Parallelamente al genocidio a Gaza i palestinesi in Cisgiordania stanno vivendo un picco senza precedenti di attacchi violenti e abusi perpetrati sia dai coloni che dall’esercito israeliano, ormai indistinguibili. In questa situazione il Coordinamento dei comitati popolari ha lanciato da Ramallah la campagna Faz3a chiedendo alle organizzazioni internazionali l’invio di volontari per la protezione della popolazione civile in Cisgiordania

Il Coordinamento dei comitati popolari (Popular struggle coordination committee) si è formato nella seconda Intifadah, quando la costruzione del muro di annessione coloniale iniziato nel 2002 e lungo 720 chilometri – definito dalla Corte internazionale di giustizia nel luglio 2004 come illegale e da demolire – aveva sottratto ai villaggi palestinesi più del 60 per cento di terra coltivabile, rinchiudendoli in veri ghetti. Partendo dal villaggio di Bi’ilin la resistenza popolare nonviolenta si è diffusa in vari altri villaggi (Al-Ma’asara, Nabi Saleh, Ni’lin, Al-Walaja, Kufer Qaddum, Jordan Valley, Masafer Yatta) dove per anni ogni venerdì si sono svolte manifestazioni contro il muro e l’occupazione militare nelle forme più svariate e creative. I Comitati popolari sono indipendenti da ogni forza politica e hanno costruito alleanze con associazioni internazionali e israeliane contro l’occupazione.
Faz3a (فزعة, pronuncia: faz’a) è un’espressione colloquiale araba che significa aiuto, protezione, rinforzo, ed è una lunga tradizione palestinese di soccorso in massa delle comunità di fronte a minacce esterne. Dal 2006, ogni anno, la campagna internazionale faz3a è stata promossa nella Palestina occupata per la raccolta delle olive, nei mesi di ottobre e novembre. Dal luglio scorso, per la prima volta, è stata lanciata una campagna internazionale faz3a per la protezione della popolazione civile dalle crescenti aggressioni dei coloni e dell’esercito israeliani.
In Italia AssoPace Palestina ha prontamente aderito all’appello dei Comitati popolari e, insieme ad Arci, Un Ponte Per, Mediterranea e altre associazioni, ha promosso faz3a.italia, alla quale ci si può rivolgere per informazioni sulla campagna (mail: ) o semplicemente per sostenarla: IBAN (IT 93M0538774610000035162686), causale “campagna faz3a.italia”.
Nell’ambito della campagna di faz3a.Italia io e una compagna di AssoPace di Milano, Elena Castellani, siamo partiti il 20 agosto scorso. Quello che segue è un breve resoconto del viaggio in cui tento di restituire il senso della mia esperienza, quello che ho visto, quello che ho imparato, l’amore per quel popolo e per quella terra.

Al nostro arrivo a Ramallah, mercoledì 21 agosto, il primo giorno è occupato dal training presso la sede del Coordinamento dei comitati popolari. In totale siamo una quindicina di persone, la maggior parte statunitensi. Il training si rivela utilissimo: ci spiegano l’abc della lotta pacifica non violenta, il tipo di azione che faremo, le tecniche di de-escalation nelle situazioni di conflitto. Ci mostrano i tipi di divisa indossate dai vari corpi militari, i mezzi di trasporto che utilizzano, i tipi di arma in dotazione e i relativi proiettili. Poi ci spiegano le regole del gioco: ogni azione va discussa e decisa collettivamente, se non si è d’accordo ci si può esimere; prima di metterla in pratica va designato un “decisore di emergenza”, una persona che decide il da farsi nelle situazioni impreviste. Ci spiegano infine gli aspetti legali, come comportarsi in caso di fermo o arresto, ricordando i diritti fondamentali che abbiamo: non rispondere, richiedere l’assistenza di un avvocato.
La sera, finito il training io, Elena ed altri cinque veniamo assegnati al Comitato di resistenza popolare di Qusra, una cittadina di circa cinquemila abitanti, quindici chilometri a sud-est di Nablus, letteralmente assediata dagli insediamenti israeliani (vengono sempre costruiti sulla cima delle colline, per poter controllare le valli). Siamo alloggiati nella “casa degli internazionali”, un edificio spartano dentro e fuori, in cima alla collina che fronteggia i due insediamenti di Esh Kodesh ed Ehiya. Ad accoglierci c’è Abed Wady, persona di grande umanità, leader politico della cittadina. Abed è il punto di contatto fra noi e la comunità locale nonché il nostro riferimento operativo nelle azioni quotidiane.
La mattina di giovedì 22, in cinque compiamo un’operazione che gli statunitensi chiamano “sheparding”: accompagniamo Salah, un pastore con un gregge di oltre un centinaio di pecore e una ventina di capre, al pascolo nei terreni a ridosso degli insediamenti. Da solo Salah non frequenta più da tempo la zona, a causa delle aggressioni subite e dei furti di bestiame da parte dei coloni. Nell’azione Bestnik, il nostro “decisore di emergenza”, ci chiede di tenere d’occhio le colline che degradano dagli insediamenti. Ben presto notiamo un pick up della guardia privata dei coloni in movimento, poi una camionetta dell’esercito e poco dopo un drone è sopra di noi. La camionetta continua a muoversi e ce la troviamo al margine della strada. I soldati scendono, ci fanno segno di avvicinarci, chiedono i passaporti e quindi ci invitano ad allontanarci da lì perché la zona per noi non sarebbe sicura. Bestnik replica che non vediamo motivi di insicurezza e restiamo lì fino a quando Salah non considera chiusa la giornata di pascolo. Poco dopo essere rientrati a casa il Coordinamento dei comitati popolari ci avvisa da Ramallah che ci sono scontri nella valle del Giordano e chiede la disponibilità ad andare a prestare soccorso: tre di noi partono immediatamente.


