Hanno qualcosa in comune la più grande acciaieria d’Europa, l’Ilva di Taranto, e la miniera di carbone Pasta de Conchos, nello Stato messicano di Coahuila, a poco più di un’ora dal confine che Donald Trump vuole sempre più invalicabile? Forse sì, per esempio raccontano il tanto Sud che c’è nel Nord del mondo e viceversa. Sono luoghi dove gli “incidenti” sul lavoro hanno disseminato fiumi di rabbia e dolore in nome dello sviluppo e del progresso, rivelando così tutta la violenza che segna il ricatto occupazionale sulla salute dei lavoratori e di chiunque viva nei pressi di impianti che avvelenano l’aria, l’acqua e la terra. E’ il volto più crudele dell’estrattivismo, quello che semina la morte nel sangue e nei polmoni delle persone e poi manda i propagandisti dell’industria mineraria o dell’acciaio a raccontare alla gente che si ammala e non riesce a respirare che la colpa è delle anomalie congenite o del fatto che mangia troppo. A Taranto, come nelle miniere messicane, sono state le donne a prendere le redini della protesta, gli uomini erano troppo spaventati dall’idea di perdere un lavoro che li uccide
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di Laura Fano*
Nello stato messicano di Coahuila, appena un’ora dal confine con gli Stati Uniti, si estende un’area di 16.040 Km2, in cui si concentra il 95% delle riserve carbonifere del paese. In quest’area opera un numero crescente di miniere, molte delle quali a cielo aperto. Le miniere sono di proprietà di imprese messicane, la maggior parte legate ai politici che governano lo stato da decenni. Le misure di sicurezza all’interno di queste miniere sono state a lungo scarse o inesistenti, tanto che i minatori andavano al lavoro non sapendo se sarebbero tornati, lasciando le loro famiglie nel dubbio quotidiano di non vederli più tornare. Nel 2006, l’esplosione della miniera Pasta de Conchos provocò 65 morti, di cui solo due sono stati recuperati dalle macerie, e diede luogo alla creazione del gruppo Organización Familia Pasta de Conchos – OFPC, guidato dalla attivista per i diritti umani Cristina Auerbach.
Grazie al costante lavoro di monitoraggio e pressione dell’OFPC, le morti all’interno delle miniere sono diminuite drasticamente. Fuori dalle miniere però è un’altra storia. La popolazione delle piccole città e villaggi della zona vive letteralmente accanto alle miniere e alle aree dove i residui altamente tossici del carbone vengono dispersi. Ovviamente i proprietari delle miniere non vivono lì, sapendo benissimo quanto l’aria, l’acqua e il terreno locale siano dannosi per la vita umana. Una fila di alberi è stata piantata al confine tra i villaggi e le miniere, una misura ecologica irrisoria che, secondo i proprietari, avrebbe diminuito l’inquinamento. All’interno delle case, la polvere cancerogena ricopre perennemente il mobilio, il che fa immaginare cosa si nasconda nei polmoni della popolazione locale. Nella zona non esistono servizi medici specializzati in pneumologia, ma solo medici generici che ripetono alla popolazione che le loro difficoltà respiratorie sono legate al fatto che mangiano troppo e sono obesi.
Tutto questo mi ha ricordato, come in un déjà vu, qualcosa a cui avevo assistito direttamente, non in qualche zona povera del Messico o della Colombia, ma nel quartiere Tamburi a Taranto. Non si tratta di miniere, ma il più grande impianto di lavorazione dell’acciaio d’Europa uccide ugualmente. Dentro e fuori la fabbrica. Anche il quartiere Tamburi si trova a una distanza ridicola dalla fabbrica, e anche lì la popolazione è composta da chi un’altra sistemazione non può trovarla, non certo dai dirigenti dell’ILVA che si guardano bene dal risiedere nella zona inquinata. Intorno all’ILVA non è stata piantata nemmeno una fila di alberi; ancor peggio, è stata montata una rete, che magicamente avrebbe dovuto bloccare i fumi tossici. Come gli alberi, anche la rete è stata spacciata per una misura ecologica che potesse in qualche modo diminuire la responsabilità dell’impresa.
Anche nelle case del quartiere Tamburi la polvere nera è un problema costante, viene pulita ogni giorno in una lotta impari contro un nemico invisibile. Da tempo, la popolazione tarantina chiede che vengano potenziati i servizi oncologici dell’ospedale locale, e per la maggior parte della gente affetta da patologie gravi l’unica opzione sono i viaggi della speranza in ospedali di altre città. E in varie occasioni queste patologie sono state imputate, perfino dalla Ministra della Salute Lorenzin, ad abitudini di vita errate quali il fumo o una cattiva dieta. Molte, troppe similitudini. Anche a Taranto come a Coahuila, sono le donne ad aver preso in mano le redini della protesta. In entrambi i casi molti uomini erano troppo spaventati dalla prospettiva di perdere il lavoro.
Le similitudini per fortuna finiscono qui. A Coahuila chiunque osi protestare e’ oggetto di minacce di morte, viene fatto sparire e poi riappare sul ciglio di una strada in fin di vita, come è successo allo zio di Esmeralda, una giovane donna che si batte per una vita migliore per gli abitanti della sua città. Altri, meno fortunati, non riappaiono più. Le case degli attivisti vengono bruciate come avvertimento o per rappresaglia. Le donne, ora molto combattive, inizialmente erano restie ad esporsi per paura di essere punite con la violenza sessuale. La battaglia che Cristina, Esmeralda e tante altre donne combattono è un rischio costante, una sfida quotidiana con la morte. A Taranto per fortuna questo non succede, anche se la popolazione continua a morire di una morte più lenta, anche lì nella piena indifferenza delle istituzioni.
Questo déjà vu mi ha messo di fronte agli occhi la violenza, nelle sue varie forme, dell’industria estrattiva e di quello che molti si ostinano a chiamare progresso. Soprattutto mi ha fatto accorgere ancora una volta di quanto Sud ci sia nel Nord e viceversa, e di quanto ormai queste categorie siano antiquate e inadeguate a spiegarci la complessità del mondo in cui viviamo.
Per chi voglia avere maggiori informazioni su Cristina, Esmeralda e la Organización Familia Pasta de Conchos – OFPC, si rimanda al sito di Front Line Defenders, organizzazione grazie alla cui protezione queste donne sono ancora vive e riescono a portare avanti il loro lavoro tra innumerevoli difficoltà. (qui)
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