Il governo taglia i fondi già esigui destinati al teatro pubblico, colpendo in particolare chi ha cercato di dare spazio a nuovi linguaggi e nuove generazioni teatrali. La cultura come momento di aggregazione e di pensiero critico non va alimentata
Il teatro pubblico nell’epoca meloniana sembra essersi avviato in una spirale di decadenza senza precedenti. Se questa mutazione è stata possibile in tempi così rapidi è anche grazie alla marginalità del settore. Ecco alcuni segnali che ci dicono che il teatro, in Italia, non conta nulla:
1. Hanno appena tagliato un milione e seicentomila euro al teatro pubblico nel suo complesso, tra nazionali e tric, e nessuno ha detto nulla. Né a livello istituzionale, né a livello politico, né a livello del pubblico, della società civile, del mondo degli artisti e delle artiste. Il taglio arriva in un momento di grande fragilità del settore, finanziato da un fondo – il fus – che per il 70% viene assorbito dalla lirica (lunga vita alla lirica, ci mancherebbe, ma la priorità tra conservazione e innovazione in questo paese è evidente)
2. Su Repubblica un articolo di Sara Chiappori racconta del tentativo di commissariamento del Piccolo Teatro, che nelle ultime stagioni ha realizzato i programmi di maggior qualità registrando allo stesso tempo un successo in termini di numeri. La riconferma del direttore Claudio Longhi sarebbe scontata in un paese normale, scrive Chiappori; ma l’Italia non è un paese normale. Non potendo silurare il direttore, l’ipotesi è quella di farlo affiancare da una nuova figura apicale (vacante dai tempi di Strehler) che assorbirà risorse, secondo il modello infausto inaugurato a Roma dall’amministrazione Gualtieri, un insuccesso palese che è stato sbandierato come un grande esito politico. Risultato: meno soldi agli artisti in un momento di grande sofferenza, più soldi alle figure di nomina politica, secondo una logica di spartizione (della torta) bipartisan. Complimenti al Pd per il risultato.
3. Nel frattempo il direttore di un teatro nazionale viene messo a capo della commissione che seleziona il direttore di un tric (soggetto con cui può coprodurre), profilando un conflitto di interesse che se pure formalmente non fosse tale dal punto di vista legale lo resterebbe dal punto di vista sostanziale. Anche qui nessuna voce, politica, artistica, civile riesce a dire nulla che abbia un’eco pubblica.
4. A capo del suddetto tric viene scelta una persona che è stata protagonista della stagione fallimentare di un altro teatro pubblico, che ha portato a un pignoramento dei beni dell’ente (unico caso in Italia). Normalmente per le direzioni dei teatri pubblici vengono richiesti ai candidati un’esperienza di direzione di almeno cinque anni di un ente simile: questa norma dovrebbe tutelare l’ente da gestioni inesperte o dissennate. Evidentemente l’esito concreto in termini di successo o insuccesso amministrativo di quegli anni pregressi non contano, trasformando così la suddetta norma nel collo di bottiglia di un club esclusivo dove si entra solo su invito: per diventare direttore (quasi sempre maschio) devi già essere direttore, in una partita di giro he interessa 20/30 persone in tutta Italia. Venti-trenta persone sempre più anziane.
5. Torniamo ai tagli: alcuni teatri ne sono stati esentati, altri sono stati colpiti pesantemente. Tra questi quasi tutti gli enti che nelle passate stagioni hanno presentato cartelloni di qualità, cercando di dare spazio a nuovi linguaggi e nuove generazioni teatrali (con pochissime eccezioni). I teatri che hanno presentato i cartelloni peggiori a detta di molti operatori – e cioè le stagioni meno coraggiose, che si poggiano su nomi famosi in altri settori, con allestimenti e modelli recitativi vetusti – sono stati quasi tutti risparmiati (con qualche eccezione). Sembra di ritrovarsi in un mondo capovolto, come il Gelsomino di Gianni Rodari che capita in un mondo dove si dicono le bugie per decreto, e per omaggiare il tenore che si esibisce sul palco occorre chiamarlo “cane tra i cani”.
6. In nessuno dei casi sopra menzionati si è riusciti davvero a creare un dibattito pubblico, a dimostrazione della marginalità del settore, un contesto in cui tutto può essere riscritto a piacimento.
Ora, che al mutare dei governi possano esserci rinnovamenti negli enti culturali è un fatto che, se gestito con oculatezza, potrebbe pure far parte di una sana rigenerazione del settore. Due cose, tuttavia, non dovrebbero mai essere impattate dallo spoil system, se non si vuole entrare in una spirale degenerativa anziché rigenerativa: la qualità dei progetti artistici; la continuità per i lavoratori del settore, già provati da una precarietà feroce. I segnali fin qui elencati non promettono per niente bene. L’orientamento sembra essere quello di un centralismo feroce, anziano, provinciale, che parrebbe voler negare per decreto la storicità dei territori e degli artisti che li abitano da anni, impermeabile ai dibattiti e alle estetiche che sono al centro del teatro europeo.
Fiorella Palomba dice
Il Piccolo Teatro di Milano, insieme al Teatro alla Scala (quando ero piccola con mio padre) e alla Palazzina Liberty è stato la mia casa nella mia giovinezza.
Noi avevamo una famiglia colta e frequentavano teatri e cinema d’essai.
Che cosa dobbiamo aspettarci fa fascisti ignoranti??!!🌸