In questo momento sembra assai difficile eppure ci sono buone ragioni per ricordare questi anni non solo per la pandemia, ma anche per il rafforzamento del movimento mondiale delle donne e per l’emersione di quello per il clima e del movimento globale per le vita nere. Quest’ultimo ci ricorda che per difendersi dal razzismo dobbiamo imparare a riconoscere prima di tutto i diversi lasciti dell’universo creato da schiavitù e colonialismo in ogni angolo del mondo. Saidiya Hartman in Perdi la madre (tamu ed., di cui pubblichiamo l’introduzione) mostra come la schiavitù non sia per nulla un episodio chiuso della storia. Anche in Italia si afferma la necessità di guardare all’incompiuto riconoscimento del passato coloniale in Libia, Etiopia ed Eritrea. Dobbiamo riconoscere, ad esempio, la violenza del razzismo sistemico che uccide lasciando morire i migranti nel Mediterraneo e nella vita di ogni giorno come dimostrano le vicende, tra gli altri, di Willy Monteiro Duarte, Jerry Essan Masslo, Soumaila Sacko, Abdul William Guibre, Assane Diallo, Diop Mor, Samb Modou e Idy Diene
Fin dalle prime pagine di Perdi la madre, Saidiya Hartman chiarisce che «se la schiavitù rimane una questione aperta nella vita politica dell’America nera, non è a causa di un’ossessione antiquaria per i giorni andati o per il peso di una memoria troppo duratura, ma perché le vite nere vengono ancora svalutate e messe a repentaglio da un calcolo razziale e da un’aritmetica politica consolidatisi secoli fa». La schiavitù e i suoi lasciti, ovvero il mondo creato da schiavitù e colonialismo, fanno ancora oggi parte del vissuto delle persone nella diaspora nera. Le conseguenze di ciò sono evidenti nelle storie di violenza quotidiana che le persone nere subiscono ovunque nel mondo, e contro tale violenza è altrettanto evidente che i movimenti antirazzisti internazionali abbiano un ruolo necessario. In Italia, così come negli Stati Uniti e altrove, il movimento globale per le vite nere è riemerso per discutere pubblicamente la realtà della nerezza/dell’essere nerə, al di là dei confini nazionali, e per amplificare le lotte di resistenza contro il razzismo. Attivistə afroitalianə, che da tempo lavorano per affermarsi all’interno del dibattito italiano sull’identità, hanno guadagnato il centro della scena per promuovere un discorso di giustizia razziale.
Lunedì 25 maggio 2020 due avvenimenti si sono fatti strada, attraverso i social media, nella coscienza globale. Al Central Park di New York, le vite di Amy Cooper e Christian Cooper, una donna bianca e un uomo nero senza legami di parentela, si intrecciavano in un incontro. Facendo eco al duraturo mito della minaccia insita nella mascolinità nera, Amy Cooper chiamò la polizia per denunciare Christian Cooper, accusandolo falsamente di aver attentato alla sua vita per averle chiesto di mettere il guinzaglio al suo cane, come d’altronde richiedeva il regolamento del parco. Questa vicenda ricorda l’episodio che aveva portato alla morte di Emmett Till, un quattordicenne afroamericano linciato in Mississippi nel 1955 dopo essere stato accusato di aver importunato una donna bianca. Le accuse contro Emmett Till furono poi ritirate, decenni più tardi, dall’accusatrice.
Nello stesso giorno, a Minneapolis, un uomo nero di nome George Floyd giaceva steso per terra senza vita dopo che un poliziotto bianco se ne era stato con le mani in tasca a premergli un ginocchio sul collo per otto minuti e quarantasei secondi. Altri tre poliziotti erano rimasti a guardare, impassibili, mentre Floyd supplicava per la sua vita dicendo «non riesco a respirare» e singhiozzava invocando la madre. La polizia era stata chiamata sul posto per indagare su una denuncia ai danni di Floyd in cui si sosteneva che questi avesse usato una banconota falsa da venti dollari in un negozio di alimentari. Venti dollari. Era stato soffocato e ucciso, mentre altri stavano a guardare, per venti dollari.