Nel pomeriggio di venerdì 23 Abed ci chiede di aiutare un contadino, Mohammed, a raccogliere i fichi nel suo frutteto, a ridosso degli insediamenti. Le figlie vengono a prenderci e, una volta sul posto Mohammed ci raccomanda di cogliere solo i fichi grandi e maturi, quelli piccoli non riesce a venderli. Ben presto abbiamo raccolto una discreta quantità, sette grandi secchi, Mohammed è soddisfatto. Ci riaccompagnano a casa, un cesto di fichi in regalo. “Shukran, shukran…” mano sul petto ci salutiamo. La sera ceniamo a pane e fichi.
Sabato 24 alcuni ragazzi del villaggio vengono ad avvisarci di movimenti dei coloni presso le case alla periferia del paese. Corriamo subito e, arrivati sulla strada, avanziamo con il braccio sinistro alzato e il cellulare nella mano destra per riprendere i soldati nel frattempo arrivati. Dopo averci identificato i soldati ci ordinano di tornare indietro: quella zona è stata classificata “zona militare” da un’ordinanza dell’esercito, che ci mostrano sul cellulare. Fotografiamo l’Ordinanza, ma non possiamo far altro che tornare verso il paese, dove nel frattempo gli abitanti avevano sbarrato le vie d’accesso con massi e intelaiature in ferro.
Nel pomeriggio di domenica 25 facciamo una manifestazione davanti al “gate”, il massiccio cancello rosso che l’esercito ha piazzato al centro del paese con tanto di soldati di guardia nelle garitte. Arrivati a pochi metri dal cancello i soldati ci intimano di fermarci. C’è tensione. Vivi Chen, la volontaria esperta che ci coordina, chiede spiegazioni, non riceve risposta. Nel frattempo alcuni abitanti iniziano una discussione accesa con i soldati, qualcuno viene fatto passare. La tensione si stempera un po’. Arriva il sindaco, oltrepassa il cancello e protesta formalmente chiedendo la rimozione dello sbarramento. Quindi torna indietro e rilascia un’intervista a una giovane donna palestinese con indosso il giubbotto con la scritta PRESS. Le manifestazioni davanti ai cancelli per chiederne la rimozione si ripetono nell’intera Cisgiordania tutte le settimane, quasi sempre il venerdì, e rappresentano una delle forme di resistenza pacifica e non violenta dei Palestinesi contro l’occupazione militare.

