di Alessandro Pertosa*
Potremo cominciare a ragionare sulla morte partendo da una domanda: la morte è vita o la presenza dell’una esclude l’altra?
Il dato filosofico e sociologico che si riscontra nella contemporaneità è inequivocabile! Gli occidentali tacciono la morte quasi fosse qualcosa che non li riguarda o un’epidemia infettiva da cui fuggire. Per questo motivo il tempo del morire viene spinto ai margini della vita e – sempre più medicalizzato, allontanato dal quotidiano, bandito – non abita più il luogo familiare, né tanto meno l’ambito degli affetti. Lo stesso destino discriminatorio è riservato a chi, corroso da patologie gravi o invalidanti, non è più in grado di badare a se stesso. L’ammalato cronico diventa così l’emblema del dis-umano perché non è più utile, è improduttivo e la sua sopravvivenza necessita di attenzioni e cure continue. Gli altri, invece, gli «uomini integri», lavorano e producono con profitto senza perdere tempo, ch’è denaro, e non possono star dietro a chi non è capace di funzionare da solo o di badare a se stesso. E così, per semplificare l’esistenza ai componenti «sani» della famiglia, che devono lavorare per massimizzare la resa, il paziente viene affidato alla (sottomesso dalla) istituzione sanitaria; su di lui cade l’oblio, perché è bene che i bambini non vedano, che i figli non soffrano, che i nipoti non sappiano quanto sia scandalosa, fastidiosa e oscena la malattia, soprattutto se cronica e inguaribile. Ma non c’è da preoccuparsi, dicono i paladini della medicalizzazione istituzionalizzata, perché lo sventurato è in buone mani, e lo Stato provvederà a tutto, con buona pace di chi vorrebbe invece ricevere una carezza amica e decidere in piena autonomia se sottoporsi o meno al regime sanitario imposto dall’ordine costituito.
La specializzazione del progresso scientifico ha di fatto comportato l’espansione del dominio tecnico sul corpo debole di chi a quella tecnica, volente o nolente, si affida totalmente. Il messaggio è chiaro: l’ammalato vive meglio solo se, previa medicalizzazione, si sottomette alle conoscenze tecniche dell’operatore sanitario, che gli somministra farmaci di sintesi all’avanguardia, gli unici in grado di controllare la sua complessa patologia e capaci di dominare il dolore. Tuttavia se il corso degli eventi fosse contrario alle aspettative e, nonostante la promessa faustiana, se la prognosi risultasse infausta, il malato continuerebbe la sua via crucis sottomesso al potere igienizzante dello Stato. Di tornare a casa, nemmeno a parlarne. Per il moribondo, infatti, in attesa della «risoluzione naturale degli eventi» (che eleganza stilistica!), si profila un trattamento farmacologico sperimentale ospedalizzato, perché è ormai invalsa l’idea che il corretto adempimento del protocollo terapico possa avvenire soltanto negli ambiti grigi e freddi di un nosocomio.
Il trattamento igienico-sanitario, ovvero l’ossessione medicale per le patologie incurabili, costringe dunque il moribondo, nel momento di maggiore malessere psicofisico, a subire un dominio pervasivo sul suo corpo senza poter scorgere lo sguardo di un volto caro, o avvertire magari il calore umano di un amico, di un familiare. Sì che disteso nel suo letto d’ospedale, con gli aghi nelle vene che entrano ed escono come spade al sapor di veleno, l’agonizzante resta letteralmente in balia dell’istituzione sanitaria, per la quale egli è un numero statistico, un esperimento in vivo utile alla redazione dell’imminente pubblicazione scientifica, che tanta gloria (e con la gloria il potere) riserverà al suo estensore. Lo sventurato, a quel punto, si sente addirittura investito di una missione umanitaria e non ha il coraggio di tirarsi indietro. La somministrazione dell’ennesima cura sperimentale, infatti, potrà dare risultati positivi in futuro – questo almeno gli dicono –, e se non sarà lui a beneficiare del miracolo terapeutico, qualcun altro o l’umanità dell’avvenire, per intenderci quella che anela all’immortalità terrena, gli sarà grato. E quindi, recluso in un ambiente sconosciuto, il moribondo «martire» non incontra altri volti oltre a quelli dei medici e degli infermieri che parlano una lingua incomprensibile e capziosa, in un vano intento consolatorio.
