Stralci di un’intervista pubblicata da Z Net Italy.
David Harvey è uno dei principali teorici del marxismo del mondo. Ha discusso i temi del suo nuovo libro, Rebel Cities: From the Right to the City to Urban Revolution [Città ribelli: dal diritto alla città, alla rivoluzione urbana] con i curatori del sito New Left Project: John Brissenden ed Ed Lewis.
(…)
Sappiamo che, all’interno del capitalismo cittadino ci sono forti forze di compensazione, e mi interesserebbe chiederle come possiamo impegnarci a superare quella logica.
Per esempio, il movimento Occupy di New York City ha provocato una reazione della polizia molto, molto violenta e davvero esagerata. Basta andare nelle strade e dimostrare, e ci si trova circondati da 5000 agenti di polizia, anche molto aggressivi. Cerco di chiedermi: perché? Mentre quando la squadra dei Giants ha vinto il Superbowl, la gente è uscita fuori e ha fatto esattamente la stessa cosa, in realtà anche di peggio di quanto è accaduto con Occupy, e la polizia non ha fatto nulla. “Oh, stanno soltanto festeggiando”, si diceva, ma Occupy, a causa del suo significato politico, provoca questa durissima reazione. E se ci si chiede il perché, ho la sensazione che la gente di Wall Street abbia molta paura che questo movimento cominci davvero a prendere piede e se succederà, ci saranno naturalmente richieste di responsabilità per tante cose accadute a Wall Street e la gente di Wall Street sa quello che ha fatto e sa che se sarà ritenuta responsabile, probabilmente finirà in carcere. Penso, quindi, molto semplicemente, che abbiano detto al sindaco e a tutti gli altri: “Reprimete questo movimento prima che si diffonda molto. Isolatelo, fatelo sembrare molto violento”, ecc. Si ottiene quindi questo tipo di reazione politica (…) L’anno scorso sono stato sempre via, e quindi non mi trovavo a New York durante il periodo di maggiore attività del movimento Occupy negli Stati Uniti, ma una delle cose che hanno ottenuto è stata di attirare grande attenzione sul problema della qualità sociale, e grande attenzione sugli enormi indennità e vediamo che ora questo sta trapelando. Prima della loro occupazione, nessuno di questi problemi veniva discusso. Ora il Partito Democratico negli Stati Uniti, e perfino Obama, sono disponibili a parlare della disuguaglianza sociale come un problema. (…)
(…) Ci può parlare quindi, del modo in cui lei ri-concepisce il soggetto rivoluzionario, chi potrebbe costituirlo ora, e in che modo esso è collegato alle città e all’identità urbana?
Per trattare di questo, mi faccio la domanda: chi è che produce e riproduce la vita urbana? Se dite che questo è il tipo di produzione al quale guardiamo, allora vi trovate a definire il proletariato in modo completamente diverso che se voi semplicemente vi atteneste all’idea di lavoro in fabbrica. Questa quindi è l’idea fondamentale, e poi chiedete: quali forme di organizzazione sono possibili in quelle comunità? Esattamente perché essi non sono in fabbrica, sono così difficili da organizzare. Per esempio, i lavoratori addetti alle consegne , tutti i camion che sono in circolazione: come si possono organizzare tutti i lavoratori addetti alle consegne? Negli Stati Uniti i Teamsters (un sindacato americano di lavoratori, n.d.T.), hanno lavorato un po’ in questo campo. O i tassisti, per esempio: è possibile organizzarli? Attualmente abbiamo un’organizzazione molto interessante di tassisti a New York City e un’altra a Los Angeles. Dal punto di vista politico, non possono essere un sindacato nel senso comune del termine, devono diventare una forma diversa di organizzazione. I lavoratori domestici: anche in questo caso, si trova una buona organizzazione di lavoratori domestici a New York City e in tutti gli Stati Uniti, e questo, proprio adesso, è un grosso