Imprese che decidono di smettere di crescere, cooperative che propongono l’auto-produzione e la manutenzione di macchinari a trazione lenta, comunità che censiscono utensili e macchine tradizionali in open-source, territori che si interrogano su come difendere biodiversità e agricoltura contadina dalle ossessioni della grande industria alimentare, tra lotte No Tav e orti biologici… Germogli di nuove comunità agricole
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Come possiamo proteggere, nelle comunità agricole, l’autonomia delle persone, cioè la capacità di decidere delle nostre vita e del nostro cibo, tramite la riappropriazione dei saperi e delle scelte tecniche? A fine maggio presso il Consorzio ortofrutticolo val di Gresta, in Trentino, si è svolto un incontro aperto con L’atelier paysan, nel quale si è riflettuto su esperienze e possibilità a rinforzo della piccola attività agricola. Un dibattito prezioso con cui raccontare e immaginare soluzioni per sottrarsi al potere della grande industria alimentare.
I rappresentanti della cooperativa, invitati in precedenza a Firenze da Genuino clandestino e a Verona dall’azienda agricola La folaga rossa per la presentazione del loro libro Liberare la terra dalle macchine, Manifesto per un’autonomia contadina e alimentare (Libreria editrice fiorentina), hanno fatto conoscere la loro realtà in provincia di Trento, presso il terreno No-tav in località Acquaviva, un presidio nato in opposizione al raddoppio della ferrovia del Brennero, e poi in val di Gresta, nota anche come “Distretto degli orti biologici”. I due esponenti hanno presenziato su invito del collettivo Terra e libertà in due ambiti diversi ma sovrapponibili: i cantieri della nuova ferrovia espropriano piccoli viticoltori, prosciugano sorgenti, inquinano territori e cancellano identità, mentre i contadini grestani resistono alle pressioni del mercato, mantenendo viva la biodiversità, la piccola produzione e i principi dell’agroecologia.
L’atelier paysan nasce nel 2004 dall’idea di dieci fondatori e ha oggi sede a Renage, nei pressi di Grenoble. Conta duecentocinquanta soci, agricoltori e non, e ha un giro d’affari di due milioni all’anno. “Abbiamo ormai deciso di smettere di crescere economicamente” racconta Hugo. L’azione del gruppo punta a promuovere l’autonomia contadina su larga scala, in aperta opposizione all’evoluzione tecnologica dell’industria alimentare che da decenni impone ricette facendole passare come “necessariamente irrinunciabili” anche di fronte al miliardo di affamati nel mondo, ai sedici milioni di francesi in stato di precarietà alimentare, a studenti e agricoltori che si rivolgono ai banchi di aiuto. Stando ai dati sulla malnutrizione si può concludere che “l’industria ha tradito le promesse”. E ora che le risposte di tecnocrati e politici alla crisi alimentare e ambientale si ostinano a poggiare su pilastri quali tecnologia, digitalizzazione e biotecnologia verso accentramento e sostituzione di mano d’opera, i soci dell’atelier sviluppano strumenti che puntano all’autonomia tecnica e tecnologica.
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“La macchina standard non esiste” sentenzia Hugo. Specie in territori alpini come Grenoble e la val di Gresta “il macchinario deve essere flessibile” per garantire adattabilità funzionale alla biodiversità. Si legge nel Manifesto che nelle loro
“macchine […] la scienza contenuta è empirica (e) l’ottimizzazione, la regolazione e il funzionamento […] si basano sui sensi, sulla conoscenza quasi carnale che unisce il contadino alla sua terra”.
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A fronte di “macchine sempre più ad alta tecnologia” per le quali poche aziende costruttrici esercitano un tacito ed effettivo oligopolio, la cooperativa propone formazioni, sussidiate e anche a domicilio, per l’auto-produzione di macchinari, la loro manutenzione, riparazione e modifica. Le macchine, a motore o a trazione lenta, sono poi sottoposte ad auto-certificazione e quindi assicurabili senza aggirare il sistema delle certificazioni europee. Un esempio quindi possibile anche in Italia laddove si elabori il modo di rimanere in equilibrio nei pertugi lasciati dai regolamenti più diffusi.
