
di Alessandro Pertosa*
L’economia dell’età moderna è economia politica. Vale a dire è un’economia che non si riferisce più in modo prevalente al ristretto ambito familiare delle società antiche e medievali, ma si struttura nel più ampio orizzonte sociale, finendo per diventare col capitalismo una sorta di spazio libero entro cui opera senza vincoli il mercato globale. La modernità registra il più significativo passaggio di consegne: il bastone del comando si trasferisce dalle mani del kyrios-pater familias al capo di governo, il cui impegno è volto ad aumentare la ricchezza dello stato per mantenere al meglio i mercenari, le corti, i funzionari e la costosissima macchina amministrativa: strumenti, questi, che agli occhi dei dominatori servono a proteggere gli interessi nazionali (ma si legga «interessi dell’élite al potere») dagli attacchi esterni. In virtù di tale obiettivo, la politica e l’economia fondono così in modo definitivo e palese i propri orizzonti. Si pensi, in effetti, alle operazioni monetarie compiute, già nella seconda metà del XVI secolo, dai principali governi per finanziare gli eserciti, e si considerino anche gli accordi internazionali sottoscritti dagli stati più potenti con l’intento di privare i nemici dei capitali necessari allo sviluppo tecnologico, capitali utili a elaborare sistemi sempre più sofisticati di difesa territoriale.
Sull’onda dell’euforia, dettata dal desiderio di dominare l’intero globo terrestre, il fiume in piena dell’economia politica corre sempre più veloce. La furia impetuosa del flusso economico appare nello splendore accecante della sua frenesia, tanto da travolgere gli argini e tutti gli ostacoli frapposti nel mezzo (ostacoli presentati di volta in volta dall’economia cristiana – che non vuole rassegnarsi alla marginalità cui è costretta – e dalle economie civile, socialista, marxiana, che pur nelle singole differenze puntavano comunque tutte a rendere più equo sia l’accesso ai beni, sia la distribuzione degli stessi) per approdare infine nel pelago burrascoso del capitalismo (che è già trapassato nella tecnica). E proprio lì lo scontro violento, fra un’esigua minoranza di dominatori e una massa ampia di dominati, raggiunge l’acme della rissosità. La tensione che ne consegue assume dimensioni planetarie, ogni ambito della realtà viene scosso dalla violenza con cui gli operatori economici cercano disperatamente di massimizzare gli utili, le ricchezze e il profitto a discapito di tutti gli altri.
Lavoro salariato
Nel marasma generale, le correnti di dominio si palesano con estrema rapidità, l’acqua è agitata, la navigazione percorre rotte non sempre lineari e la potenza espressa dalla violenza esercitata dall’uomo sull’uomo appare sempre più incontrollabile. Nonostante tutto, la classe al potere ripete come un mantra che questo è il migliore dei mondi possibili; che la sobrietà non è affatto una virtù, ma l’anticamera della povertà; che sostituire la maggior quantità possibile di merci con beni derivanti dall’autoproduzione o dallo scambio non mercantile fondato sul dono e sulla reciprocità arresta il ciclo produttivo e determina l’incremento della disoccupazione; che non c’è alcuna reale possibilità di organizzare la società e le relazioni politiche secondo dinamiche differenti da quelle strutturate all’interno dello spazio capitalista e tecnologico; e che infine pensare di fermare il treno in corsa dell’economia è una pura utopia da rigettare, perché se si arresta la crescita economica si rischia di tornare alle caverne, di essere più poveri, di non aver più merci a disposizione.
Questa grande illusione – ma si farebbe forse meglio a dire malafede – si accompagna ad alcuni dogmi indiscutibili, fra cui l’identificazione del lavoro con il lavoro salariato, così come anche la convinzione che ridurre l’acquisto di merci inutili comporti di fatto un inevitabile aumento della disoccupazione, e di converso la certezza che la crescita infinita dell’economia determini un aumento progressivo e illimitato della ricchezza e dell’occupazione. E dato che solo attraverso il costante aumento del profitto il mare in tempesta del capitalismo spera di placare le acque agitate dei mercati, l’ideologia imperante propone di credere che la salvezza dalla miseria e il progresso universale passino per l’appunto attraverso l’incremento costante dei consumi. Ma, ora, se l’unico obiettivo dell’agire economico diventa realmente la crescita senza limiti dell’economia, tutto ciò che non tende ad essa – ovvero tutto ciò che esprime il senso del limite, o che ha una definizione proprio perché è confinato – subisce necessariamente un processo di emarginazione, di ridimensionamento, se non anche di distruzione. E ancora una volta l’interesse e il potere di pochi – quei pochi che puntano a massimizzare i propri profitti senza curarsi di null’altro – viene esercitato sui molti.