La mattina di lunedì 26 con Elena andiamo a Nablus. L’autista, Fadi il suo nome, ci fa notare che a causa dei blocchi stradali impiegheremo un’ora e mezza per un percorso che in precedenza richiedeva quindici minuti. Lasciata per inagibilità la strada di grande comunicazione sul fondovalle, ci inerpichiamo sulle colline, dove per giunta ci imbattiamo in un posto di blocco mobile dell’esercito. La pratica della chiusura delle strade si è molto intensificata dopo il 7 ottobre in tutta la Cisgiordania. Inutile dire che gli spostamenti ne risultano fortemente aggravati se non azzerati del tutto.
Nablus è stata oggetto di numerose incursioni dell’esercito, specialmente in questi ultimi tempi. La città è piena di gigantografie dei martiri appese ovunque e la tensione si avverte nell’aria. Nella passeggiata che facciamo in centro ci dà sicurezza la presenza di Fadi al nostro fianco, non è consigliabile girare da soli. Un aspetto che colpisce è l’enorme numero di nuove costruzioni, grandi palazzi bianchi che si inerpicano sulla montagna fin dove possibile. Anche nel fervore edilizio si esprime un tratto peculiare della resistenza palestinese: la lotta per la terra, difesa palmo a palmo contro il dilagare degli insediamenti israeliani.
Martedì 27 andiamo aDuma, un piccolo villaggio situato nella vallata al di là dell’insediamento israeliano di Esh Kodesh. I coloni sono molto più aggressivi nei confronti dei piccoli villaggi – di recente alcuni sono stati abbandonati dalla popolazione – e uno degli abitanti di Duma, Khaled Dawod, ha chiesto ad Abed di portarci a vedere la situazione. La nostra funzione di volontari internazionali è anche questa: documentare queste situazioni e farle conoscere il più possibile. Durante una lunga passeggiata nella campagna fotografiamo alberi di ulivo tagliati, costruzioni incendiate, tubi d’irrigazione divelti. Colpisce il contrasto della distruzione con lo splendido paesaggio della vallata declinante verso il Giordano, dove su un fianco si aprono antiche grotte di epoca romana, utilizzate fino a tempi recenti come stalle per le pecore. Rientrando nel villaggio, veniamo accolti nella semplice casa di Nassin Insillah. Suo fratello ha 45 anni ed è in carcere da 33. Nassin vive con la madre invalida e due mogli, i figli hanno preferito andare a vivere nella vicina cittadina di Jorish. Passiamo quindi a casa di Khaled. Sul muro di cinta che la circonda è affisso un ordine di demolizione dell’esercito, lo tiene lì come trofeo, l’ordine è del 2017, mai eseguito! Ci racconta della sua lotta pluridecennale contro i soprusi dei coloni: ha sostenuto undici cause in tribunale, e le ha vinte tutte, dice orgoglioso. Una causa era riferita a una falsa vendita di terra fatta da suo padre a un colono israeliano, peccato la data dell’atto fosse successiva a quella della morte di suo padre. Le false vendite di terra ai coloni sono una costante in tutta la Cisgiordania: famelici avvocati si aggirano nelle campagne cercando di convincere i contadini palestinesi ad improbabili vendite a favore dei coloni, la maggior parte delle volte non riescono ma a volte succede il contrario.

La giornata di mercoledì 28 inizia con la pessima notizia di un’offensiva israeliana scatenata nella notte contro varie città della Cisgiordania come Jenin, Tulkarem, Tubas, oltre al campo profughi di Balata. C’è molta tensione. Alcuni di noi escono con Salah, altri restano a casa. Verso le 17 arriva Abed, poco dopo il sindaco e un collaboratore: la casa degli internazionali diventa il centro politico di tutta la comunità.
Giovedì 29 viene a prendermi Abed per portarmi a casa sua. Gli avevo chiesto di intervistare lui e il nipote su quanto successo a Qusra il 10 ottobre 2023. Quel giorno esercito e coloni terrorizzarono l’intera vallata con incursioni in massa fino al centro del paese. Furono assassinati quattro giovani, tagliate più di mille piante di ulivo, incendiate quattro abitazioni; durante i funerali tenuti due giorni dopo l’esercito sparò sulla folla, uccidendo il fratello e il nipote di Abed. Per questo volevo intervistarlo, insieme al nipote superstite, con l’idea di realizzare un documentario su quegli avvenimenti. Pur essendo ormai notte decidiamo di registrare l’intervista all’aperto, accanto al cippo dell’ulivo che commemora il fratello e il nipote uccisi, illuminati dal grande faro di sicurezza di casa di Abed. Conservo quei video come un ricordo prezioso.
Venerdì 30 cominciamo il viaggio di ritorno. Rientreremo a Gerusalemme via Ramallah, quindi check point di Qalandya. Appena arrivati ci immergiamo nel dedalo di viuzze di Gerusalemme est: un caleidoscopio di storie e umanità. Qualche immagine resta impressa nella memoria: il tranquillo incrociarsi e fluire di gruppi di ebrei e gruppi di palestinesi nella città vecchia; un uomo col mitra appeso alla spalla che cammina tenendo per mano un bambino; una gigantografia dedicata all’esercito, con scritte in ebraico del tipo “gli artefici del nostro destino”, penso a quale destino. “L’esercito più morale del mondo”.
Sabato 31 arriviamo all’aeroporto Ben Gurion. Al primo controllo all’ingresso ci chiedono dove abbiamo dormito a Gerusalemme: l’ostello delle suore salesiane si rivela un salvacondotto formidabile. Possiamo passare, tutto fila liscio da lì in poi.
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