Gli occidentali ritenevano che una “Grande Partizione” separasse natura e cultura, anima e corpo, umani e animali, coloro che sanno e coloro che credono. Così, per oltre quattro secoli abbiamo creduto che il nostro mondo, la nostra conoscenza e il nostro modo di vivere fossero superiori agli altri e che tutti, prima o poi, sarebbero diventati come noi. Un’idea insolente, che ha giustificato la spoliazione e il sistematico sterminio delle “culture altre”, extraoccidentali o interne ai nostri confini che fossero: dagli indigeni alle streghe, dai pogrom contro i migranti agli ebrei dell’Europa nazista, dalla schiavitù coloniale alle civiltà contadine. Oggi l’egemonia occidentale non persuade più nessuno: nemmeno gli occidentali. C’è voluto più di un secolo per capire che il mondo che avevamo costruito non era né il migliore, né il solo possibile. L’ultima grande stagione mondiale di lotte ha detto che se ne può fare un altro. Dacché un altro mondo è possibile, un altro mondo vogliamo: gli umani sono capaci di costruirne un numero infinito e molti di questi già popolano il pianeta. Ed è solo perché molti mondi diversi dal nostro sono già reali, che altri mondi possibili sono immaginabili. L’orizzonte chiuso e soffocante del capitalismo, quest’impressione di destino segnato che oggi ci fa accettare l’inaccettabile, non è che un’illusione ottica. Dobbiamo tornare all’idea di inventare “qualcosa di meglio per tutti”, a una rivoluzione tutta da ripensare
di Stefania Consigliere*
UNO Che odore ha l’aria di un mondo in cui le piante danno insegnamenti agli umani? Quali spigoli e inciampi trova sulla sua strada chi voglia diventare guaritore, là dove le malattie sono causate da cattive intenzioni? Come ci si sente ad appartenere alla stessa categoria ontologica del tucano? Quali paure e quali estasi s’incontrano nelle iniziazioni? A cavallo del millennio, l’ultima grande stagione mondiale di lotte ha dichiarato con forza che un altro mondo è possibile. Contro tutti i richiami all’ordine e a un sedicente principio di realtà (i vari “fa schifo, ma è così”), quel grido era al contempo constatazione di un dato di fatto e manifestazione di un’esigenza: dacché un altro mondo è possibile, un altro mondo vogliamo. Attorno a quella possibilità molti hanno ritrovato un senso, dopo la tragedia politica e antropologica del ventennio precedente. Oggi – dopo che tantissima acqua avvelenata è di nuovo passata sotto i ponti: l’11/09, Abu Ghraib, l’estensione incontrastata del neoliberismo, la crisi finanziaria e ora anche i fatti parigini – per mantenersi fedeli a quel grido è necessario fare un giro lungo.
DUE Vediamo, per cominciare, come siamo arrivati fin qui. Nel periodo della modernità gli occidentali ritenevano che una “Grande Partizione” separasse natura e cultura, anima e corpo, umani e animali, coloro che sanno e coloro che credono. In base a ciò, per oltre quattro secoli abbiamo creduto che il nostro mondo, la nostra conoscenza e il nostro modo di vivere fossero superiori a qualsiasi altro e che tutti, alla lunga, sarebbero diventati come noi. E poiché, oltre all’arroganza, non ci mancavano neppure le buone intenzioni, eravamo anche convinti di dover portare a tutti i nostri lumi, quel progresso di cui andavamo tanto fieri e che avrebbe portato a tutti ricchezza e benessere. Pensavamo dunque, nella modernità, che ci fossero un unico Essere, un unico Bene, un unico Vero: i nostri. Idea insolente, non c’è che dire: eppure, è quella che ha giustificato la spoliazione e il sistematico sterminio di tutte le “culture altre”, che fossero extraoccidentali o interne ai nostri confini: dagli indios d’America alle streghe, dai pogrom contro i migranti durante la “conquista del West” agli ebrei d’Europa durante il nazismo, dalla schiavitù coloniale alle civiltà contadine.
TRE Oggi l’egemonia occidentale non persuade più nessuno: nemmeno gli occidentali. Ci è voluto più di un secolo per convincerci che il mondo che avevamo costruito non era né il migliore, né l’unico possibile: un secolo fatto di totalitarismi, di guerre che ammazzano i civili a decine di milioni, di campi di sterminio, di confini militarizzati, di profughi, di disastri ecologici, di crisi economiche, di polverizzazione esterna e interna dei soggetti, di sacralizzazione della competizione. Ma fatto anche – è bene ricordarlo – di sperimentazioni politiche e conoscitive fra le più belle di ogni tempo: dalle evoluzioni fantasmagoriche della fisica e della matematica alle riflessioni sul potere, dall’ecologia come scienza delle connessioni fra ciò che vive ai femminismi, dalla liberazione sessuale ai subaltern studies. È questo secondo versante del secolo che abbiamo alle spalle che dobbiamo ostinarci ad abitare: col suo richiamo alla complessità e alla molteplicità e con la sua esigenza di rivoluzione – ovvero, di “qualcosa di meglio per tutti”.
