Philip K. Dick ha prefigurato nei suoi libri le degenerazioni del capitalismo avanzato: l’accumulo di catastrofi che rendono la Terra sempre più inospitale, la disumanizzazione di una società in cui la merce esercita un potere totalitario; le inquietanti prospettive dell’ibridazione tra umani e macchine e dell’intelligenza artificiale. Le ambientazioni suoi dei romanzi sono mondi urbani intrisi di solitudine o tetre periferie di colonie extraterrestri, luoghi in cui l’umanità, sottomessa a stati di polizia e regimi totalitari retti da grandi multinazionali, vive anestetizzata. Ricorda qualcosa? In questi ambienti urbani tutto è automatizzato: veicoli volanti autopilotati che interagiscono con i passeggeri, case governate da sistemi di sensori e comandi vocali, elettrodomestici e computer comandati a gesti. Vere anticipazioni di Smart City. Oggi il capitalismo ha rispolverato per la Smart City la categoria dell’utopia che si realizza, “un’utopia capitalista per una esigua minoranza «privilegiata», ben inteso, mentre il resto della popolazione mondiale in eccesso continuerà ad ammassarsi nelle bidonvilles e negli slums… – scrive Leonardo Lippolis nella nuova prefazione a Viaggio al termine della città (elèuthera) – Se la fantascienza di Dick rimane una guida fondamentale per intuire la distopia che si proietta al di là degli schermi trasparenti di Smart City, dal punto di vista del pensiero politico occorre rilanciare il «principio speranza» di un’utopia concreta di cui parlava Ernst Bloch alla fine degli anni ’50, unico antidoto al sentimento angosciante di no future annunciato già alla fine degli anni ’70 e oggi apparentemente inscalfibile…”
La particolarità del panottico digitale è, soprattutto, che i suoi stessi abitanti collaborano attivamente alla sua costruzione e al suo mantenimento esponendosi loro stessi alla vista e denudandosi. Espongono se stessi sul mercato panottico
(Byung-chul Han)
All’inizio di Jubilee, film di Derek Jarman del 1978, una scena iconica immortala tre giovani punk appoggiati a un grande muro di cemento sotto la scritta postmodern; siamo a Londra, in una strada coperta di rifiuti e macerie, tra un’automobile rovesciata dopo un incidente, un caseggiato popolare vittoriano a due piani in completo abbandono e un gasometro in disuso. Secondo Jon Savage, Jubilee è uno dei pochi documenti visuali che testimonia fedelmente il fenomeno punk nell’Inghilterra della fine degli anni Settanta, un paese al culmine della recessione economica e sull’orlo della presa del potere della Thatcher, incarnazione del nuovo Leviatano neoliberista che annunciava la fine della società («esistono solo gli individui», come amava dire Margaret).
In questo scenario il punk si impone, per dirla ancora con Savage, come un fenomeno socioculturale intriso di «urbanesimo, nichilismo romantico, semplicità musicale come porta dell’inconscio» [Savage 2010, p. 121] e le banchine fatiscenti di Butler’s Wharf scelte da Jarman per le scene in esterni, oggi luogo di lusso della Londra gentrificata, ne fornivano l’ambientazione visiva ideale.
Nel 1978 il punk aveva già svoltato l’apice della propria esplosione provocatoria, ma la sua influenza era ben lungi dall’essere superata. Spostando il centro della creatività da Londra alle principali città del nord dell’Inghilterra, una nuova ondata di giovani gruppi ne aggiornava il messaggio inventando nuove sonorità, diverse tra loro ma accomunate da una spiccata sensibilità per i paesaggi urbani che un tempo avevano dato origine alla rivoluzione industriale e che in quel momento ne certificavano
una crisi irreversibile:
Non è un caso se Manchester e Sheffield, due città industriali in declino dell’Inghilterra del nord, rappresentavano il desolato baricentro del post-punk inglese. […] Cresciuti in città fisicamente e mentalmente sfregiate dalla violenta transizione dai costumi rurali ai ritmi innaturali della vita industriale del xix secolo, questi gruppi godettero di un punto di vista privilegiato da cui contemplare il dilemma «alienazione contro adattamento» nell’era delle macchine. Eppure, per quanto grigie e fatiscenti fossero queste città ormai postindustriali, era possibile (forse essenziale) rielaborare in prospettiva estetica i loro decadenti scenari [Reynolds 2018, p. 24].