problema. Quello per cui lottavano e che hanno finalmente ottenuto, è che lo Stato di New York ha approvato una specie di carta dei diritti dei lavoratori domestici, che inizia a spiegare con precisione quante ore di lavoro devono prevedere, e tenta di codificarla. Anche in questo caso è molto difficile organizzare i lavoratori domestici e particolarmente, se sono illegali diventa ancora più difficile. Essi però sono ora una forza lavoro importantissima in molte città. Voglio anche dire che tutte queste forme di lavoro che ci sono in città, sembra siano fondamentali per riprodurre la vita urbana, e quindi dovremmo iniziare a pensare al modo di organizzare politicamente questa forza lavoro in modo che possa iniziare a esercitare un certo potere sulla qualità e la natura della vita urbana. Questa è l’idea generale. Parte di questa forza lavoro è molto difficile da organizzare, altri sono in realtà organizzati molto solidamente, ma spesso ci vuole un tipo di organizzazione diverso dal sindacato convenzionale. Penso che, storicamente, la sinistra abbia esercitato sempre una specie di divisione tra quelle che si potrebbero chiamare organizzazioni dei lavoratori e organizzazioni basate sulla classe sociale, e i movimenti sociali. Sono stato assediato in difficoltà negli scorsi 30 0 40 anni, a dire: in realtà dovete considerare questi movimenti sociali come movimenti di classe, forse di un tipo diverso rispetto a quelli che ci sono nelle fabbriche e nei campi, ma sono movimenti di classe. Penso che ci sia stata una riluttanza ad accettare questa idea in molti settori della sinistra. (…)
(…) Lei ha indagato su un’intera gamma di movimenti diversi nel mondo in tempi diversi. Ci sono delle lezioni particolari che emergono da alcune di queste indagini che lei pensa si dovrebbero generalizzare?
La maggior parte dei gruppi di questo genere si organizzano come organizzazioni per i diritti. Certamente, sotto questa ombrello, possono creare una forma organizzativa, e come organizzazione per i diritti non sono limitati nel modo in cui lo sono i sindacati convenzionali. Una delle cose che ho sperimentato a Baltimora è stata che il movimento sindacale convenzionale poteva essere piuttosto ostile a queste organizzazioni per i diritti. Il movimento sindacale convenzionale era un po’diviso, talvolta li appoggiavano, ma la maggior parte delle volte consideravano queste forme di organizzazione come una sfida e una minaccia nei loro confronti. Ora, però, penso che il movimento sindacale convenzionale si prepara a pensare che queste organizzazioni fondamentali per appoggiare i sindacati, e quindi c’è più di una coalizione che comincia a crearsi tra queste organizzazioni per i diritti e il movimento sindacale convenzionale. Lo abbiamo visto molto alla dimostrazione che si è tenuta il Primo Maggio a New York, dove alcune persone del sindacato convenzionale hanno partecipato a quella marcia e insieme alla gente dei movimenti sociali. Comincia, quindi, a emergere una coalizione. Io sono molto favorevole a una forma diversa di organizzazione sindacale, che è geografica piuttosto che per settori. Penso che i sindacati convenzionali dovrebbero prestare maggiore attenzione ai consigli commerciali locali e a unità di consigli comunali e una delle conseguenze di questo è che, dato che i sindacati tendono a essere attratti dalla filosofia del badare soltanto al benessere dei loro membri, un’organizzazione geografica deve pensare al proletariato in generale, nella città, invece che semplicemente ai suoi singoli membri. (…)
(…) Lei pensa che la città è un sito particolarmente potente per l’organizzazione, e se potessimo organizzare l’intera città, allora, presumibilmente, saremmo ora in una posizione davvero potente. Perché lei pensa che le città sono così importanti?
