, luogo che non esiste. Il significato della parola stessa non è chiaro. Tommaso Moro la definisce come un’isola raggiungibile solo via mare. Le utopie reali di cui parliamo, invece, sono sempre più interconnesse: non sono isole, sono reti.
Spunti di lettura:
- Boltanski, Luc e Chiappello, Ève (2014). Il nuovo spirito del capitalismo. Mimesis.
- Fraser, Nancy (2019). Capitalismo. Una conversazione con Rahel Jaeggi. Meltemi Editore.
- Meiksins Wood, Ellen (2017). The Origins of Capitalism. A longer view. Verso.
- Moore, Jason (2017). Antropocene o Capitalocene? Ombre Corte.
- Wright, Erik Olin (2019). How to Be An Anti-Capitalist in the 21st Century. Verso.
- Zuboff, Shoshana (2019). Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri. Luiss University Press.
Biografia
Lara Monticelli insegna sociologia economica e politica presso la Copenhagen Business School. I suoi interessi di ricerca si focalizzano sulle teorie del capitalismo contemporaneo, le sue crisi e le sue possibili alternative. Nel 2017 ha fondato la rete di ricerca “Alternatives to Capitalism” che mette in contatto ricercatori di tutto il mondo interessati all’analisi di queste tematiche. Al momento sta lavorando ad una curatela sul concetto di prefigurazione e ad un progetto di ricerca sulle comunità intenzionali intese come spazi di sperimentazione e ri-politicizzazione della vita quotidiana.
Davvero chiaro. Dove posso trovare altri scritti suoi?
paolo
Buongiorno Paolo. Grazie. Possiamo sentirci via email. Sarò felice di inviarle del materiale. La mia email istituzionale è: