Vent’anni fa, il Comitato per la Pace e l’Accoglienza di Santorso, in seguito agli sbarchi che in quegli anni si registravano sulle coste pugliesi e al massiccio numero di persone in fuga dalla guerra in Kosovo decise, coinvolgendo l’amministrazione comunale, di accogliere il primo nucleo familiare di rifugiati. Comincia così una bella storia in cui cittadini, migranti, amministratori locali di dodici comuni hanno saputo essere attori di una comunità, a cominciare dal progetto Oasi. Viaggio nell’accoglienza vicentina: prima e dopo i decreti sicurezza

Santorso, comune di circa 5.800 abitanti della provincia di Vicenza, tra i primi ad aver aderito alla Rete dei Comuni Solidali (Recosol), è capofila di una rete di associazioni, enti locali e Comuni che offrono accoglienza. Vent’anni fa, il Comitato per la Pace e l’Accoglienza, in seguito agli sbarchi che in quegli anni si registravano sulle coste pugliesi e al massiccio numero di persone in fuga dalla guerra in Kosovo decise, d’accordo con l’amministrazione comunale, di accogliere il primo nucleo familiare di rifugiati.
Al tempo non esisteva un sistema di accoglienza strutturato, e le esperienze esistenti dipendevano dalla buona volontà e dalle sensibilità di organizzazioni e associazioni che avevano iniziato a incontrarsi per ragionare su un modello di accoglienza adeguato per i territori e che permettesse alle persone accolte di essere attori di una comunità.
A partire da questa prima esperienza agli inizi del 2000 nasce il progetto Oasi, gestito dall’associazione “Il mondo nella città”, incardinato all’interno del Piano Nazionale. Con la partecipazione di una rete di cinque comuni (Schio, Malo, Marano Vicentino, Torrebelvicino), Santorso ne diventa capofila dal 2006. Negli anni successivi la rete territoriale di supporto si è notevolmente ampliata, arrivando a ricomprendere dodici comuni, l’Unità Locale Socio Sanitaria Alto Vicentino, cooperative sociali del territorio, scuole e sindacati.

Fino al mese di luglio 2016 il progetto del Comune di Santorso era l’unico progetto Sprar nella provincia di Vicenza e prevedeva l’accoglienza di trentanove richiedenti e titolari di protezione internazionale e umanitaria. L’aumento degli arrivi registrato nel periodo successivo – al pari di quello che è accaduto in tutta Italia – e la volontà di confermare un modello operativo efficace ha portato ad un ulteriore ampliamento – una settantina di posti – che la rete intende confermare anche nel prossimo triennio, all’interno della nuova richiesta da poco consegnata alla Direzione centrale del Siproimi.
Il percorso attivato nel territorio nel corso del 2015 – ratificato con un “Protocollo di intesa per l’Alto Vicentino”, promosso dal Comune di Santorso e dalla Prefettura di Vicenza, e firmato da molti sindaci – si proponeva il superamento della gestione straordinaria attraverso i CAS con modello centrato sulla titolarità diretta pubblica, sul modello di accoglienza diffusa e sulla capillare distribuzione di richiedenti asilo in modo proporzionale al numero di abitanti (2/3 richiedenti ogni 1.000 abitanti).
Alcuni dei CAS operativi nella provincia vicentina hanno iniziato a operare con gli stessi servizi e lo stesso modello dello Sprar, in una logica di reciproca integrazione e con la prospettiva di andare a strutturarsi stabilmente nel modello strutturato gestito dal ministero e dai comuni.
L’équipe che lavorava nei progetti di accoglienza e integrazione Sprar e CAS era composta da dodici persone: una coordinatrice che seguiva i rapporti con i Comuni, la Prefettura e il Servizio Centrale, aggiornava la banca dati, redigeva le relazioni periodiche, concordava ingressi e uscite dai progetti. Una psicologa conduceva anche i colloqui di valutazione con i beneficiari, seguiva i percorsi di sostegno psicologico e teneva, laddove necessario, le relazioni con il Centro di Salute Mentale del territorio. Una coordinatrice dell’area integrazione organizzava l’attività degli operatori dell’integrazione e teneva i contatti con aziende e Centri per l’Impiego. Tre insegnanti di italiano, un operatore legale che si occupava dei rapporti con la Questura, del rilascio e rinnovo dei permessi di soggiorno e delle richieste di ricongiungimento familiare. Cinque operatori seguivano la gestione degli appartamenti, la tutela sanitaria e l’inserimento sociale, un amministrativo. Coerentemente con quanto siglato, nei CAS di questa zona si lavorava avendo come obiettivo l’autonomia delle persone accolte. Molta importanza quindi all’insegnamento della lingua italiana con particolare attenzione agli analfabeti in lingua madre, formulato rispettando la provenienza e il livello culturale di chi ne usufruiva. Corsi di approfondimento linguistico, conoscenza del territorio, storia e geografia, educazione stradale, cucina italiana, lettura di libri e giornali. Il progetto prevedeva inoltre l’inserimento dei beneficiari nel tessuto sociale del territorio, favorendo la nascita e il consolidamento di relazioni attraverso laboratori o percorsi di orientamento al lavoro.