Il motivo per cui mi piace pensare alla città è che questa è su una scala più grande della fabbrica. Se, quindi, si guarda alle fabbriche recuperate in Argentina delle quali gli operai hanno preso il controllo nel 2001-2002, una delle difficoltà delle cooperative che venivano create e delle associazioni di operai che le gestivano, era che a un certo punto, dato che sono inserite in un mondo capitalista, si trovano coinvolte in una situazione di competitività e il risultato di questo è che si impegnano in iniziative di auto-sfruttamento. Marx ha scritto una serie molto interessante di brani dove dice che il primo passo verso la trasformazione in senso rivoluzionario è di fatto quando i lavoratori prendono il controllo dei mezzi di produzione, ma se si rimane a quel livello, non basterà. Se si pensa di organizzare un’intera città, e ora si vede che questo comincia a iniziare un po’ in Argentina, dato che le fabbriche hanno bisogni di merci, sapete, se si confezionano delle camicie, si ha bisogno di stoffa. Da dove arriva la stoffa? Ebbene, si comincia ad avere una rete. C’è quindi una rete di cooperative che produco articoli diversi che sono tutti collegati tra di loro. Potete immaginare, che in un’area metropolitana, potreste cominciare ad avere economie di interconnessioni di questo tipo, che vi porterebbero poi semplicemente oltre ciò che è possibile, se si rileva una particolare fabbrica. L’altro fatto riguardo alle fabbriche in Argentina è molto interessante: quando sono state rilevate, non sono rimaste soltanto fabbriche. Sono diventate centri per il quartiere e in effetti hanno integrato il rione circostante nella vita della fabbrica, in modo che hanno pianificato programmi educativi, programmi culturali, e quindi quando i capi sono tornati, cinque anni dopo, e hanno detto: “Rivogliamo la nostra fabbrica, o porteremo via i macchinari”, la popolazione si è presentata li ha fermati. Questo ha reso più facile difendere la fabbrica. Naturalmente, se si cerca di creare una città comunista totale in un ambito capitalista, si rischia di suscitare una repressione reale e violenta; ci sarà una situazione come quella che si vede in Siria, in un posto come Homs dove ovviamente esiste un movimento di opposizione che è molto forte in quella città che in un certo senso è una città ribelle, circondata dai militari e annientata, dove la gente è stata sottomessa e uccisa. Penso quindi che ci sia il pericolo reale di andare troppo oltre e troppo in fretta. E quindi a questo punto si osserva e ci si chiede quanto possa andare lontano una particolare città con questa forma di organizzazione. Se ne vedono esempi, per esempio a Porto Alegre (Brasile): quando questa città ha stabilito la sua pianificazione di bilancio partecipativo, questa forma ha preso piede e ora la pianificazione di bilancio partecipativo esiste in molte città in tutto il mondo. Non è un’ iniziativa rivoluzionaria, ma soltanto una cosa che porta un cambiamento e che aumenta la democrazia urbana. Credo che quella mossa diventi significativa. Ci sono altre innovazioni nel campo dell’ambiente: c’è un’altra città in Brasile che è molto interessante, Curitiba (FOTO), che ha davvero lavorato riguardo ai problemi dell’ambiente ed è diventata piuttosto nota per aver organizzato sistemi di trasporti collettivi seguendo linee ambientaliste sofisticate. E anche in questo caso le innovazioni che arrivano da Curitiba, si stanno diffondendo in altre città. Penso che dovremmo guardare alle stesse cose in termini di coesione sociale e di altri problemi, in cui le azioni che dovrebbero essere portate avanti in una città per sviluppare una cittadinanza più consapevole politicamente e più attivamente impegnata, comincino a estendersi ad altri luoghi. Si potrebbe immaginare una situazione del genere in base a quella che io chiamo la teoria della termite della trasformazione: questa città ha ora una struttura istituzionale diversa, quell’altra ce l’ha, ecc. e quindi si comincia a considerare questo come un qualche cosa che procede attraverso la rete della città (…). Esiste una varietà di strategie che sono adatte a una varietà di situazioni e di scopi, e che non dovremmo chiuderci nell’idea : “questa è l’unica strategia che funzionerà”. Dovremmo adottarne una varietà, qualunque sia possibile. In alcune casi non c’è scelta tranne che impegnarsi in una politica da termite, nel qual caso talvolta si possono fare cose molto positive (…).
Voglio ritornare sull’argomento che lei aveva toccato: la scelta di una pluralità di strategie, che aveva messo in relazione con una varietà di forme organizzative….
