Tutte le volte che viene presentata la legge di bilancio per l’anno a venire, la stampa mainstream dimostra il suo ruolo cortigiano. Non fa eccezione quella appena presentata. Perfino i media che hanno posizioni avverse al governo in carica, spiega Andrea Fumagalli su Effimera, si prestano a riportare bufale. In questo articolo, con tutta l’umiltà del caso, si cerca di fare un minimo di chiarezza, cioè di fare quello che un tempo si chiamava “servizio pubblico”
Sappiamo che l’informazione in Italia non offre certo un buon esempio in tema di trasparenza e obiettività. L’informazione economica, poi, sta ancora peggio. Martedì 16 ottobre il governo ha presentato la manovra finanziaria per il 2025 da inviare a Bruxelles per l’approvazione insieme al Piano Strutturale di Bilancio che dovrebbe ridurre il rapporto deficit/Pil al 3,3% nel 2025 e al 2,8% nel 2026: per scongiurare gli effetti della procedura di infrazione commutata all’Italia la scorsa estate. L’ammontare complessivo è intorno ai 30 miliardi in linea con le manovre economiche degli anni precedenti.
I principali quotidiani si sono soffermati in particolare su alcune misure, che dovrebbero rappresentare le principali novità introdotte. Sul lato della spesa, molta enfasi è stata data, soprattutto dalla stampa e dalla televisione pro Meloni all’introduzione di quello che Il Messaggero nel titolo di prima pagina ribattezza il “bonus bebè”. Sul lato delle entrate, invece, l’attenzione dei principali quotidiani è rivolta al cosiddetto “contributo” delle banche e assicurazioni pari a circa 3,5 miliardi. Il Corriere della Sera parla espressamente di contributo (“Intesa sulle banche: contributo di 3,5 miliardi”). La Stampa non si sbilancia (“Dalle banche 3,5 miliardi”). La Repubblica e Libero, in modo diametralmente opposto, introducono la parola “tasse”. Il quotidiano portavoce del PD è quello che si sbilancia di più (e falsifica di più la notizia, come vedremo): “Si alla tassa sulle banche”, quello diretto dagli illeggibili Sechi e Capezzone esulta: “Meno tasse, pagano le banche”. Più sobrio Il Giornale che comunque enfatizza il pagamento delle banche e il bonus bebè.
La realtà è ben diversa. Le banche e le assicurazioni danno allo stato un anticipo sulle tasse che avrebbero dovuto pagare in ogni caso nei prossimi due anni. SI tratta infatti di un acconto concordato con Abi (Associazione Bancaria Italiana) sull’anticipo delle Dta, le imposte differite attive e sugli incrementi patrimoniali. Non è né un contribuito a fondo perduto, né, men che meno, una tassa (come scrivono Repubblica e Corriere). Ha ragione Il Sole 24 ore, l’unico giornale che titola in modo corretto: “Dalle banche un anticipo di cassa di 3,5 miliardi su due anni”. Tajani può essere soddisfatto. Salvini, quando afferma che pagano le banche, mente sapendo di mentire.
Il tanto propagandato “bonus bebè”, finalizzato a risolvere il problema della denatalità, è invece più un’operazione di facciata che reale. Il numero dei nuovi nati, in calo continuo anno dopo anno, è stato nel 2023 pari a 379.000. Il bonus viene dato alle famiglie con reddito Isee inferiore ai 40.000 euro l’anno. Supponendo che le famiglie, che hanno fatto un figlio con reddito sino a questa soglia, siano il 70% del totale e supponendo che ci sia lo stesso numero di nati per il 2025 (poco probabile), il bonus verrebbe applicato a 265.000 famiglie per un esborso quindi di 265 milioni di euro. Si tratta di una cifra ridicola che ovviamente non può invertire la tendenza verso la denatalità, non incide sui conti pubblici ma si presta a essere propagandata mediaticamente a gloria del governo, come sta avvenendo.
Sia l’anticipo delle Banche che il “bonus Bebè” sono provvedimenti una tantum. Eppure Meloni aveva proclamato che il periodo dei provvedimenti una tantum era finito.