Una sinergia di competenze e necessità che, in linea con quanto già avvenuto nei quindici anni precedenti, ha funzionato bene: dal 2000 ad oggi sono state accolte circa seicento persone (comprese le persone attualmente in accoglienza) e più della metà si sono integrate sul territorio.
L’esperienza positiva di Santorso ha indotto altre amministrazioni vicentine a seguire una strada analoga: Vicenza prima, e Valdagno poi sono diventate capofila di altri due progetti Sprar; un percorso analogo era stato avviato anche da Marano Vicentino e da Sandrigo, con altri progetti di rete per i territori a loro limitrofi, senza però ricevere mai l’autorizzazione dalla Direzione nazionale, a seguito dei provvedimenti e delle scelte politiche del governo giallo-verde insediatosi in quel periodo.
L’emanazione dei Decreti Sicurezza e la loro successiva approvazione parlamentare hanno avuto effetti pesanti anche nel territorio vicentino: la rimodulazione dello Sprar in Siproimi e la nuova formulazione dei bandi della Prefettura hanno infatti prodotto una pesante involuzione della situazione complessiva.
La partecipazione ai recenti bandi per l’accoglienza nei Cas è stata residuale, per la scelta di molte realtà di non aderire a un modello non in grado di garantire gli obiettivi prefissati e la stessa qualità dei servizi. “La situazione attuale – spiega Franco Balzi, sindaco di Santorso – è difficile e preoccupante. Viviamo in una situazione di stallo, cercando di tenere viva un’operatività in grado di concretizzare i valori di accoglienza e solidarietà che hanno caratterizzato il nostro lavoro per vent’anni. Di fatto “resistiamo”, nell’attesa di provvedimenti governativi che possano porre rimedio alle scelte adottate dall’esecutivo precedente, che sono di fatto ancora del tutto operative. C’è molta confusione nell’applicazione delle nuove regole dettate dai decreti sicurezza e i primi negativi effetti concreti cominciano a materializzarsi anche dalle nostre parti: presenza sempre più diffusa di situazioni irregolari; mancata presa in carico di situazioni di particolare fragilità; prospettiva/rischio di assunzione “diretta” da parte dei Comuni di queste situazioni così esposte… ma anche la consapevolezza di un impianto complessivo che, per come è stata impostata la prima accoglienza dei Cas, finirà per rendere meno efficace anche la seconda, per quelle poche persone che ne potranno beneficiare”.
Spiegano ancora da Santorso: se alcune realtà del terzo settore hanno preferito bloccare la loro operatività (con tutte le conseguenze, anche occupazionali, che questo ha comportato), altre proseguono, con grande fatica, riducendo le spese e le ore di lavoro, non rinnovando i contratti. Altre continuano invece ad operare, senza particolari preoccupazioni per un intervento inadeguato, che spesso si limita al mero albergaggio.
Sugli esiti di questa deriva ci si interroga, preoccupati: presto o tardi si dovrà aver a che fare con le conseguenze di scelte che non hanno certo guardato alle esigenze di persone che per giustizia meritavano ben altra risposta, ma nemmeno a quelle di chi ha la responsabilità di amministrare le comunità e che con impegno e tenacia aveva dimostrato che l’accoglienza non solo era possibile, ma che poteva essere anche efficace e trasformarsi in una risorsa per i territori.
Su tutto questo si è intervenuti in modo chirurgico, penalizzando o bloccando le esperienze in atto: non è stata certo una scelta casuale e improvvisata, così come non può essere taciuta la condanna per la prudenza (?!) e il ritardo di chi ha ereditato questa situazione, senza porvi ancora alcun rimedio.
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