L’associazione ironica suggerita da Jarman tra il concetto di postmoderno e la sensazione di una civiltà urbana al collasso è una sintesi efficace di quel «viaggio al termine della città» che avevo racchiuso tra i due crolli di Pruitt-Igoe e delle Twin Towers. A fianco della teoria critica, del cinema e della letteratura di fantascienza, delle arti visive, mancava, in quel viaggio, proprio la parte musicale, una deriva che inseguisse i fantasmi sonori del tramonto della città industriale.
Manchester, in particolare, dopo esserne stata la culla, acutamente descritta tanto da Engels in La situazione della classe operaia in Inghilterra quanto da Dickens nella Coketown di Tempi difficili, ne divenne in quegli anni anche la tomba, e le canzoni di gruppi mancuniani come i Joy Division e i Fall compongono la colonna sonora ideale del suo funerale. La musica dei Joy Division ne catturava il «nudo splendore ballardiano» [ivi, p. 25] al punto che Tony Wilson, loro produttore con la Factory Records e grande ammiratore della critica situazionista, ne ha più volte sottolineato l’anima psicogeografica (fino a dare, in seguito, il nome Haçienda al più importante club della città traendolo dal Formulario per un nuovo urbanismo di Chtcheglov). Ma è Mark Fisher ad aver scovato nelle canzoni dei Joy Division qualcosa di ancora più disturbante:
Se i Joy Division oggi sono più importanti che mai, è perché colgono lo spirito depresso dei nostri tempi. Ascoltateli oggi, e avrete l’immancabile impressione che il gruppo esprima in termini catatonici il nostro presente, il loro futuro. La musica dei Joy Division è stata fin dagli inizi dominata da un profondo presentimento, da un senso di futuro forcluso, in cui ogni certezza si dissolve e di fronte a noi resta soltanto un’angoscia crescente.
È ormai chiaro che il biennio 1979-1980, gli anni con cui la formazione verrà sempre identificata, ha rappresentato un momento di soglia: l’epoca in cui un intero mondo (socialdemocratico, fordista, industriale) ha manifestato la sua obsolescenza e i contorni di un nuovo mondo (neoliberale, consumista, informatico) hanno cominciato a diventare visibili [Fisher 2019, p. 75].
Da espressione della crisi della città industriale a incarnazione musicale di quella prigione mentale, nella quale non riusciamo più a concepire un’alternativa al capitalismo, che Fisher stesso, poco prima di suicidarsi, ha ribattezzato Realismo capitalista; a distanza di quindici anni dall’uscita di Viaggio al termine della città, quale ruolo assumono gli scenari odierni della vita urbana nel dare questa sconcertante attualità al no future della fine degli anni Settanta?
Nel 2009 non si parlava ancora della quarta rivoluzione industriale che oggi è al centro degli investimenti multimiliardari delle corporations e dei governi, né tantomeno della sua espressione urbana: Smart City. Presentata come necessità ineluttabile del progresso, essa propone una nuova vita urbana gestita da intelligenza artificiale e automazione, internet delle cose e infrastrutture digitali, machine learning e Metaverso. Grazie a tutto ciò essa promette di essere la panacea di tutti i mali del presente; sarà una città verde, sostenibile e resiliente, che preserva la natura in un contesto artificiale, diminuisce l’impatto ecologico e si adatta ai cambiamenti climatici; una città frugale, giusta e inclusiva, che riduce gli sprechi (ma non i consumi) e combatte le diseguaglianze sociali; la «città dei 15 minuti», che permette all’abitante di soddisfare tutte le proprie necessità nell’arco di pochi chilometri quadrati.
Tutta retorica, quel meccanismo di persuasione che descriveva Platone attraverso la voce di Socrate nel Gorgia e che, con il progresso dei secoli e sul modello dei totalitarismi, è diventata la neolingua orwelliana. Nello specifico urbanistico della quarta rivoluzione industriale,
[…] la propaganda della Smart City seleziona il proprio vocabolario adoperando la tecnica o, meglio, la tecnologia come referente ultimo o come garante di efficienza e obiettività. Presentato come una seconda natura, l’ambito tecno-scientifico imprime un marchio di ineluttabilità sulle decisioni che si prendono. Ormai non si tratta tanto di governare, quanto di gestire. Motivo per cui ai gestori e ideologi della Smart City piace così tanto la parola «governance», importata – come tante altre – dagli usa e presa dal mondo «apolitico» dell’impresa [Garnier 2019, p. 11].