Ma questa è solo una foto istantanea della realtà. C’è di più, e di peggio. Perché restano ancora oscuri i motivi profondi che conducono l’uomo occidentale contemporaneo a concepire la morte come res oscena. Sia chiaro, da che mondo è mondo il viator, ovvero l’uomo che vive il tempo terreno, non ha mai gioito particolarmente al pensiero di dover lasciare la terra per qualcosa d’ignoto, tanto che storicamente tutte le civiltà passate si sono poste il problema della morte, ma hanno almeno cercato di considerarla come un fatto naturale, senza bandirla dall’immaginario collettivo. Gli antichi metabolizzavano il lutto con rituali e teorie filosofiche consolatorie, o presunte tali, che riconducevano la morte in un ambito naturale e fatale. La reincarnazione e la metempsicosi, per esempio, mettevano i greci nelle condizioni di poter alludere a una possibile persistenza terrena o ultraterrena. Gli egizi si facevano seppellire con gli oggetti più cari che avrebbero usato in un’altra vita, possibile, però, a patto che il defunto disponesse di una tomba e il corpo si mantenesse pressoché intatto. Nel medioevo cristiano, sostanzialmente, non cambia granché. La speranza nella Resurrezione forniva al credente la forza adeguata a superare l’oscenità della morte. Per comprendere meglio i concetti cui mi riferisco, basta pensare alla morte dei cavalieri descritta nella chanson de geste o nei più significativi romanzi medievali. Questa è l’epoca della cosiddetta evidenza di fede, la morte viene addomesticata, nel senso che assume connotazioni familiari, domestiche. Cresce anche l’attenzione verso il tempo del morire; ci si prepara a morire meglio, perché solo chi si dispone in modo adeguato e con il cuore puro dinanzi a Dio può sperare nella resurrezione del corpo glorioso. Non molto diverso era anche il pensiero di chi proponeva l’apocatastasi, ovvero un completo recupero della creazione alla fine dei tempi. Secondo questa teoria, di derivazione stoica, ma successivamente ripresa da alcuni teologi cristiani, prima che tutto sarà compiuto assisteremo a una conversione universale, e persino il demonio si pentirà rientrando in Dio, che perdonerà tutto a tutti. Qui, più che valutare la fondatezza teoretica dell’apocatastasi (che, sia detto fra le righe, ha molte frecce al suo arco), interessa confermare la visione d’insieme. La morte non intimorisce più di tanto il cristiano medievale, perché rappresenta a suo avviso nient’altro che un viaggio verso il principio, o più precisamente è un tornare al punto d’origine con un corpo glorioso, liberato dai limiti della carne e dalle miserie terrene. In questo orizzonte culturale, il fedele è consapevole dell’importanza di prepararsi al grande evento, tanto che teme solo la morte repentina, ovvero quella che non gli consente un’adeguata preparazione, e che non gli concede il tempo di redimersi, di apparecchiarsi alla morte (E nell’ottica apocatastatica, la mancata redenzione in vita comporta una maggior permanenza temporale all’inferno; inferno che in ogni caso, quando tutto sarà compiuto, ovvero alla fine dei tempi terreni, verrà comunque distrutto dalla gloria onnipervasiva di Dio che, con un estremo atto di bontà riconciliatrice, ricondurrà tutto l’essere a sé).