…C’è quello che nel mio libro chiamo una specie di feticismo rispetto alla forma di organizzazione, e questo è stato un altro male nelle forme di centralismo democratico dell’organizzazione, nei partiti leninisti e comunisti. Penso che la domanda per me sia: che tipo di organizzazione è in grado di confrontarsi e di trattare quel tipo di problema, in che misura? E penso che l’orizzontalità può funzionare per certi problemi di una certa portata, ma presto esaurisce le possibilità. Viviamo in un mondo dove ci sono in giro un sacco di sistemi strettamente connessi l’uno con l’altro, in modo tale che bisogna disporre e controllare immediatamente le strutture per poi occuparsene. Per esempio, una centrale nucleare è un sistema strettamente collegato. Quando qualche cosa si guasta, bisogna reagire immediatamente perché interesserà tutto il resto dell’impianto e ci sarà un’esplosione. L’università non è un sistema strettamente connesso. Se qualche cosa va male, per esempio qualcuno non si presenta a fare lezione, non importa. L’università sopravvive perfettamente. Invece nei sistemi strettamente connessi bisogna prendere decisioni rapide.
Dico quindi a tutti gli orizzontalisti: volete organizzare il controllo del traffico aereo su principi orizzontalisti? Volete tenere assemblee di continuo nella torre di controllo del traffico aereo? Funzionerebbe? Come vi sentireste se foste a metà di un volo sull’Atlantico e improvvisamente vi dicessero: “Veramente i controllori del traffico aereo sono andati in assemblea e ci faranno sapere domani che cosa faranno”? Ci sono molte cose del genere che hanno bisogno di un tipo diverso di forma organizzativa, e penso che sia positivo che la gente parli dell’orizzontalità, ma che non vada bene che dicano che le cose devono essere orizzontali e basta.
Credo che provenga almeno da un semi-anarchismo e da un profondo sospetto di qualsiasi forma di autorità. Fondamentalmente lei dice che, per essere anarchico, per essere estremista, per essere anti-capitalista, ha ancora bisogno di riconoscere che delle volte l’autorità ha un suo ruolo?
Sì, naturalmente. Penso che l’autorità abbia il suo ruolo. Il problema che quindi si pone, e che è molto importante, è: come si ritiene che l’autorità sia responsabile? Quali sono i meccanismi del richiamo e quali sono i meccanismi di controllo, perché una struttura gerarchica può diventare davvero del tipo che parte dall’alto e quindi autoritaria. C’è però una grossa differenza tra l’autoritarismo e l’autorità. Penso che in certi momenti c’è bisogno di qualcuno che abbia l’autorità. L’esempio famoso che tanta gente cita era quello degli Zapatisti. Gli Zapataisti, però, dal punto di vista militare, non sono orizzontali. L’unico motivo del fatto che sono sopravvissuti è proprio che se si cerca e di immischiarsi con loro in campo militare, essi hanno ottime strutture di comando e di controllo per mezzo delle quali di fatto possono resistere. Se non si hanno queste, si è molto vulnerabili. (…)
Nel suo libro lei parla di Murray Bookchin e del suo approccio come forse un modo per uscire da questo problema…
Dato che sono un geografo, l’estremismo tradizionale in geografia è stato sempre di tipo anarchico, e gli anarchici hanno da lungo tempo la fama, soprattutto gli anarchici sociali, di essere più interessati ai problemi ambientali e della città rispetto a quanto lo siano mai stati i Marxisti … E naturalmente hanno esercitato molta influenza negli anni sulle procedure e di pianificazione e sotto altri aspetti; ci sono personaggi come Lewis Mumford che provengono da quella tradizione che penso abbiano avuto grande influenza, anche su di me, ovviamente. E Bookchin continua quella tradizione, e quindi mi interessano i suoi saggi sul municipalismo libertario, nei quali parla delle forme orizzontali di organizzazione che vengono decentralizzate, ma poi parla della confederazione delle assemblee regionali, che possono rivolgersi alle necessità della bioregione, invece che alle necessità della particolare comunità, o comunque vogliate chiamarla.
Quindi Bookchin era molto disponibile a pensare a una struttura gerarchica di qualche tipo, e poi a cercare di parlare del modo in cui i poteri erano assegnati e che cosa dovevano riguardare. Usava un piccolo trucco usato da Saint-Simon; i livelli superiori dovrebbero riguardare la gestione delle cose e non delle persone. Dovrebbero preoccuparsi, per esempio, della gestione della fornitura dell’acqua o dello smaltimento delle acque nere dell’intera regione, ma non gestire le attività della gente. E’ una linea di demarcazione difficile rispetto alle politiche reali, ma penso che l’idea sia interessante. Trovo, quindi, molto interessanti le idee di Bookchin.