Come la quarta rivoluzione industriale rivendica la propria filiazione dalle origini della civiltà delle macchine, così Smart City ripropone la stessa idea di vita e di felicità della città novecentesca, una macchina che deve aggiornare le risposte ai bisogni utilitaristici dell’uomo moderno: dalla città-fabbrica alla città-fabbrica digitale. In quanto prodotto dell’urbanizzazione capitalistica del mondo, Smart City è programmata per continuare a distruggere i residui valori storici della vita urbana come luogo di convivenza, mutualismo, reciprocità e, a volte, democrazia diretta. Ciò che resta dell’agorà pubblica e della vita activa del cittadino inteso come animale politico si smaterializzerà sempre più nella solitudine interconnessa delle piazze virtuali e del distanziamento sociale, nella distrazione annoiata dei nuovi consumi gestiti dal capitalismo della sorveglianza.
In questa continuità storica, la fantascienza continua a essere un luogo privilegiato per navigare nel tempo. Negli anni Venti del Novecento, quando gli architetti dell’avanguardia internazionale progettavano la città funzionalista come specchio della fabbrica taylorista, essa interpretava le tavole dei Le Corbusier e dei Hilberseimer come l’incubazione di un terrificante panottico urbano. Mentre Siegfried Kracauer suggeriva un messaggio politico reazionario della Metropolis di Fritz Lang visibile nel patto finale tra il grande capitalista e le masse proletarie schiavizzate, la città totalitaria raffigurata in Noi di Zamjatin non lasciava dubbi nel presentarsi come «un campanello d’allarme per il duplice pericolo che minaccia l’umanità: il potere ipertrofico delle macchine e il potere ipertrofico dello Stato» [Zamjatin 2018, p. xv]. Nello stesso 1921 in cui Zamjatin concludeva il suo romanzo, il premio Nobel della letteratura Romain Rolland e l’artista espressionista belga Frans Masereel si misero al lavoro sulla sceneggiatura di un film che non verrà mai prodotto, La rivolta delle macchine o il pensiero scatenato. A Cosmopoli, uno Stato universale coincidente con un mondo-metropoli totalmente automatizzato, la rivolta generale delle macchine, divenute senzienti e intelligenti, contro l’uomo suo creatore metteva in scena l’incubo di un’umanità futura ridotta a un ammasso di «automi confusi e città alienate» e preannunciava i timori odierni sui possibili sviluppi della quarta rivoluzione industriale.
Nei decenni successivi la fantascienza distopica visse nel dubbio se il mondo avrebbe preso la strada del totalitarismo duro prefigurato da 1984 di Orwell, ispirato al socialismo reale, o di quello morbido e seducente plasmato da Huxley in Il mondo nuovo sul modello dell’Occidente consumista. Arriviamo così agli anni Sessanta e Settanta, l’incubazione e gli inizi del periodo storico affrontato in Viaggio al termine della città. Se Ballard è stato il più acuto interprete letterario dell’alienazione dello spazio urbano dell’ultimo quarto del xx secolo, di fronte agli scenari di Smart City occorre rivolgersi all’altro genio della fantascienza di quegli anni.
Philip K. Dick ha prefigurato nei suoi romanzi una realtà alternativa che era lo specchio accelerato delle degenerazioni del capitalismo avanzato: dell’accumulo di catastrofi che rendono la Terra sempre più inospitale e inabitabile; della disumanizzazione di una società in cui la merce esercita un potere totalitario, narcotico e religioso; delle inquietanti prospettive dell’ibridazione tra umani e macchine e dell’intelligenza artificiale. In questa dimensione iperpolitica, le speculazioni filosofiche sul nocciolo duro del pensiero di Dick – che cos’è la realtà? – possono essere lette attraverso una delle più celebri sentenze di La società dello spettacolo di Debord: «Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso». Nel 1968, mentre le teorie situazioniste contribuivano all’insurrezione del maggio francese, Dick mandava alle stampe Gli androidi sognano pecore elettriche?, un romanzo immerso nell’atmosfera di una dissezione spietata del cuore malato della nostra civiltà; le illusioni di una vita fasulla appartengono tanto agli androidi, che si credono esseri umani e vogliono ribellarsi alla loro condizione subalterna di beni di lusso e schiavi, quanto agli umani che si muovono impauriti tra le ombre di un mondo il cui avanzamento tecnologico è direttamente proporzionale al suo desolante incupimento. Nel 1977, Dick sconvolse l’uditorio della conferenza di fantascienza di Metz, affermando di vivere una realtà parallela al cospetto della quale ci ammoniva ad andare cauti nel giudicare il mondo come spietato [Dick 1996]. Le sue visioni erano conseguenze plausibili di quello che tutti potevano percepire dietro la facciata della realtà. Questo spiega perché i suoi romanzi fossero ambientati in un futuro prossimo, tra la fine del xx e l’inizio del xxi secolo, in un’epoca in cui, se non fosse morto giovane, avrebbe potuto ancora vivere: quel futuro, in cui noi stiamo entrando gradualmente, per lui era un presente alternativo che abitava già.
