Se si scava alla radice del pensiero occidentale appare evidente come il termine oikonomia alluda prima di tutto a una società organizzata gerarchicamente. Con il tempo l’economia è diventata sempre più il luogo, impermeabile a qualsiasi critica, nel quale il dominio e la violenza di pochi vengono imposti a coloro che vivono in basso. Per questo motivo non esistono economie buone. Se si vuole uscire dal dominio e dal sopruso è necessario decolonizzare i nostri immaginari e abbandonare l’economia

di Alessandro Pertosa*
Se si scava alla radice del pensiero occidentale, il termine oikonomia indica qualcosa di ulteriore rispetto alla mera amministrazione della casa, all’organizzazione del mercato, al controllo produttivo dei beni, alla circolazione della moneta o al lavoro. Questi significati si presentano infatti solo come rappresentazioni concettuali esteriori, sono gli epifenomeni, magari persino i più immediati e lampanti, che tuttavia non appalesano appieno quanto si nasconde nel nucleo originario del termine. Perché, chi sa vedere in profondità scopre che gli statuti normativo e categoriale dell’oikonomia – cioè le leggi che la regolano e le discipline in cui è divisa – esprimono per intero le intenzioni primarie di una cultura sedimentatasi nei secoli e che, nel caso specifico, poggia sulla convinzione che in ambito familiare (ma lo stesso si può dire più in generale dello spazio politico, sociale e mercantile) gli uomini siano fra loro diversi per natura: alcuni atti a comandare, altri capaci solo di ubbidire. Da questa convinzione segue che l’economia manifesta in tal modo, sin dalla notte dei tempi e nel suo senso più profondo, la violenza cieca di una società organizzata gerarchicamente; violenza che una ristretta classe di dominatori esercita senza requie su una massa più ampia di dominati; violenza agita col proposito di articolare le dinamiche interne della comunità secondo i valori e i principi che l’élite al potere ritiene giusti, buoni e veri per chiunque. E tutto questo perché solo chi comanda e controlla la cultura, il pensiero e i saperi è in grado di dettare i tempi e i modi del comportamento sociale; sicché prendere il potere – ossia, gestirlo a proprio piacere – significa avere la forza di imporre una certa «visione» sulle altre[1].
Per il pensiero occidentale, questa forza si giustifica a partire dall’illusione che la verità incontrovertibile sia l’oggetto della filosofia, e che quindi l’intelletto umano sia perfettamente in grado di coglierla questa verità e di imporla a chi non ha gli «strumenti» per comprenderla, dato che si mostra inferiore per natura o non adatto alla speculazione. Questo pregiudizio ingannevole è alla base di tutte le istituzioni occidentali – famiglia, città, stato, mercato – da oltre due millenni (Si pensi, ad esempio, all’oikos greco basato sul potere dispotico del kyrios – il capo famiglia – che domina i suoi familiari: d’altronde la stessa educazione paternalistica e autoritaria dei figli o il controllo tirannico dei servi non è altro che un puro atto d’imperio giustificato esclusivamente proprio dal dominio di colui che viene riconosciuto come il Padre-Padrone indiscusso. E quello stesso dominio si ripresenta, in un secondo momento, anche nello spazio più ampio della polis; spazio in cui vengono replicate fedelmente a livello sociale le stesse dinamiche di potere tirannico interne alla famiglia: e in questo senso si parla a più ampio raggio di amministrazione economica della ricchezza cittadina, statale, nazionale, politica).
Da un punto di vista prettamente linguistico, l’economia occidentale è il risultato che deriva dal nomos applicato all’oikos; o per essere più chiari, l’oikonomia è l’orizzonte legislativo all’interno del quale vengono rintracciate le modalità atte a regolamentare e gestire le ricchezze personali e i beni familiari. Ma le leggi e i principi promulgati dal potere dispotico, e amplificati dalla cultura dominante, sono stabiliti sempre dall’élite, che dall’alto dello scranno impone al popolo sottomesso il suo immaginario violento. Il nomos d’altronde è l’espressione positiva di un ethos, che rimanda a un «bene» o a un insieme di «beni», a loro volta assunti e imposti dalla classe al potere come gli scopi cui tutti devono conformarsi; e proprio in tal senso Friedrich Nietzsche ricordava che il giudizio di «buono» non proviene da chi dà effettivamente «prova di bontà»[2], ma deriva invece da coloro che, autoproclamatisi «buoni», si sono arrogati il diritto di foggiare valori assoluti e di coniare le designazioni dei valori con pretesa di oggettività. Questo atteggiamento, che Nietzsche chiama pathos della distanza, sta per lui all’origine dell’opposizione tra i concetti «buono» e «cattivo»[3]. Ma qui, generalizzando, potremmo quindi dire che se il «bene» è da considerarsi come tale esclusivamente in virtù di un atto di imperio compiuto dalla classe al potere, allora è chiaro che questo pathos della distanza sta all’origine non solo di ogni distinzione tra il «buono» e il «cattivo», ma sta anche all’origine di ogni valutazione etica imposta dalla classe dominante a quella dominata. Sicché, letta in questa prospettiva, l’economia diviene, sin dal suo esordio greco, veicolo di trasmissione della violenza stessa, perché appunto rappresenta il luogo in cui da sempre si legifera per strutturare una trama di relazioni, di abitudini e di costumi che l’élite impone con violenza alla classe subalterna, finendo per convincerla della sua naturale inferiorità: ma questa convinzione altro non è che cultura, ovvero è il risultato concreto di un pensiero che propone la violenza e la sopraffazione – celate dietro il paravento della verità incontrovertibile – come le metodologie innate, consuetudinarie e insuperabili delle relazioni umane. Per questo motivo, l’essenza del termine oikonomia va rintracciata non tanto e non solo nell’oikos – casa, famiglia – quanto invece soprattutto nel nomos – che significa sì legge, norma, prescrizione, ma anche uso, costume, consuetudine.
