Attraverso lo schema dei quattro discorsi di Lacan, la pedagogista María Paulina Mejía Correa analizza il legame che intercorre fra alunno e maestro, utile per comprendere la natura dei vincoli di potere che instauriamo, di cui siamo protagonisti, come locutori e come destinatari di una enunciazione
di Renata Puleo*
Il pensiero di Lacan è un costrutto complicato, difficile da affrontare “comprendendolo” completamente e definitivamente. Per usare una figura topologica cara allo stesso Lacan, potremmo immaginarlo come un Toro, l’anello che si avvolge su se stesso, generato da una spirale che non cessa mai di dare il giro. Pura fisica quantistica, non newtoniana [1]. Eppure, malgrado le difficoltà e soprattutto l’opera di denigrazione che certa vulgata di sinistra, femminista, destrorsa (insieme nell’opera di rigetto, separate nelle motivazioni che qui non posso esplicitare) ha fatto di Lacan e di tutta la psicoanalisi, oggi l’attenzione al suo lavoro torna in termini politici oltre che clinici. Si potrebbe dire di Lacan come di Marx: i loro lavori intellettuali, pur nei limiti temporali e culturali che li caratterizzano, sono densi di ipotesi, modelli, intuizioni che possono essere ancora messi al lavoro per il nostro tempo. Non a caso, spesso, questo lavorio di rilettura, di critica, di rilancio, viene svolto da studiosi di paesi ai margini della cultura europea, margini geografici e bordi culturali, come nel caso dell’Argentina, o del Centro-sud America, che quella cultura hanno dovuto filtrare per liberarla dalle scorie del colonialismo e dell’imperialismo, reinventandola.
Fatta questa breve premessa vengo al punto, chiarendo che non sono una specialista, non sto dentro a nessun discorso sulla/della psicoanalisi, mi limito a quello dell’educare e dell’istruire per pratica decennale. Mi perdoneranno dunque universitari e psicoanalisti, titolari, come ci insegna Lacan, di “discorsi ufficiali”, autorizzati.
Ed è a proposito di discorsi che mi imbatto in un bell’articolo di María Paulina Mejía Correa [2] in cui la pedagogista colombiana analizza il legame che intercorre fra alunno e maestro attraverso lo schema dei quattro discorsi di Lacan [3]. Senza addentrarmi nella spiegazione di questo lavoro seminariale di Lacan, dirò solo che – come mostra Mejía Correa e come vedremo più avanti – esso risulta utile per comprendere la natura dei vincoli di potere che instauriamo, di cui siamo protagonisti, come locutori e come destinatari di una enunciazione. Mejía Correa commenta, attraverso la lezione lacaniana, la natura del vincolo iscritto nella relazione di insegnamento-apprendimento. Tale interesse è oggi sollecitato dalla miseria culturale con cui i fautori della valutazione oggettiva stigmatizzano negativamente tale vincolo. Si tratterebbe di una sorta di protezione materna, lascito di un passato che tarda ad abbandonare la scuola italiana, che impedisce ai docenti di leggere e misurare con il dovuto distacco scientifico le abilità e le competenze degli allievi [4]. Se i vincoli creati in classe sono per forza di cose asimmetrici, simili a quelli che intercorrono fra un adulto accudiente e un soggetto bisognoso, è proprio la protezione della natura particolare di questa relazione che deve premere ad un buon insegnante.
“I vincoli umani legano, sia solo per un istante, e lasciano il segno […] – scrive Mejia Correa – per la psicoanalisi il vincolo implica l’esistenza di due termini, in cui uno deve interpellare l’altro e incidere su di lui in qualche maniera; [ma] non è solo una parte a costituire il vincolo, [esso] si realizza fra due parti che con-sentono, che si dis-pongono l’una rispetto all’altra”.
Se non si vuole che l’insegnamento sia un monologo del maestro occorre grande attenzione alla modalità attraverso la quale si legano fra loro gli attori presenti in classe. Tale legame è di tipo particolare perché implica un passaggio di saperi, un’offerta istituzionale rappresentata dal maestro e una domanda tipica, ripeto, dell’asimmetria nel rapporto fra creature piccole e adulti, domanda che va stimolata, ascoltata, accolta. Solo tale ascolto accogliente rinnova nei giovani alunni una continua domanda e una reiterata interlocuzione dis-cussiva, non segnata dalla passività, ma anch’essa attoriale.