Le ambientazioni dei romanzi di Dick sono spesso città lugubri – mondi urbani terrestri intrisi di solitudine o tetre periferie di colonie extraterrestri –, luoghi in cui l’umanità, sottomessa a stati di polizia e regimi totalitari retti da grandi multinazionali, vive sonnambula e anestetizzata. In molti di questi ambienti urbani tutto è automatizzato e smart: veicoli volanti autopilotati che interagiscono con i passeggeri, case governate da sistemi di sensori e comandi vocali, elettrodomestici e computer comandati a gesti. Vere e proprie anticipazioni di Smart City che non riguardano solo l’hardware ma anche il suo software: la polizia predittiva, al centro del racconto Rapporto di minoranza da cui è tratto il film di Spielberg, è diventata realtà nei dipartimenti di polizia di mezzo mondo che, in attesa dei precog, per prevenire i reati si affidano all’intelligenza artificiale e ai big data.
Dick associa dunque la catastrofe ambientale, sociale e mentale dell’umanità tardocapitalista a un futuro urbano ipertecnologico, con un’insistenza che suggerisce un significativo nesso di causalità. Questa compensazione di una vita ridotta a sopravvivenza tramite illusioni sensoriali e protesi tecnologiche illumina Smart City come surrogato
digitale della città novecentesca.
Per capire meglio questo passaggio torniamo a Gli androidi sognano pecore elettriche? e mettiamolo a confronto con la versione cinematografica realizzata da Ridley Scott in Blade Runner. Il film è molto diverso dal romanzo: tanti elementi mancano o sono alterati. Così, quando lesse la prima sceneggiatura del film, Dick ne rimase abbastanza deluso; eppure il suo giudizio cambiò radicalmente quando poté vedere in anteprima uno stralcio di venti minuti del film. Il noir urbano futuristico voluto da Scott, pur avendo trasformato le periferie vuote e desolate del romanzo in una megalopoli caotica e sovraffollata, era riuscito a creare un’ambientazione cupa che, secondo Dick, rendeva al meglio le proprie intenzioni. È soprattutto la scena iniziale a folgorarlo, come dirà in un’intervista:
Il film è ambientato tra quarant’anni. E il fatto che vi sia questa titanica sede della polizia a dominare l’intero paesaggio è precisamente come mi immagino il futuro fra quarant’anni. Milioni di piccole case e questo immenso palazzo della polizia [Dick 2005, pp. 217-218].
Uno dei temi fondamentali del romanzo omessi nel film è la distinzione tra gli animali reali, beni di lusso per i ricchi, e quelli elettrici, merci consolatorie per i proletari; in questo senso Dick riflette sulla formica come l’essere vivente meno dotato di empatia – il criterio che permette al cacciatore di androidi di riconoscerli tramite un apposito test – e più simile a un ingranaggio meccanico. In un racconto breve dello stesso anno, La formica elettrica, gli androidi che vivono il medesimo dramma di scoprire di essere delle semplici macchine vengono chiamate appunto «formiche elettriche». Qualche decennio prima, Le Corbusier, nello spiegare la ratio della sua «città radiosa», amava citare come modelli espliciti di riferimento i formicai e i termitai: nella città-fabbrica funzionalista gli uomini-formica dovevano muoversi come operai-automi. La città del futuro immaginata da Scott colpisce Dick per questa sua visione, nella quale il passato e il futuro della città-macchina si fondono: «Sembra proprio che l’abbiano costruita delle termiti, degli uomini-termite» [ivi, p. 218].
In Viaggio al termine della città proponevo una lettura dell’epoca secondo le categorie della distopia e delle eterotopie, ovvero del tramonto di un pensiero utopico all’ombra della forclusione del futuro di cui parlerà Fisher. Oggi è il capitalismo che passa al contrattacco, rispolverando per Smart City la categoria dell’utopia che si realizza; un’utopia capitalista per una esigua minoranza «privilegiata», ben inteso, mentre il resto della popolazione mondiale in eccesso continuerà ad ammassarsi nelle bidonvilles e negli slums.