Ciò sta a significare che l’atto di normare qualcosa è l’attività di chi organizza lo spazio umano secondo gli usi e i costumi dettati dalla cultura del tempo. Ma la cultura del tempo è appunto quella della classe dominante (su Come pensa la classe dominante oggi scrive ), che vuole ciò che vuole secondo la sua volontà di potenza, ovvero vuole, nel caso dell’oikonomia, che il nomos da applicare all’oikos configuri un immaginario culturale ben definito e colonizzato da valori che consentano all’élite greca del V secolo avanti Cristo di perpetrare il proprio potere tirannico in ogni forma. Più precisamente, la classe dominante osserva la realtà dal suo angolo prospettico, che è tuttavia viziato dal pregiudizio secondo cui una percezione della realtà soggettiva sia capace di indicare de facto la verità universale e incontrovertibile della realtà stessa, nonché il dato originario e naturale cui è necessario che tutti si conformino. Ma questa, se si riflette, è nient’altro che l’espressione massima della violenza, perché l’incontrovertibile – ovvero ciò che non può essere in alcun modo oggetto di controversia e di discussione – si im-pone senza possibilità di smentita, e ciò rende qualunque discorso filosofico – e quindi anche qualunque discorso economico, perché l’economia è una filosofia[4] – impermeabile alla critica.
Il nomos, che esprime da sempre i valori della cultura dominante, è quindi l’emblema massimo della violenza; è la forma simbolica di un pregiudizio, di una volontà di potenza espressa dall’élite al potere. E parimenti, il nomos applicato all’oikos rappresenta i desideri del kyrios, che esige la sua soddisfazione in virtù del pregiudizio culturale secondo cui il potere dispotico – nella fattispecie l’amministrazione della ricchezza familiare – non deve in alcun modo essere condiviso con gli Altri componenti della casa. Perché gli Altri, appunto, inferiori per natura, sono incapaci di organizzare un oikos in quanto non sanno esprimersi in modo libero e compiuto.
Ora, se il concetto di oikonomia testimonia il dominio del kyrios sugli altri componenti della famiglia, nel momento in cui l’economia non ha più significato soltanto amministrazione della casa ma si è allargata all’ambito cittadino, statale, e oggi direi planetario, quella razionalità dispotica presente all’interno della famiglia greca del V secolo a. C. si è ripresentata, ampliata di molto, su larga scala. Così se un tempo il kyrios dominava i suoi familiari, non ci si può stupire ora del fatto che da 2500 anni una ristretta cerchia di dominatori esercita una pressione dispotica su un’ampia massa di dominati. Per questo motivo non esistono economie buone. L’economia è strutturalmente malvagia. Se si vuole uscire dal dominio e dal sopruso è necessario uscire dall’economia.
Note
1. La «visione» di cui si parla qui è in realtà una fede inconsapevole presa per verità. La fede consiste nel dare l’assenso a ciò che non si vede. A mio avviso tutto è fede, ed è fede anche che tutto sia fede: così fino all’infinito. Uscire dal potere significa uscire dalla pretesa di possedere una verità. Sottrarsi alla logica per cui la veritas è oggettiva, è un oggetto che qualcuno possiede.
2. Anche se Nietzsche avrebbe dovuto pure ammettere che dare una effettiva prova di bontà è impossibile, perché per stabilire ciò che è effettivamente «buono» è necessario aver assunto, in precedenza, una certa idea di «buono», è necessario sapere – o credere di sapere – cosa sia il «buono in sé». Ma questa idea di «buono in sé» che si assume preventivamente, e che conforma il giudizio «buono», è a sua volta un’idea immersa in un contesto storico-culturale, e soprattutto è un’idea che emerge da un certo ethos dominante, imposto dall’élite a tutti gli altri soggetti dominati. E allora, se i fatti stanno così, chi può dare effettivamente prova di bontà? Qual è il vero bene cui tutti dovrebbero conformarsi per essere effettivamente buoni?
3. Cfr. F. Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, (I, 2), Adelphi, Milano 2004, p. 15 (titolo originale, Zur Genealogie del Moral. Eine Streitschrift, C. G. Naumann, Leipzig 1887)
4. Quando parlo di oikonomia come di una filosofia non intendo dire che si può fare una filosofia dell’economia (ovvero, che si possano studiare filosoficamente le questioni economiche), ma in modo più radicale che l’oikonomia è una filosofia perché è un «modo» di concepire la realtà nel suo complesso, e non può quindi essere ridotta soltanto all’ambito della gestione delle res familiari, degli scambi mercantili o finanziari. Nel suo insieme, infatti, essa delinea un orizzonte culturale complessivo, colonizzato da concetti che giustificano l’esercizio del potere dispotico e della violenza perpetrata dall’uomo sull’uomo. L’oikonomia è, dunque, una filosofia perché esprime una visione d’insieme, è un pensiero sul mondo, è una vera e propria Weltanschauung.
* Alessandro Pertosa, ricercatore in filosofia, scrive irregolarmente di filosofia, di economia, di teologia, di bioetica e di decrescita. Docente universitario, cura il sito-rivista artedecrescita.it. Il suo ultimo libro è Dall’economia all’eutéleia (Ed. Decrescita felice). In questa pagina, il primo di diversi saggi che indagano i concetti di economia, decrescita, utopia, potere.
L’adesione di Alessandro Pertosa a Ribellarsi facendo è leggibile qui: Comune si abita volentieri
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