Continua la pedagogista dicendo che il segreto di un buon insegnante sta nella re-invenzione continua del vincolo, per nulla scontato. Ma non tutti i legami riescono bene ai fini dell’apprendimento e della buona qualità della relazione educativa: “[…] si possono stabilire varie modalità di legame […] ci possono essere domande senza offerta, offerte prive di valore per chi le riceve [… ] vale a dire che un oggetto deve produrre soddisfazione, […] se non evoca una promessa perde di lucentezza”.
L’oggetto che offre il maestro è il suo sapere; l’offerta è orientata dal suo desiderio di adulto verso l’alunno, dal suo immaginare la modalità dello scambio, dall’attesa verso i cambiamenti, da ciò che crede di aver inteso nella domanda dell’interrogante. Il desiderio circola, come si vede, non è a senso unico: quello del maestro e quello dei suoi allievi, danzano, si alimentano vicendevolmente. Ciò che il maestro suppone di sapere è forse ciò che manca all’alunno, ed egli cerca di riempire tale mancare, sempre che riesca ad esserne consapevole, edotto. Consapevolezza il cui raggiungimento è di nuovo compito dell’adulto, dell’istituzione che lui rappresenta in quanto insegnante dentro un percorso intenzionale. Così come circolano i desideri, così circolano le relazioni di potere atte a soddisfare o a disconoscere le situazioni di “dis-aiuto” e di necessità in cui gli essere umani sono catturati.
Ma quali sono gli elementi del vincolo qui proposto alla nostra attenzione da Mejia Correa? Lacan elabora il concetto di vincolo a partire dalla nozione di discorso. Ma cos’è dunque un discorso? Esso è una struttura che eccede di molto la parola, prevede un soggetto che enuncia e dei modi specifici di trattare i significanti, i significati, il segno linguistico. Per dirla con Foucault il discorso è un’organizzazione della realtà attraverso rappresentazioni e pratiche, è il complesso dei vocabolari, delle locuzioni, dell’azione scenica, che segna una relazione fra parlanti. E ovviamente, come vedremo, molto ha a che fare con il posto che l’enunciante e l’interlocutore occupano nella relazione. “Non si tratta di una conversazione” – aggiunge la pedagogista – perché sotto ogni discorso si cela spesso un modo di porgere il discorso di cui gli attori non sono consapevoli, inchiodati come sono al proprio io diviso e alla forza che su di esso esercitano le convenzioni sociali. Niente a che vedere con lo schemino della comunicazione emittente-messaggio-ricevente cara a certa semplificazione linguistica e politica. “L’agente si pone in un certo modo di fronte all’altro per ragioni estranee anche a se stesso […] niente a che vedere con gli ideali” della comunicazione efficace e di una presunta sincerità di intenti. Così, in molte occasioni, le ragioni che un docente adduce per giustificare certe posizioni possono essere molto lontane dalle motivazioni inconsce che le sostengono.
Secondo Lacan la trama dei discorsi si sviluppa su quattro piani: il discorso del Padrone, dell’Universitario, dell’Isterica, dell’Analista. Anche ai non avvezzi al lavoro lacaniano essi suggeriscono le diverse posizioni di potere fra chi li enuncia e chi li ascolta: diversi sono giri di frase, diversi i vocabolari, diverse le modalità non linguistiche di porgerli e di recepirli nell’accoglienza e nel rifiuto. E dunque saranno differenti i risultati sul piano della relazione, dei vincoli che essi instaurano.
Vediamo la trasposizione che ne fa Mejía Correa nel contesto educativo:
Il Maestro Padrone è da solo, assiso in un piano più elevato (pensiamo al valore simbolico della cattedra sulla pedana, ancora in molti casi presente in aula), la sua posizione richiede la frontalità e il silenzio, l’unidirezionalità dello sguardo, la titolarità unica della parola. Ciò che egli offre alla “fame di sapere, genericamente inteso” dell’alunno è un messaggio tipico del suo discorso: lavora, lascia da parte quel che desideri e ti piace, non pensare, obbedisci, non discutere. La conseguenza è molteplice, va dal compiacimento colpevolizzato dell’alunno al desiderio del Maestro, fino alla ribellione e al disastro educativo e scolastico, passando per le vie intermedie dell’indifferenza e della noia verso ogni forma di sapere veicolato dalla scuola. Il “ti ordino di imparare” dunque non funziona rispetto al desiderio, non civilizza l’ansia di godimento infantile o adolescenziale, mortifica e perverte anche il desiderio del Maestro, anch’egli – dice la pedagogista – “è un castrato, non sa certo tutto, è continuamente in errore […] angustiato dalla sua stessa maschera”.