In questo senso, se la fantascienza di Dick rimane una guida fondamentale per intuire la distopia che si proietta al di là degli schermi trasparenti di Smart City, dal punto di vista del pensiero politico occorre rilanciare il «principio speranza» di un’utopia concreta di cui parlava Ernst Bloch alla fine degli anni Cinquanta [Bloch 2019], unico antidoto al sentimento angosciante di no future annunciato già alla fine degli anni Settanta e oggi apparentemente inscalfibile. Per fare questo diventa necessario riempire quel «deserto della critica» provocato da decenni di decostruzionismo [Garcia 2016], tornare alle origini del «vicolo cieco dell’economia» [Michéa 2022] imboccato ormai troppo tempo fa e riannodare i fili di un pensiero che risulta tanto meno lontano quanto più coglieva la radice di quel mondo
in cui siamo sempre più immersi: la natura catastrofica del cosiddetto progresso; la sempre più evidente antiquatezza dell’uomo rispetto alla civiltà delle macchine; la non neutralità della tecnologia nell’universo capitalistico e il dilagare pervasivo delle sue nocività; il senso della superfluità della vita umana rispetto al totalitarismo dell’homo economicus; la passività, l’isolamento e l’annientamento di ogni esperienza
comunitaria indotti dalla mercificazione di ogni aspetto della vita; la distruzione avvilente della plurisecolare morale popolare di giustizia sociale, la common decency, a opera dell’ideologia e della neolingua progressiste.
Parallelamente, per ripensare la città al di fuori degli schemi disciplinari dell’utilitarismo, bisogna sottrarre all’oblio le esperienze storiche che in occasione di ogni rivoluzione del capitalismo si sono messe di traverso alle sue trasformazioni urbane, cogliendone la centralità strategica: i luddisti inglesi che, in nome di una secolare «economia morale» [Thompson 1969] e condividendo la sensibilità di una componente del movimento romantico, combatterono contro le nuove condizioni di vita imposte dall’inurbamento industriale; i comunardi parigini che insorsero per riconquistare la città espropriata dal piano urbanistico di Haussmann, opponendo il progetto del «lusso comune» [Ross 2020] al tentativo di trasformare le classi pericolose in classi lavoratrici addomesticate a essere un nuovo pubblico di consumatori e spettatori; gli spartachisti tedeschi che nell’insurrezione del 1919, affiancati da artisti e intellettuali, identificarono nella livida Berlino la «minacciosa città costituita dai padroni per i padroni» [Jesi 2000, pp. 37-38], una tabula rasa su cui il capitalismo avanzato poteva tracciare le coordinate dei propri nuovi bisogni, al contempo campo concreto di battaglia e simbolo dell’ordine borghese da rovesciare; i situazionisti che, tra le crepe della nuova vita urbana degli anni Cinquanta, quella del metrò-boulot-dodo, trovarono il centro nevralgico in cui si manifestava il tratto totalitario della nuova società dello spettacolo e a cui opposero l’ultimo progetto utopistico, rivoluzionario e costruttivo del Novecento, l’urbanismo
unitario. Senza dimenticare Lewis Mumford, Murray Bookchin e Henri Lefebvre, i quali ci hanno ricordato la necessità del «diritto alla città», ancora oggi il migliore antidoto alla nuova disciplina di Smart City.
Ballard e Dick hanno permeato la poetica musicale di molte band inglesi a cavallo tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta. A Sheffield, in particolare, tra le fabbriche dell’acciaio in via di dismissione, gruppi come The Human League, Cabaret Voltaire e Clock dva hanno dato vita a immagini sonore che incarnavano tanto la malinconia delle rovine delle città industriali quanto l’inquietudine per gli spazi urbani futuri della civiltà occidentale, profezie di Smart City. Anche John Foxx, cantante degli Ultravox e poi solista, proveniva dalle macerie industriali del Lancashire.