Il capitalismo tecnologico
Il capitalismo tecnologico manifesta così la sua gloria potente. E il senso di questa affermazione può essere meglio inteso tornando alla metafora del fiume. È come se ad un certo punto della storia umana, e precisamente nel momento in cui è nato il capitalismo, il corso del dominio abbia fatto un salto di qualità, ampliando a dismisura la capacità di controllo del kyrios dell’economia greca, divenuto nel frattempo kyrios-capitalista. Sicché quando ciò è avvenuto, l’attività economica ha disteso i suoi tentacoli ovunque. Da quel momento il mercato globale non poggia più sullo Stato, sul centralismo o sul potere del governo, ma si basa esclusivamente sull’iniziativa individuale di chi punta ad aumentare la propria ricchezza all’infinito.
Per ottenere tale obiettivo, e per massimizzare quindi al massimo il potere sull’Altro uomo e sulle cose, il capitalista ricorre alla tecnica, che diventa così il fattore determinante dello sviluppo. La forma assunta dall’economia capitalista e finanziaria in questi ultimi due secoli è quindi una forma sempre più tecnologica. E proprio qui va rintracciata la causa principale della crisi di sistema in cui ci troviamo. Per spiegare il ragionamento si consideri che quando qualcosa si tras-forma e assume le sembianze di qualcos’altro, ciò che esisteva prima smette di essere identico a se stesso e trapassa nel risultato della trasformazione stessa. Ma in questo passaggio dalla forma A alla forma B, A finisce di essere A e muore proprio nel momento in cui diventa B. Con ciò, allora, quando il capitalismo A ricorre alla tecnica B, la forma di A comincia a trasformarsi progressivamente; il capitalismo diventa sempre più tecnologico, e alla fine diventando interamente B muore in B: con questo processo, il capitalismo si trasforma in tecnica.
Si lavora per comprare
Quest’ultima considerazione credo necessiti di un approfondimento. La crisi che ha colpito l’economia globalizzata sembra aver raggiunto davvero l’Armageddon, in cui il declino del capitalismo annuncia al contempo la sua fine e la gloria onnipervasiva della tecnica, ormai sulla soglia della soluzione finale. La modernità che abitiamo scarta verso destini incontrollati, rincorrendo l’illusione di infinitizzarsi in quello che, però, è l’incubo di una società della crescita senza fine. E il rischio attuale è proprio quello di ignorare – perché non si è neppure in grado di cogliere – il pericolo di una società s-finita, che persegue fini distruttivi e sforma l’essere-terra in un essere inabitabile e depauperato.
Lo spettacolo è desolante. Tutto fila via verso la distruzione, e la dittatura della tecnica (che da mezzo si è elevata a scopo universale dell’agire umano) non sembra ancora avere rivali attrezzati e capaci di limitarne il potere. L’ubriacatura del progresso continuo e illimitato rende i singoli individui compratori illusi, voraci e infelici; clienti fidati, acritici e remissivi; soggetti informi e molli alla stregua di oggetti manipolabili nelle mani dell’élite economica; li rende acquirenti affetti da manie ossessivo-compulsive, storditi da merci sempre nuove e accecati dall’obsolescenza programmata, psicologica, indotta dalla pubblicità. Dinanzi a sé l’uomo contemporaneo, senza più alcuna distinzione di classe sociale, sogna il progresso infinito, spera di oltrepassare ogni ostacolo, predica la crescita continua della produzione di merci e dice persino di scorgere all’orizzonte un luminoso futuro. Eppure non è, e non sarà, così, perché nel frattempo dovremmo anche cominciare a capire che la finitezza di questo mondo pone a ciascuno di noi dei limiti precisi alla prometeica volontà di trasformare la realtà secondo i propri interessi economici. Ma è un fatto, lo riconosco, che non sembra ancora giunto il momento della piena consapevolezza comunitaria di questo dramma. Così come non è granché percepita neppure la violenza totalizzante del fenomeno tecnico, dinanzi al quale la gran parte dell’umanità resta gioiosamente sottomessa. Tanto che da alcuni