Pur nelle differenze e singole sfumature, il tempo antico, medievale e, in gran parte, anche quello moderno pre-industriale affronta la morte senza cedere agli isterismi o a rimozioni sociali. L’atteggiamento culturale comincia a cambiare alla fine del XVIII secolo quando, appunto, il progresso economico, tecnologico e, al contempo, sanitario trasformano dalle fondamenta la struttura comunitaria. I medici, per motivi di igiene, iniziano a lamentarsi della numerosa presenza di parenti e amici nelle camere degli agonizzanti. È questo il primo tentativo di medicalizzare la morte, espropriando la famiglia del suo ruolo fondamentale. E che inoltre queste precauzioni siano poi solo il frutto di un’insensata ideologia vessatoria è facile a dimostrarsi. Perché sarebbe interessante capire quale complicazione igienico-sanitaria può essere provocata dalla presenza dei familiari al capezzale di un congiunto che sta per terminare i suoi giorni terreni. Forse i «sani» potrebbero trasmettere infezioni batteriche allo sventurato moribondo, e quindi, per prevenire il rischio di una morte anticipata – perché la vita va sempre estesa e medicalizzata oltre ogni limite – è meglio lasciare da solo il povero ammalato, che tuttavia, e per inciso, morirà lo stesso ma almeno, secondo il più rigido protocollo scientifico, in modo igienico e senza ulteriori infezioni? È proprio questa la follia cui siamo giunti! Come se vivere un’ora in più, e in solitudine, sia meglio che vivere un’ora in meno, ma in compagnia dei propri cari. Sì che il sogno faustiano punta a conseguire in ogni modo il «di più» temporale e terreno – un «di più» desiderato a prescindere dalle conseguenze – che sovrasta la qualità del «di meno» e lo riduce al silenzio. Il «di meno» è quindi bandito dall’immaginario, perché conduce alla morte, al nulla, all’impensabile.
Da un punto di vista più filosofico e meno sociologico alcuni hanno osservato che il nulla non è, perché se fosse qualcosa smetterebbe la sua caratteristica di nullità. Il nulla è per questi persino indicibile, perché ogni dire è pur sempre qualcosa, è un far-essere qualcosa, e allora se il nulla non è, la morte non dovrebbe incutere terrore. Altri hanno suggerito che la morte non è esperibile semplicemente perché quando si è in vita non c’è, mentre se si è morti è già passata. Tuttavia il ragionamento logico preso di per sé non rassicura in generale nessuno, né tanto meno l’uomo contemporaneo, che pretende di ingurgitare culturalmente il limite per oltrepassarlo. Questo perché la logica non controlla la vita, ma ne è solo una parte, e per di più limitata, come limitate sono la nostra percezione e la capacità di ragionamento. Sicché, nonostante tutte le argomentazioni addotte da chi ritiene di poter cancellare il terrore della morte personale col semplice ricorso al raziocinio argomentativo, la morte stessa continua a presentarsi come dolorosa e angosciante, perché ogni secondo vissuto consapevolmente è anche un passo in più verso la propria fine. È questa la pietra d’inciampo che scandalizza la quotidianità e si rende quindi oscena dinanzi al progresso.
In virtù di ciò, il pensiero contemporaneo scorge un nemico che avanza, che non si lascia respingere e che non riesce a piegare: la morte. E allora quando la volontà di non finire percepisce di aver fallito nell’intento di eternizzare l’esistenza, ovvero quando il limite mortale mostra il fallimento fatale dell’attuale sistema culturale – perché la morte segna inesorabilmente la fine di qualsiasi espansione vitale – l’élite intellettuale, pur di non accettare la sconfitta, rifiuta la morte emarginandola dal proprio orizzonte. Per questo non se ne deve parlare. E quando, con forza, essa si presenta, le si deve alludere senza cedere troppo spazio allo sconforto: perché un giorno, è questa la vera allucinazione contemporanea, quando la tecnica lo consentirà, nessuno morirà più. L’immortalità diverrà il nuovo dio cui sottomettersi, e la permanenza eterna la futura Gerusalemme.