Avevo guardato entrambi i video rannicchiata a letto. Già mi sentivo impietrita di fronte a una pandemia che stava colpendo in misura sproporzionata comunità nere, latine e indigene negli Stati Uniti, e in cordoglio per gli omicidi di Ahmaud Arbery e Breonna Taylor, divenuti da poco di dominio pubblico. L’anno era iniziato da appena cinque mesi e già la morte delle persone nere, a tratti visibile e allo stesso tempo non visibile, ne era il greve, sfibrante filo conduttore. Il ripetersi incessante di immagini di dolore, trauma, sofferenza e morte nelle comunità nere, riprodotte ovunque a ciclo continuo, mi rammentava nuovamente della precarietà delle vite nere. Guardando il poliziotto bianco, mani in tasca, in ginocchio su Floyd che invocava sua madre, mi pareva quasi di sentirlo dire: «Chi sei tu, per avere una madre? Chi sei tu, per chiamarla?»
Mentre assistevo alla violenza razzista di questi eventi, al modo in cui le vite nere venivano esibite come qualcosa di sacrificabile, vidi il mondo intero reagire in protesta. Gli Stati Uniti si percepiscono spesso come l’epicentro della violenza contro i neri, così come delle innumerevoli forme di resistenza delle persone nere, ma non sempre lo sono. Tutt’altro. Questi atti di violenza sono comuni in tutta la diaspora nera. Questa violenza quotidiana dà sostanza all’eredità della tratta degli schiavi e ne amplifica l’eco presente nella xenofobia di oggi. Questa eco è ciò che Saidiya Hartman chiama «la vita postuma della schiavitù».
In Italia, attivistə italianə nerə, seguendo l’impulso della tradizione radicale nera che si è andata costruendo al di là dei confini imposti dalla politica, hanno contestato la nozione, sostenuta dall’Italia bianca, che il razzismo sia solo un problema americano. Al contrario, hanno ribadito che simili atti di violenza avvengono anche in Italia. Sebbene i diversi contesti nazionali influiscano sui particolari delle vite nere, in Italia una nuova generazione di afroitalianə si batte affinché la società riconosca le forme tangibili in cui si presenta la violenza anti-nera nel paese. Questa violenza è rappresentata dal razzismo sistemico con cui gli e le afrodiscendenti devono confrontarsi in Italia. Questa violenza si rinnova nel cauto distacco delle istituzioni italiane dai delitti e dai soprusi ai danni delle persone nere in Italia, come nel caso degli omicidi di Willy Monteiro Duarte, Jerry Essan Masslo, Soumaila Sacko, Abdul William Guibre, Assane Diallo, Diop Mor, Samb Modou, e Idy Diene. Questa violenza è inscritta nelle fondamenta razziali delle leggi di cittadinanza. Lo ius sanguinis permette a chiunque sia in grado di dimostrare di possedere sangue italiano l’accesso alla cittadinanza, a prescindere dalla propria esperienza di vita in Italia, mentre nega tale diritto a chi è natə e cresciutə in Italia da genitori immigrati.
La violenza contro le persone nere in Italia si estende anche oltre i confini nazionali. Innumerevoli rifugiati e richiedenti asilo, molti dei quali provenienti dall’Africa, sono infatti morti annegati nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, mentre l’Italia rifiutava il permesso d’attracco alle imbarcazioni su cui viaggiavano. Questa violenza anti-nera è alla base dell’ascesa della destra a livello internazionale; in Italia, i tentativi di ogni governo di rimpatriare gli immigrati rendono visibile la diffusione di una cultura politica reazionaria, che si riflette anche nell’insistenza con cui gli italiani bianchi continuano a chiedere alle persone nere la loro provenienza, chiamandoli stranieri o intimandogli di «tornare nel loro paese» laddove questi esprimano una qualsiasi critica alla società e alle leggi italiane.