Di ben diverso spessore sono invece le misure che rendono strutturale il taglio del cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato sino a 40.000 euro di reddito imponibile e la riduzione a tre delle aliquote fiscali (23% per i redditi fino a 28.000 euro; 35% per i redditi tra 28.000 e 50.000 euro; 43% per i redditi superiori a 50.000 euro). Queste misure richiedono un finanziamento complessivo di ben 15 miliardi di euro. Le fasce più povere non hanno benefici. Qualche briciola va al cosiddetto ceto medio. I ricchi continuano a godere di fatto di una flat tax sopra i 50.000 euro con un ulteriore riduzione della progressività delle aliquote. Contemporaneamente, la soglia di reddito imponibile lordo per i lavorator* a partita Iva che usufruiscono di una flat tax del 15% aumenta sino a 105.000 euro.
Sicuramente la fascia degli elettori che maggiormente ha votato Meloni saranno soddisfatti. Ma non si parli di riduzione generalizzata delle tasse.
Anzi, a differenza di quanto scritto da Libero, è presente l’aumento delle tasse (accise) sul carburante Diesel. Giorgetti e il governo non parlano di aumento dell’accise ma di riallineamento con le tasse sulla benzina. Tale riallineamento è giustificato da ragioni ecologiche. Tutto bene dunque? Non proprio. Il diesel infatti inquina più della benzina e l’Italia è l’unico paese europeo in cui il carburante diesel costa meno. Il motivo è semplice e risale a tanti anni fa quando la Fiat dettava legge e imponeva un prezzo più basso al diesel poiché le macchine a diesel erano quelle maggiormente prodotte dall’impresa torinese. Ora, non è necessario essere laureati in matematica per comprendere che un riallineamento può esser o verso il basso o verso l’alto. Se si sceglie di farlo (come è stato deciso) verso l’alto, ciò implica automaticamente un aumento del prezzo, che va a gravare su una domanda molto diffusa in Italia e assai rigida. Una sorta di tassa sul macinato come ai tempi di Quintino Sella.
A proposito di tasse, occorre ricordare anche che alcune detrazioni fiscali per le famiglie sono state eliminate per un valore di 1,5 milioni di euro. L’effetto di tali detrazioni implica un aumento del pagamento delle tasse. Ora è vero che nessuna tassa è stata introdotta, come Tajani ripete come un mantra, ma ciò non significa che il livello di imposizione fiscale sul singolo contribuente sia destinato ad aumentare nel 2025.
Ma questi provvedimenti non sono sufficienti a recuperare le risorse necessarie per il cuneo fiscale e la riforma dell’Irpef. Per questo si è deciso un taglio lineare del 5% del bilancio dei ministeri. Ciò significa che alcuni servizi sociali verranno definanziati. In particolare, le spese per il trasporto (senza toccare il Ponte sullo stretto), le spese per l’istruzione e per l’Università. Quest’ultima vede un riduzione del Fondo di Finanziamento Ordinario di 178 milioni di euro a cui occorre aggiungere il taglio di circa 340 milioni che erano stati messi a bilancio nella manovra dello scorso anno per finanziare il piano straordinario per l’assunzione di nuovi professori associati per evitare il licenziamento di numerosi ricercatori con il contratto in scadenza. A parole, la sanità non viene toccata, anzi parte dei 3,5 miliardi anticipati dalle banche dovrebbero essere usati per aumentare il fondo sanitario (pur continuando a rimanere al di sotto degli standard minimi europei). Ma vi è il fondato sospetto che si tratti ancora una volta di pura propaganda.
Sulla base di queste parziali argomentazioni, un giusto titolo sarebbe stato, dopo l’occhiello “manovra economica 2025”: promesse al vento (quello che, infatti, è stato messo qui). Sommario: “Le banche vengono graziate, le tasse calano solo un poco per il ceto medio ma aumenta il prezzo del diesel. Bonus bebè: politica dell’annuncio. Rischio di mancanza di risorse per i servizi sociali essenziali”.
Tra gli ultimi libri di Andrea Fumagalli Valore, moneta, tecnologia. Capitalismo e scienza economica (DeriveApprodi).
Andrea Fumagalli ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura
Lascia un commento