“Lei che è una così acuta osservatrice dovrebbe sapere che i gatti non conoscono antagonismi assoluti, solo relativi e situazionali. Non concepiscono nemici, solo prede. E, se hanno concorrenti o presenze ostili, per lo più scelgono la fuga o la manovra obliqua: attaccano solo quando non c’è altro da fare…”. La nonviolenza, la com-passione e i contenuti della vita che trascendono le forme storiche in un breve e fantasioso dialogo su certi insegnamenti nella gestione del conflitto che chiunque abbia occhi per guardare farebbe assai bene a non trascurare

Non sono in grado di definire compiutamente la nonviolenza né di spiegare ad altre/i, a sufficienza, come essa vada intesa e praticata. È faccenda troppo complicata e scivolosa, intrico che alimenta paradossi.
Ci sono guerrafondai che si proclamano nonviolenti. Veterane/i e neofite/i della nonviolenza che votano per i crediti di guerra. Nonviolente/i da sempre che son solite/i cibarsi della carne di creature torturate e uccise atrocemente. Vi sono anche cantori della violenza degli oppressi che non farebbero male ad una mosca. E ci sono quelle/i dell’ultima ora: piccoli tattici della nonviolenza, ma ostentata come dottrina, che abitualmente praticano mimesi e metafore feticistiche della guerra.
Lo so, ci sono anche vere/i maestre/i e testimoni di nonviolenza, insigni e rispettabili. Esse ed essi mi hanno insegnato molte cose ma non hanno sciolto del tutto i miei dubbi. Preferisco allora usare questi termini: forse, “quella cosa lì” è un processo che esige, prima di tutto, empatia e com-passione, senso dell’uguaglianza e della giustizia; esercitandoli si può apprendere a sublimare i conflitti.
Detta così, può suonare approssimativa e banale. Perciò provo a esprimermi col frammento di un mio racconto, al quale do questo titolo:
Dialogo fra un anarchico e una gattara.
Talvolta mi soffermavo a riflettere se ciò che io chiamavo scetticismo non fosse la vera matrice di quella certa attitudine alla compassione che attribuivo ai gatti di strada. Non avevo risposte, solo la consapevolezza che le mie analisi alla buona erano in qualche misura il frutto delle mie proiezioni. Uno dei pochissimi con i quali potevo parlarne senza timore di essere compatita come una demente era il signor Errico, l’anarchico, che volentieri si poneva in sintonia con le mie meditazioni gattesche.
«Cara signora, ciò che lei chiama compassione – sì, lo so, lei l’intende in senso etimologico, come com-passione – non è altro che prossimità alle radici e alle ragioni dell’esistenza vitale. I gatti hanno la capacità di riconoscere quando un’esperienza si è compiuta, che sia la nascita o la morte. Sono vicini all’essenza della vita e dunque sanno cogliere il senso ultimo delle cose.
Sì, certo, “essenza” è un termine inappropriato, non mi fraintenda: non parlo di metafisica e neanche di pura e semplice biologia, semmai di quei contenuti vitali che trascendono le forme storiche».
Allorché una volta la conversazione cadde sul luogo comune che attribuisce ai gatti una speciale aggressività, il signor Errico osò esprimere un pensiero che io avevo sempre tenuto per me stessa.
«Lei che è una così acuta osservatrice dovrebbe sapere che i gatti non conoscono antagonismi assoluti, solo relativi e situazionali. Non concepiscono nemici, solo prede. E, se hanno concorrenti o presenze ostili, per lo più scelgono la fuga o la manovra obliqua: attaccano solo quando non c’è altro da fare.
Osservi dei maschi adulti non castrati: si renderà conto di quanto i loro conflitti, per una femmina o un territorio, siano stilizzati al massimo. Vede? Ho detto “territorio”: ancora una volta sono inciampato in una parola impropria! Anch’io sono vittima di luoghi comuni: solo gli umani possono concepire dei territori, cioè degli spazi circoscritti da confini fissi e lineari, spesso blindati e sorvegliati con le armi.