Oltre a una sostanziale collettivizzazione dei mezzi di produzione (strumenti e progetti sono sotto libera licenza Creative Commons) L’Atelier paysan propone un rovesciamento di senso della proprietà intellettuale: il brevetto, da esclusivo e accentratore diviene comunitario e sviluppabile. “In un momento in cui i contadini spariscono e con loro non si tramanda più il savoir faire” l’atelier si contrappone con un lavoro di “retroingegneria” per cui utensili e macchine della tradizione sono censiti e brevettati in open-source “di modo che nessuno possa impedire a qualcuno di utilizzarli” e aggiorna l’Osservatorio sulle tecnologie promosse dai grandi gruppi. Tutte le pubblicazioni sono accessibili sul loro sito o su richiesta.
Gli spettatori considerano senza sbalzi la vivace argomentazione di Hugo. “In un momento in cui l’agro-industria si adopera attorno a robotica e big-data per rimpiazzare i cervelli”, chi ascolta dà l’impressione di saper considerare scenari distopici. Il dibattito è però riportato lucidamente al proposito di “difendere l’autonomia attraverso la riappropriazione dei saperi e delle scelte tecniche, della capacità di decidere delle nostre vite e del nostro lavoro” contro un paradigma che premia la grande capacità di investimento rendendo gli input in agricoltura veri strumenti politici “che non sono scelti dagli agricoltori ma sono imposti” da rapporti di forza preesistenti che vengono perpetuati e rafforzati, come già avvenuto durante la costruzione del consenso attorno a pesticidi e concimi e come sta avvenendo con il parametro di assegnazione dei contributi per ettaro proprio della Politica agricola comune.
La val di Gresta è un territorio la cui economia è basata su piccole aziende e laboratori artigianali. I prodotti derivano per l’80 per cento dal metodo biologico in campi che si integrano a scorci di paesaggio di rara bellezza arricchiti da muretti a secco e terrazzamenti. La biodiversità è conseguenza della varietà climatica condizionata dall’Ora del Garda, un vento mite, e dal suo “dialogo” con dislivelli e vegetazione. Biodiversità che è protetta e valorizzata dagli abitanti anche con una spinta verso un’innovazione dei processi produttivi lenta, ben pensata e costante. I prodotti della Valle si trovano nel mercato nazionale e servono quello di prossimità; occorre perciò “adeguarsi agli standard per crescere e sopravvivere” chiarisce B., operatore agricolo “sappiamo però farlo con metodi sostenibili”.
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Lo sviluppo delle potenzialità del territorio grestano ha trovato argini nella burocrazia e nel sistema degli appalti. Eppure il loro sviluppo potrebbe rinforzarne il tessuto sociale, difenderlo dallo spopolamento, fungere da attrattiva per progetti sociali, contro la progressiva perdita di saperi e competenze e a favore di una risposta “alle pressioni della monocoltura dell’uva e dei suoi compratori di terreni” chiarisce G., titolare d’impresa, “invogliati a spostare il baricentro dei propri interessi verso altitudini maggiori a causa del clima che cambia”.
Ancora dalle pagine del Manifesto:
“Autonomia significa rottura della mentalità semplificatrice, per tornare a un sapere complesso, vivo e collettivo”.
Non è forse un caso che in Valle si sia assistito a tentativi di creazione di comunità agricole, andati a infrangersi contro un destino comune a tante esperienze simili, ma di cui rimane il testimone.
Semplicemente stupendo, creatore di speranza e assolutamente fattibile umano e uanizzante
io sono un’artista orafa -ormai ultrasettantenne e sto verificando nel mio territorio una storia parallela di perdita di saperi e di storia determinata dalla tecnologia….. Il vostro esempio mi conforta
e mi aiuta ad immaginare scenari alternativi