decenni, l’uomo, alla stregua della macchina, viene ridotto a mero oggetto meccanico, a ingranaggio-robot: condizione questa che non lo rende solo subordinato alla tecnica, ma in un certo senso lo sfinisce, lo marginalizza progressivamente verso l’ambito crudo dello strumento. Certo, non possiamo negarlo, di recente la tecnica ha risolto all’uomo un gran numero di problemi materiali, ma ha al contempo nascosto gli effetti collaterali che il processo evolutivo portava con sé. Lo strumento di lavoro, da sempre considerato un mezzo adoperato in vista di scopi concreti, nell’orizzonte folle della crescita esponenziale del profitto viene usato con la pretesa di poter superare ogni limite. Per la società contemporanea, il lavoro non è più l’esercizio con cui l’uomo realizza qualcosa di utile, un bene da apprezzare, da donare o da contemplare, ma rappresenta esclusivamente il mezzo di scambio fra la merce-uomo e gli infiniti oggetti acquistabili da immettere sul mercato (mezzi, anch’essi, dello sviluppo capitalista, perché il loro acquisto continuo determina l’incremento della domanda, che a sua volta stimola la produzione della merce). Il senso di queste considerazioni è che oggi si lavora per vivere da acquirenti, o meglio si vive con l’obiettivo principale – se non unico – di comprare: e si lavora anche per comprare quei prodotti che ormai non siamo più in grado di autoprodurci da soli, perché abbiamo disimparato a occuparci dei nostri interessi immediati.
Il tempo è denaro
All’interno di questo circolo vizioso, l’idea del lavoro buono (a questi temi dedica alcuni capitoli Paolo Cacciari in Vie di fuga, ndr), inteso come il risultato di un’azione produttiva utile, viene sostituita dal concetto ritenuto ormai indiscutibile, ma particolarmente tendenzioso, della remunerazione del proprio tempo: da qui l’emersione del totem «il tempo è denaro». È questo il primo comandamento della religione capitalista, ormai tecnologica, che insegue a tutti i costi la massimizzazione del profitto. Ognuno è allora autorizzato ad approfittare di tutto e di tutti pur di fare il proprio interesse, e poco importa se ottiene dei vantaggi a discapito degli altri soggetti che compongono la comunità, o se sfrutta interi popoli che nel frattempo è riuscito a sottomettere. Perché in fondo, come abbiamo visto, lo scopo dell’agire economico è proprio questo, aumentare progressivamente la potenza individuale e dominare gli altri per renderli schiavi. Sicché, in questo «fare infinito» in vista del potere, il lavoro umano – che è ormai relegato al ruolo di mezzo, a congegno che si usa – proprio nell’esplicare al massimo la sua funzione strumentale indebolisce la sua forma (la forma «lavoro»), e la indebolisce perché quel lavoro stesso serve (nel senso che esso è quindi servo) al conseguimento di un fine infinito, o, il che è lo stesso, il lavoro viene usato per realizzare uno scopo di fatto ossimorico (il fare umano infinito) impossibile da raggiungere.
In tale contesto, il lavoro umano – sfinito dalla continua usura e gradualmente allontanato dal processo produttivo, perché costoso e non pienamente efficace – cede il passo alla tecnica, la sola in grado di ottenere costantemente risultati sempre migliori e a minor costo. Ma proprio qui sta la radice della crisi sistemica dell’economia capitalista, pronta in ogni momento a emarginare l’uomo e il suo saper-fare preferendogli la globalizzazione tecnologica; in questa situazione, la tecnica diventa la nuova divinità onnipresente, si infila ovunque fra le maglie dell’umano e non lascia spazio ai risanamenti economici, politici o morali di sorta. E così il potere espresso dall’apparato tecnologico, se inserito all’interno di una razionalità volta a massimizzare il dominio, diventa inarrestabile e fuori da qualsivoglia controllo, e proprio per questo motivo ci troviamo ormai davanti alla dittatura dello strumento – pensato originariamente dall’uomo come congegno atto a semplificare la vita – che ha smesso col tempo i panni del mezzo per elevarsi a scopo e farsi infine dio.