Il Maestro Universitario è l’erudito. Egli pensa di disporre della Verità, di esserne il depositario unico, crede che essa sia senza fratture, aliena dal dubbio. La sua fiducia nella scienza, soprattutto se esatta, è inattaccabile, non la mette in questione: così come chiede ai suoi alunni l’accettazione completa, è accettante verso coloro che considera gli “esperti”, quelli che i libri li scrivono, che i paradigmi li elaborano e li difendono da ogni attacco critico. In fondo anche lui è un piccolo padrone, un vassallo forse, un esattore di saperi. Viene citata María Zambrano quando afferma: “Si suole caratterizzare la nostra epoca come irreligiosa. Più corretto sarebbe scoprire le religioni che la abitano clandestinamente. Clandestinamente, perché la caratteristica di queste religioni nascoste è che i loro credenti non le credono tali; i loro credenti non vogliono davvero credere in esse ma le servono – loro malgrado – senza volontà, senza coscienza, senza senso di responsabilità” [5]. Il vincolo che ne risulta è quello fra una sorgente e il suo invaso, destinato solo ad essere riempito, svuotato, riempito.
Il Maestro Isterico è quello che mostra i suoi sintomi, che non li occulta, che sa di sbagliare anche quando non sa come. Egli vive sulla sua carne la difficoltà di essere investito istituzionalmente di un compito difficile, di esser affetto dal desiderio suo e da quello giovanile, talvolta oppresso dalla responsabilità tipica del soggetto che dispone di conoscenze, che deve porsi in posizione di aiuto, di protezione senza farsi allettare dall’indulgenza. Senza perdere “l’infra” che lo separa dall’Altro, dall’alunno. Nel discorso isterico il Maestro può rendere mobile, attivo l’insegnamento, può accogliere inquietudini, dubbi e fessure nell’edificio dei saperi, deve guardarsi dal considerare il vuoto che il dubbio apre come qualcosa che non potrà mai esser riempito. Insomma, la sua è una posizione di bilico, di rischio di nichilismo educativo.
Il Maestro visto attraverso il discorso dell’Analista è il più difficile da decifrare, dice Mejía Correa, perché qui entrano in campo i significanti inconsci, il sapere sull’inconscio. “L’agente che si propone come analista ha potuto costruire un sapere su ciò che lo determina, la verità soggiacente la sua stessa posizione. Un sapere che gli permette di ascoltare l’Altro senza interporre le sue conoscenze pregresse, anzi, al contrario, mettendo l’Altro in grado di avere informazioni su ciò che ha di più intimo solo mediante quel che dice. […] Ora, questo discorso apre ad un interrogativo: nel vincolo fra Maestro e alunno si può dare un sapere sull’inconscio? Quando si evidenzia che il vincolo con il Maestro trasforma l’alunno? Che dimensione dell’essere è interessata a questa trasformazione?”.
Su queste domande si chiude l’articolo della pedagogista. Non ci sono risposte? Si tratta sicuramente di un punto particolarmente problematico. Tutti e quattro i discorsi funzionano in ambito educativo come potenti metafore; l’effetto del “come se” fa compiere un salto logico. Nel caso dell’ultimo discorso l’azzardo, e dunque il rischio della creazione di una figura ambigua, è maggiore. Si tratta, si direbbe, di usare una creazione metaforica che anziché segnalare le affinità di alcuni tratti non fa che esaltare le differenze. Il vincolo fra un analista e un paziente è strettamente legato ad un setting in cui, come sottolinea la pedagogista, il lavoro del primo sulla parola del secondo non è di insegnamento, non si dis-piega in base ad un sapere supposto migliore, meglio strutturato. Se così facesse l’analista cadrebbe nel discorso del padrone o in quello dell’universitario. L’analista non ha nulla da insegnare, da spiegare. Per contro, il compito del discorso magistrale è più intricato e intrigante rispetto al movimento cui è sottoposto il desiderio, nello scambio di doni. Il maestro deve insegnare ad amare il sapere come egli lo ama e lo cura, e lo cura perché lo insegna e insegnando non smette di apprendere sulla materia e sullo stile del suo insegnamento.
Provo a fornire qualche esempio. Un brano di letteratura, una dimostrazione matematica, una discussione che produce l’inaspettato: la meraviglia per la bellezza diventa un atto morale, evidenzia la soddisfazione e lo scacco tipici di ogni scoperta, di ogni fruizione, sia essa gioiosa o terribile. Ecco allora che il gioco metaforico di Mejia Correa funziona e le domande in chiusura contengono una risposta: la trasformazione è del Maestro con l’allievo, sono le preposizioni a fornirla. La dimensione profonda, intima di ciascuno è quella che ne è interessata. È quel che succede quando possiamo ricordare la traccia lasciata dentro di noi da un “maestro di vita”.