QUATTRO. In questi anni qualcosa di nuovo sta crescendo nelle pieghe dell’antropologia, nella zona che confina a nord con la filosofia e a sud con la politica. Sciolte le ambiguità di una disciplina nata nel periodo coloniale come “scienza che fornisce ai civilizzati dati oggettivi sui non civilizzati”, alcuni antropologi hanno deciso di saltare infine oltre la grande partizione e prendere gli altri sul serio. Questo significa partire dall’idea che ogni cultura umana ha la stessa dignità di tutte le altre perché tutte si trovano di fronte un medesimo problema: quello di dare forma a un mondo abitabile e a un’umanità che lo sappia abitare. Poco importa, allora, se il linguaggio che si parla è l’italiano o il dogon; se l’alimento più consumato è la pasta o il miglio; se si crede nel Dio unico creatore dei cieli e della terra o in una fantasmagoria di anime potenzialmente presenti in ogni cosa: il denominatore comune a ogni cultura è la necessità di immettere i soggetti in una storia sempre particolare e in divenire, entro un mondo umano specifico che, come i linguaggi che si parlano sulla terra, è sempre estremamente complesso e sapiente.
CINQUE «Prender gli altri sul serio» è qualcosa che suona bene sulla carta perché politicamente corretto, ma che, se fatto davvero, ha i suoi pericoli: si tratta, nientemeno, di uscire dalla nostra presunzione di superiorità, abbandonando lo sguardo sempre un po’ paternalista che gettiamo sulle culture altrui. Il che può causare straniamento, una specie di “mal di mare” etico e conoscitivo. Quando si dà credito a ciò che gli altri (i “primitivi”, i “selvaggi”, i “sottosviluppati”: i non occidentali) ci dicono, quando si ammettono le loro cosmovisioni come tanto valide quanto la nostra, si spalanca un panorama sorprendente e vertiginoso, composto di una molteplicità di mondi umani organizzati secondo linee assai diverse da quelle che percorrono il nostro. Ci sono contesti nei quali è possibile imbattersi nelle divinità o negli spiriti degli antenati; dove il contatto con l’immateriale, la trasformazione in spirito e la conversazione coi rappresentanti di specie vegetali e animali sono attivamente cercati; dove la trance, la possessione o il colloquio onirico con un dio non sono anomalie a cui porre rimedio, ma piste di conoscenza; dove molti enti non-umani del mondo hanno lo statuto di persona; dove il soggetto non è pensato come un’anima individuale dentro un corpo, ma come un insieme di relazioni. È una fantasmagoria che può stordire ma che, se ben praticata, apre squarci irresistibili che, letteralmente, aprono gli occhi. Un solo esempio: nell’Africa subsahariana coloro che si muovono nel mondo secondo i criteri che per noi occidentali sono i più elementari e scontati (badando al proprio vantaggio, accumulando ricchezza e in un’ottica competitiva) sono reputati stregoni. Stregone è dunque chi mette al lavoro gli altri prelevandone i frutti – ovvero, chiunque agisca il meccanismo-base della creazione capitalista di plusvalore. Più chiaro di così…
SEI Non solo, dunque, un altro mondo è possibile: gli umani sono capaci di innumerevoli mondi e molti di questi già popolano il pianeta. Ed è solo perché molti mondi diversi dal nostro sono già reali, che altri mondi possibili sono immaginabili. L’orizzonte chiuso e soffocante del capitalismo, quest’impressione di destino segnato che oggi ci fa accettare l’inaccettabile, non è che un’illusione ottica, il trucco con cui uno stregone malevolo ci ammalia. Torniamo così all’idea di “qualcosa di meglio per tutti”: a una rivoluzione tutta da ripensare, ma tutt’altro che impossibile. I mondi umani non ammettono gerarchie: ciascuno di essi è valutabile solo dal suo interno e secondo i suoi propri principi. Inoltre, se il nostro Bene non è più l’unico bene, allora che cosa sia meglio per gli altri non è cosa che possiamo decidere noi (non più di quanto io possa decidere come il mio vicino di casa debba arredare il suo salotto). Bisognerà dunque sedersi e parlare, inventare gli istituti di una democrazia finalmente radicale in cui ciascun gruppo umano possa decidere come far convivere i propri bisogni, le proprie esigenze e le proprie piste con quelle di tutti gli altri. Luoghi dove rendere fra loro compatibili i diversi mondi, e dove pensarne di ancora inediti. Bisognerà imparare l’umiltà e tornare a praticare la diplomazia: perché è chiaro che il mondo fra tutti meno compatibile, quello che continuamente torna a imporre il proprio dio geloso come unico dio possibile per tutti, è proprio il nostro.
Note
– Le implicazioni dell’insolenza di cui si parla, e i rischi della buona educazione, sono analizzati in un brillante articolo di Bruno Latour intitolato “Guerre di mondi – offerte di pace”. Lo trovate qui: www.ec-aiss.it.
– Per un’introduzione generale, v. Mondi multipli vol. 1: Oltre la Grande partizione e Mondi multipli vol. 2: Lo splendore dei mondi, a cura di S. Consigliere, Kaiak editore. Più informazioni, tanto sulle pubblicazioni quanto sul gruppo di ricerca, si trovano all’indirizzo www.mondimultipli.sdf.unige.it
(email: ).
* del Gruppo Mondi Multipli
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