Il dogma tecnologico
L’economia tecnologica disumanizza così il mercato e oltrepassa il capitalismo trasformandolo. Tutto viene operato in vista della competizione, della guerra, del potere e del controllo delle risorse energetiche. Ma ciò avviene al prezzo di un dominio complessivo della tecnica che distrugge persino il capitalismo. Perché l’obiettivo prefissato dal potere economico che punta a massimizzarsi all’infinito non è più quello di produrre della merce da immettere nel mercato, quanto invece di ampliare a dismisura l’apparato tecnico, al fine di consentire al dominatore un controllo totale dell’Altro, della natura e dei processi produttivi. Nell’orizzonte che si prospetta non c’è quindi alcuno spazio per la mutua comprensione, per la condivisione comunitaria, per la partecipazione alle gioie, ai desideri, ai dolori dei propri simili. Il dogma tecnologico impone la sistematica frammentazione del corpo sociale. Ognuno deve badare a se stesso senza considerare gli interessi e i bisogni degli altri, perché fuori di sé – oltre i limiti del proprio Io – non si presenta nulla per cui valga davvero la pena spendersi. L’idea di fondo si basa sul pregiudizio che la società si regga sul successo individuale dei soggetti più ingegnosi e spregiudicati anziché sulla solidarietà e sulla cooperazione.
Ma non è certo questo un progetto che ha futuro. E per l’appunto se prosegue nel solco del dominio economico capitalista, la società occidentale è destinata a crollare sotto il peso delle lotte intestine, dei soprusi, degli egoismi e in particolare della violenza ubiqua; si tratta di quella stessa violenza, diffusa a dismisura dallo strumento tecnico, che rende l’homo capitalisticus incapace di cogliere nell’Altro i segni di una comune umanità. E la persistenza all’interno di questo quadro culturale non può che portare alla frammentazione, alla divisione, alla scissione. Perché l’ideologia della crescita infinita, che massimizza i tratti cruenti del dominio, fa di ogni cosa una merce modificabile dalla tecnologia. Le dinamiche mentali della contemporaneità sono preda di questa credenza – ch’è diventata ormai una patologia ossessiva – per cui la società non è altro che un immenso mercato, dove ogni cosa risulta disponibile e in via di trasformazione. E ancora una volta noto come, stando al pensiero dominante, non sembra esserci via d’uscita. Gli intellettuali di regime ammettono l’ineluttabilità del dato; nessuno può farci niente, dicono, perché alternative concrete non ce ne sono, il progresso è in cammino (ai miti da sfatare, come il progresso, ha dedicato molte ricerche Ivan Illich, come racconta Theodor Shanin in Dissacrare il progresso, ndr) e indietro non si può tornare.
Alla tecnica in continua evoluzione si chiede la realizzazione immanente dell’eternità: e la richiesta è prima di tutto individuale, ovvero è il singolo uomo a farla per se stesso, non certo per l’umanità intera. Ma piuttosto che il paradiso terreno, l’immaginario sembra profilare un inferno terrificante attraversato da conflitti e continue minacce di annientamento. Col capitalismo tecnologico tramonta così definitivamente qualunque ipotesi di istaurare relazioni orizzontali fra i singoli componenti della società, perché la violenza del mercato induce alla lotta fratricida; lotta che sfinisce il cosmo a colpi di interessi egoistici e di sfruttamento tecnologico irresponsabile delle risorse naturali. Si tratta di capire, allora, che per salvare il pianeta dobbiamo abbandonare il capitalismo e la forma attuale che sta ormai assumendo, la tecnica (e a maggior ragione è necessario lasciar tramontare la razionalità economica che sorregge entrambi), perché quella mano che qualcuno riteneva invisibile è, in verità, proprio la stessa mano che schiaccia.
* Alessandro Pertosa, ricercatore in filosofia, scrive irregolarmente di filosofia, economia, teologia, bioetica, decrescita. Docente universitario, cura il sito-rivista artedecrescita.it. Il suo ultimo libro è Dall’economia all’eutéleia (Ed. Decrescita felice). In questa pagina, il secondo di diversi saggi (il primo è Il luogo del dominio) che indagano i concetti di economia, decrescita, utopia, potere.
L’adesione di Alessandro Pertosa a Ribellarsi facendo è leggibile qui: Comune si abita volentieri
DA LEGGERE
Senza dominio Marco Calabria
È il mondo di tutti, dicono le donne, cambiamolo
La buona economia non esiste Serge Latouche
Lascia un commento