Sono stato a una riunione a New York un paio di settimane fa con David Graeber, e nella discussione è capitato di parlare di Murray Bookchin. Abbiamo saputo che la figlia di Murray Bookchin era presente tra il pubblico e alla fine abbiamo parlato con lei dell’idea di fare una scelta di alcuni degli scritti di Bookchin relativi a questo argomento e di pubblicarli tutti in un libretto. Penso che sia un momento molto opportuno per reintrodurre la tradizione anarchica che è preparata per parlare di alcuni di questi problemi più ampi…
La sua opinione sembra essere che in definitiva si ha bisogno di uno stato, e sembra che lei pensi che Bookchin in definitiva lo accetti ma non possa ammetterlo.
Sì. Se sembra uno stato, e dà la sensazione di stato e fa qua qua come uno stato, allora è uno stato. Ho potuto vedere che esiste qualche cosa che si potrebbe chiamare stato capitalista, che si vorrebbe fare a pezzi per poi liberarsene, ma c’è una certa forma di organizzazione che tratterà dei rapporti tra assemblee diverse e gruppi diversi. E su una base mondiale, a un certo momento si deve anche pensare a certi problemi, come, per esempio, il riscaldamento globale, che dovrebbero essere trattati e compresi a livello globale, e perciò certe idee su che cosa fare rispetto a che cosa, dovrebbero provenire da interessi globali.
Questo si riferisce a qualche cosa di cui ci parlava prima, sull’organizzazione geografica. C’è una distinzione, o forse un’opposizione, tra urbano e non-urbano.
Un sacco di gente mi fa questa domanda. Dicono: “La città in realtà non esiste più, perché quindi lei parla del diritto a un qualche cosa che non esiste realmente?”… La mia risposta a queste domande è che noi, in effetti, negli ultimi 50 anni siamo diventati un mondo che si va completamente urbanizzando e quello che poteva essere stato vero in un certo momento, cioè che c’era una vita di città, e poi una vita contadina che era in gran parte autosufficiente, indipendente ecc., – è in gran parte scomparso. Quello che si vede ora è un continuum dai campi fino dentro la città, quindi entrambe le realtà diventano sistematicamente intersecate l’una con altra; la mia osservazione riguarda molte parti del mondo, l’America Latina, per esempio: se ci si trova fuori, in zone rurali, si vede che la gente guarda la stessa televisione, e guida le stesse macchine: è quello che chiamo lo sviluppo geografico all’interno di un processo irregolare di urbanizzazione. E da quel punto di vista si dice che le differenze all’interno della città sono importanti quanto quelle che esistono tra la città e i sobborghi, e tra i sobborghi e le aree intorno alla città. Quindi ci sono tante differenziazioni all’interno del processo di urbanizzazione e quindi la differenza tra zone dove le persone hanno un alto reddito e i quartieri degradati poveri è altrettanto drammatica, in realtà in vari modi più drammatica, di quella che c’è tra la città e le zone fuori città. Ci sono ora delle forme di organizzazione che riflettono quanto ho detto: se guardate al movimento brasiliano dei contadini senza terra, esso è molto consapevole dei suoi rapporti con la città. Non si considera come se fosse fuori in un mondo autonomo, si considera come parte di questo processo generale di urbanizzazione. Questo è il modo in cui vorrei considerare questo, il che vuol dire che è molto importante organizzarsi attraverso tutti questi elementi. Ora ci sono in corso dei tentativi in alcuni posti, per organizzare una catena alimentare in città, che prevede di iniziare nei campi e poi fare il percorso in vari stadi, fino alla fine – cioè, dall’inizio fino al supermercato – e penso che sia un’idea molto interessante. A El Alto, che è uno dei miei esempi preferiti, l’interconnessione tra la gente che vive in città e quella che vive fuori, è fortissima ed è stata rafforzata negli scorsi 10 o 15 anni grazie all’agri-business e al modo in cui la campagna è stata trasformata in un paesaggio capitalista.
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