Provo a sciogliere alcune considerazioni in modo più esplicito. L’homo technicus (leggi in particolare Il tempo della tecnica) non trova pacificazione nella sola logica che gli annuncia l’impossibilità del nulla. Perché in fondo la morte è un’esperienza che non si lascia superare da un mero ragionamento. E quindi per quanto pensare il nulla sia impossibile, la morte sta sempre lì a mostrarci che il «non essere più» è una possibilità reale a cui nessuno ha saputo finora sottrarsi. Per questo motivo l’homo technicus abbraccia la fede nel progresso infinito dell’apparato tecnologico. L’ideologia prometeica lo spinge a credere – e alla fine si convince persino – che i limiti ci sono per essere superati, che il domani sarà meglio dell’oggi e che il «più» di tempo è preferibile al «meno». Ma è tutto vano. Perché la morte è un destino intramontabile, è un potere che frena le ambizioni prometeiche del viator, è un limite invalicabile che persiste e se ne sta lì imperturbabile a testimoniare la terribile fragilità dell’essere.
Ciononostante, l’homo technicus non si rassegna, vuole evitare di ritrovarsi imbrigliato nelle miserie del tempo e orienta tutte le sue energie verso la sua unica speranza: l’espansione infinita della tecnica. E l’illusione che le future acquisizioni scientifiche possano far tramontare il limite, ponendo l’uomo fuori dal rischio della fine, è la radice dell’ideologia economica occidentale, che eleva la tecnica a suo scopo supremo; scopo in cui tutto si risolve grazie a un dominio universale, che dovrebbe consentire ad libitum l’espansione della vita. Ora, che tale esito rasenti la follia è fin troppo semplice mostrarlo, ma, nonostante tutti gli argomenti che potremmo addurre, l’illusione di eternizzarsi induce l’umanità a porre una fiducia totale nei confronti del progresso e della vita terrena, perché secondo il pensiero tecnico-economico contemporaneo ciò che produce il piacere, che elimina il dolore e la paura va perseguito necessariamente, e poco importa oggi se le implicazioni determinano l’insorgenza di situazioni nefaste per il futuro.
Ebbene, proprio in virtù di quest’ultimo ragionamento si profila l’inizio della fine, perché l’umanità è ora realmente in grado di estinguersi sfruttando la potenza messagli a disposizione dall’economia tecnica. Per questo motivo, in vista di una riconsiderazione complessiva del limite, è forse giunto a maturazione il tempo in cui l’uomo ormai pienamente consapevole, concependosi di nuovo come limitato, ricominci a considerare la morte per ciò che è: una barriera intramontabile, una barriera che non si lascia oltrepassare e che persiste (nel senso che resta immobile al suo posto) a indicare l’estrema possibilità dell’esistenza umana. La morte è vita, fa parte della vita, è l’ultimo atto che si compie in quanto esseri viventi.
Questa consapevolezza responsabile di non poter superare la morte terrena segna un punto verso la completa resipiscenza dell’umano, e forse proprio a partire da qui il pensiero occidentale può davvero cominciare a scorgere, sulla linea dell’orizzonte, le luci armoniche di una nuova alba.
* Alessandro Pertosa, ricercatore in filosofia, scrive irregolarmente di filosofia, economia, teologia, bioetica, decrescita. Docente universitario, cura il sito-rivista artedecrescita.it. Il suo ultimo libro è Dall’economia all’eutéleia (Ed. Decrescita felice). In questa pagina, il quarto di diversi saggi (gli altri sono Il luogo del dominio, La mano che schiaccia e Il tempo della tecnica) che indagano i concetti di economia, decrescita, utopia, potere.
L’adesione di Alessandro Pertosa a Ribellarsi facendo è leggibile qui: Comune si abita volentieri
UN LIBRO
Nemesi medica (Ivan Illich)
Rifiuto della malattia, della sofferenza, della vecchiaia e infine della morte come rifiuto del concetto (realtà) di limite che accompagna la nostra vita fin dalla nascita e è già insito in essa. Così come è insito in tutto ciò che ora “è” e che domani semplicemente “non sarà più”.
La morte o la malattia che un tempo coinvolgevano la comunità che dava il suo sostegno materiale e morale anche attraverso rituali, ora è un’esperienza che deve essere elaborata in solitudine. Non ci sono più spazi e contesti di condivisione collettiva che permettano di affrontare, accettare, trasformare il dolore e il lutto in parte naturale e indissolubile della vita.