Non c’è momento migliore di questo per rendere disponibile in Italia il pensiero di Saidiya Hartman. Ripercorrendo il suo viaggio da New York al Ghana, Hartman cerca una storia fatta di niente: quella dell’espropriazione coloniale e della schiavitù razziale. Hartman scrive che la schiavitù non è un episodio confinato al passato; la sua vita postuma si estende al presente. Si presenta in molte forme, dalle leggi di cittadinanza alle genealogie frammentate, tracciando storie che offrono più domande che risposte. In questo modo, il suo lavoro offre un varco che in Italia può essere attraversato per riflettere sul passato coloniale di questo paese e sulle sue manifestazioni contemporanee. Ciò che Hartman offre è una risoluta immersione nella storia della schiavitù e nelle ossessioni che essa ha generato. Il suo lavoro crea uno spazio per riconoscere la capacità d’azione delle popolazioni schiavizzate, insistendo nel ribadire la loro presenza nelle nostre vite. Così facendo, afferma la possibilità di rivendicare, anche quando privi di nome, i propri antenati e la loro umanità.
Seppure l’obiettivo primario sia quello di riportare alla luce le storie individuali di africanə catturatə e schiavizzatə, Perdi la madre affronta temi che possono essere di grande rilevanza anche in riferimento all’essere nerə e alla violenza razzista in Italia. L’esplorazione di Hartman della persistente eredità della schiavitù evoca due temi principali: l’interminabile ricerca di una casa e di un senso d’appartenenza per le comunità della diaspora nera; la sensazione costante di vivere in un perpetuo stato di straniamento. Questo risulterà familiare alle lettrici afroitalianə e contribuirà a contestualizzare la loro esperienza per i lettori bianchi. In Perdi la madre, Hartman narra dell’essere straniera, estranea, forestiera, e della sua esperienza in quanto americana nera in viaggio attraverso il Ghana, vissuta nella convinzione che quel senso di alterità, parte integrante della sua esperienza negli Stati Uniti, si sarebbe dissipato al suo arrivo nel continente africano. Eppure, anche in Ghana Hartman si rende conto di essere, di fatto, una straniera, «un seme errante privato della possibilità di mettere radici». Quel senso di alienazione e di perdita, indifferente ai confini, può rivelarsi simile al sentimento di chi è escluso dall’appartenenza all’Italia.
Il movimento transnazionale per le vite nere, che in Italia si declina come lotta per la revisione delle leggi di cittadinanza e per l’affermazione di un senso di appartenenza afroitaliano, pone al centro del dibattito la necessità di considerare queste forme strutturali di razzismo come radicate nella storia coloniale. Anche in Italia, infatti, si afferma la necessità di guardare all’incompiuto riconoscimento del passato coloniale in Libia, Etiopia ed Eritrea. Perdi la madre offre risorse e riflessioni di grande valore per le italiane nere che si stanno mobilitando affinché l’Italia riconosca il suo passato e il modo in cui esso si manifesta nel presente. Nel conquistare il proprio spazio e nel lottare per la propria visibilità, le storie ed esperienze degli afroitaliani trovano uno specchio in ciò che Saidiya Hartman scrive in Perdi la madre. Il laborioso percorso per l’affermazione dell’esistenza dei neri, per la creazione di significato e per la resistenza, è fondamentalmente relazionale e si sviluppa in una conversazione transnazionale. In questo momento in cui le italiane nere lavorano per articolare le specificità del razzismo anti-nero e delle politiche di appartenenza in Italia, Perdi la madre aiuterà a riaffermare il bisogno e la necessità di una maggiore solidarietà all’interno della diaspora nera, riconoscendo le storie e le lotte di coloro che l’hanno vissuta o la stanno vivendo.
A distanza di alcuni anni dalla sua prima pubblicazione, il messaggio di Perdi la madre risuona ancora in tutta la sua rilevanza, insistendo sull’importanza di conoscere storie non documentate o lasciate ai margini di storie più conosciute. Saidiya Hartman crea uno spazio per affermare complessità e incompletezza, lezioni di grande valore che trovano eco nei sentimenti di tutta la diaspora nera.
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