Ma altro resta da dire. Ciascuna delle quattro dimensioni della struttura discorsiva di Lacan è in realtà co-presente in ogni insegnante, nei vari momenti della sua vita professionale e personale, nei diversi incontri a cui è sottoposto, pertanto diventa molto delicato arrivare a conclusioni certe sui possibili vincoli generati dalla relazione insegnamento-apprendimento. Nessuna superficialità dunque, sembra suggerire la pedagogista, ma molta prudenza nell’assumere come una sorta di classificazione esplicativa il contribuito di Lacan.
Per concludere provo a delineare una strada per chi non pratica questi terreni, o li ritiene addirittura fantasiosamente fuorvianti per coloro che tentano di capire politicamente cosa accade a scuola, con la scuola. Lo psicanalista catalano Enric Berenguer lega il contributo di Lacan all’agire politico sottolineando il ruolo sovversivo del Fantasma, la costruzione fittizia, talvolta ridicolizzata che ci facciamo dell’Altro, soprattutto quando è detentore di un potere istituito o discorsivo. La possibilità per l’alunno di rappresentarsi il maestro come qualcuno a cui può disobbedire, come un altro che si può rendere bersaglio dell’ironia e della disconferma, contribuisce alla formazione del pensiero critico; la servetta di Tracia ride del saggio. Ed è bene per lei e per il saggio.
Purtroppo, aggiunge Berenguer, anche le nostre costruzioni fantasmatiche sono oggi oggetto di manipolazione e di mercificazione. Qualcuno per voce del mercato, dei suoi mezzi virali, ci dice non solo cosa desiderare, ma anche di cosa, di chi e come, ridere. Nessuna sovversione: i nostri fantasmi sono costruiti, guidati, resi conformi. Non c’è modo di togliere autorità ai maestri, occulti o palesati, che si impongono come padroni, soggetti supposti sapere, ideologi, esperti. E nemmeno ci si può guardare dagli adulti isterici, incapaci di gestire le proprie paure sul piano della responsabilità educativa, prendendone in giro i vezzi. Anche la comicità, l’ironia, la satira sono venduti nel mercato del divertimento. Le possibilità di costruire fantasmi sovversivi sono sempre di meno [6].
La psicoanalisi, il suo uso come insieme di pratiche sociali prima che settorialmente cliniche, appare un sapere indispensabile – come ci mostra il contributo di Mejia Correa – a capire cosa produce la motivazione ad apprendere e la passione di insegnare. Continuare, in tempi bui, a insegnare è un ancoraggio per qualsiasi prassi emancipatrice, è l’insegna di un’autentica responsabilità comune, reciproca, fra insegnante e alunno, soggetti politici capaci di farsi dono, obbligazione, scambio di saperi, in una sorta di dissimmetria ironica.
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Note
[1] A. Eidelzstein “La topología en la clínica psicoanalitica” Letra Viva, Buenos Aires, 2006.
[2] M.P. Mejía Correa, Dip. di Pedagogia e Educazione, Università di Antiochia, Medellín (Colombia) “Vinculos posibles entre el maestro y el alumno” in Revista Educación y Pedagogía, vol. XX, núm. 51, Mayo – Agosto de 2008 (La traduzione delle citazioni dal testo é di Renata Puleo).
[3] J. Lacan Il Seminario, Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi (1969-1970) Einaudi, Torino, 2001.
[4] Si veda la considerazione di Paolo Mazzoli, Direttore dell’INVALSI, in risposta ad una domanda sull’utilità dei test: “Per dare autonomia ai ragazzi e renderli responsabili nel capire quello che studiano, bisogna eliminare l’accudimento troppo materno tipico degli insegnanti, che non sopportano che altri possano valutare i “loro” allievi. Invece, è importante che ogni tanto ci sia un confronto esterno […] fuori dalla routine quotidiana e violando i rituali contratti didattici […] in www.genitoreattivo.wordpress.com “Un Direttore in terza media”, 11/12/2015.
[5] Come non pensare alla fascinazione per il numero come elemento statistico e per la misura come valutazione di tutte le cose anche quelle non paragonabili ad un criterio univoco? Si veda alla voce INVALSI, ANVUR, PISA, ecc.
[6] E. Berenguer “L’invenzione del desiderio”, conferenza tenuta nella Jornada de Puertas Abiertas Sección Clínica de Barcelona, 2014.
Fonte: La città futura
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