Il suo album Metamatic del 1980 è un capolavoro post-punk, ballardiano e dickiano fino al midollo: se Underpass evoca l’essenza cupa della città di cemento al suo tramonto, A New Kind of Man ci parla degli abitanti futuri di Smart City. Mark Fisher era un appassionato di letteratura, cinema
e musica, autore di brillanti recensioni sia di film di fantascienza sia di gruppi post-punk, ed è proprio in una lunga intervista rilasciatagli nel 2006 che John Foxx raccontava il suo trasferimento dal Lancashire a Londra attraverso il filtro delle letture di Ballard e di Dick, «autori di fantascienza che descrivevano un futuro prossimo, che conducevano esperimenti mentali in cui esploravano le probabili conseguenze e immagini di un presente non riconosciuto» [Fisher 2019, p. 226]. Così, riconducendo al loro immaginario la concezione dell’album The Garden del 1981, John Foxx disse:
La società industriale si sta trasformando in una società tecnologica, per via della scoperta del microchip, e ci sono un sacco di fabbriche e uffici che diventeranno inutili. Penso che nel giro di venti o trent’anni in certi quartieri di Londra ci saranno intere costruzioni abbandonate e mi piacerebbe vedere la natura impadronirsene. Appena arrivato a Londra, sognavo spesso di passeggiare lungo Oxford Street e che una foresta ne aveva preso possesso [Guglielmi, Cilìa 1995, p. 91].
Cent’anni prima William Morris aveva sognato qualcosa di simile immaginando una Londra liberata dai miasmi del capitalismo industriale in Notizie da nessun luogo. Era la visione di un’umanità libera, socialista, basata sul mutuo appoggio, la democrazia diretta, «l’arte fatta dal popolo per il popolo», ovvero la libera creatività collettiva che rimodella l’ambiente e la vita in accordo con la natura. Un pensiero utopico di cui sembra non esserci più traccia.
Oggi il futuro assomiglia sempre di più a quel presente alternativo che Dick affermava di abitare già e, come il protagonista di Un oscuro scrutare, siamo costretti a spiare noi stessi attraverso i vetri delle città passate, presenti e future per provare a sfuggire ai giochi di specchi del grande inganno che si autoriproduce da ormai troppo tempo. Gli strumenti critici con i quali, negli anni Venti del Novecento, venne colta la rapida traslazione della trasparenza della città funzionalista da utopia progressista ed egualitaria a distopia disumanizzante, sono ancora utili, a un secolo di distanza, per decriptare la trasparenza digitale di Smart City.
Se quest’ultima assomiglia infatti a un prototipo ad alta velocità e a guida automatica di quel treno catastrofico del progresso che accelera la corsa verso il baratro, spero che il mio Viaggio al termine della città della fine del xx secolo possa ancora risultare una lettura utile, se non a trovare, almeno a ricordarci che su quel treno, da qualche parte, ci deve ancora essere il freno di emergenza: l’ultima possibilità rivoluzionaria che ci rimane, come ci ammoniva Walter Benjamin ormai un secolo fa [Löwy 2020]. Nel frattempo, se vogliamo fare un giro di prova su quel treno, ascoltiamoci ancora una volta No-One Driving di John Foxx.
Prefazione alla nuova edizione di Viaggio al termine della città (elèuthera, 2009): titolo completo originale Un oscuro scrutare. La trasparenza distopica di Smart City (2024).
Riferimenti bibliografici
– Bloch Ernst, Il principio speranza, Mimesis, Milano-Udine, 2019.
– Byung-Chul Han, La società della trasparenza, Nottetempo, Milano, 2012.
– Dick Philip K., Se questo mondo vi sembra spietato dovreste vedere cosa
sono gli altri, e/o, Roma, 1996.
– Dick Philip K., Rapporto di minoranza e altri racconti, Fanucci, Roma, 2005.
– Fisher Mark, Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia
e futuri perduti, Minimum Fax, Roma, 2019.
– Garcia Renaud, Il deserto della critica, elèuthera, Milano, 2016.
– Garnier Jean-Pierre, Smart City. La «città radiosa» nell’era digitale,
Nautilus, Torino, 2019.
– Guglielmi Federico, Cilìa Eddy, New Wave, Apache, Roma, 1995.
– Jesi Furio, Spartakus. Simbologia della rivolta, Bollati Boringhieri, Torino, 2000.
– Löwy Michael, La rivoluzione è il freno di emergenza. Saggi su Walter
Benjamin, Ombre Corte, Verona, 2020.
– Michéa Jean-Claude, Il vicolo cieco dell’economia, elèuthera, Milano,
2022.
– Reynolds Simon, Post punk 1978-1984, Minimum Fax, Roma, 2018.
– Ross Kristine, Lusso comune. L’immaginario politico della Comune di
Parigi, Rosenberg & Sellier, Torino, 2020.
– Savage Jon, Il (grande) sogno inglese. I Sex Pistols e il punk, Arcana,
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– Thompson Edward P., Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, il Saggiatore, Milano, 1969.
– Zamjatin Evgenij, Noi, Mondadori, Milano, 2018
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