Le sembra che i gatti si muovano nello spazio come fosse un territorio? Mi perdoni, dunque: volevo dire che il loro azzuffarsi non è altro che una pantomima fatta di avvicinamenti e allontanamenti, strusciamenti di muso e rapide ritirate, insomma di segnali – starei per dire simboli – per stilizzare e sublimare il conflitto.
Se assumessimo i gatti come nostri maestri, ci renderemmo conto fino in fondo che i conflitti armati degli umani, per non parlare dell’innovazione delle guerre preventive e permanenti, appartengono alla pura follia, una follia innaturale: altro che istinto della specie! È per istinto che si può concepire e praticare un ossimoro orrendo come la guerra umanitaria?
Ascoltai in silenzio. Non era il caso di replicare: per quanto il signor Errico fosse enfatico, per quanto si beasse come sempre delle sue parole, questa volta era come se a parlare fossi stata io.
Da “Tellusfolio.it”, 1° ottobre 2008
Molto interessante,come sempre, l’articolo di Anna Maria Rivera. Il colloquio, che molto mi intriga, tra la gattara marxista e il riflessivo anarchico rompe stereotipi e dogmi. Esso mette al centro comportamenti, propensioni,valori. In tempi cupi di guerre, bellicismo, alienazioni, passivizzazioni, la riflessione di Anna Maria Rivera è vita
Molto interessanti sì ma la biologia felina (perchè il gatto è solo un piccolo ghepardo) ci insegna (se non vogliamo essere anche no-biology) che il gatto è territoriale come orban et similia cioè se un altro gatto prova a stanziarsi in zona sua sono botte da orbi e a volte anche con esiti letali.
Il gatto ha tanti pregi, e uno fra questi è certamente l’intolleranza verso i simili molesti.
Chiunque abbia osservato dei gatti in una situazione semiselvatica, in un territorio ibrido tra il domestico e il selvatico non può non essere d’accordo. E’ proprio così e viene davvero voglia di assumere i gatti come maestri nelle arti del gioco, della condivisione e della risoluzione dei conflitti. Mi fa sempre un grande piacere quando vedo, oltre la figura dell’antropologa/o fare capolino quelle dell’anarchica/o o della gattara/o, grazie Annamaria
Ho letto con attenzione l’articolo di Annamaria, come sempre puntuale e stimolante. Ho trovato molto interessante il dialogo fra “l’anarchico e la gattara”, entrambi in sintonia sulle ragioni dell’esistenza. Ed ho riflettuto sul come i gatti considerano l’essere umano un referente sociale, al punto di usare le sue reazioni emotive, per valutare situazioni familiari e adeguarsi di conseguenza. Le loro capacità socio cognitive, spesso sfuggono agli umani e su questo dovremmo riflettere.
Assai profondo e illuminante. Mi ha colpito molto un aspetto forse minimo e marginale, racchiuso in questo passaggio: “…I gatti hanno la capacità di riconoscere quando un’esperienza si è compiuta, che sia la nascita o la morte…” Vorrei averne anch’io, e vorrei che le società storiche (gruppi, movimenti, associazioni, popoli) ne avessero. Come fare, non so. Schivare i colpi, non colpire/non punire (anche la giustizia è una forma terribile di violenza mascherata, anche la giustizia più giusta), provare a difendere più la propria “aura”, direi, che il proprio “territorio”. In questa difesa può scattare, però, la reazione violenta e inaspettata (“Cane di paglia” di Peckinpah?), oltremisura (mi è capitato, incapace di trattenermi, di limitarmi). Nella politica classica la diplomazia poteva svolgere un ruolo fondamentale e, in parte, lo ha effettivamente svolto: attenuando, smussando, concedendo senza cedere, trovando soluzioni mitigate [o mitigatte?] Ora proprio lo schermo della diplomazia è venuto meno e ministri buffoni si lanciano ferocie che ricadono sulle teste e le schiene dei popoli, come schegge di vetrate o di volte centrate da un missile. Cosa farebbe oggi un gatto in Ucraina, magari uno di quelli di Bulgakov, felicemente diabolici, e non di quei poveretti vittime di guerra (di fame, di scoppi, di furia umana)? Questa guerra, più delle altre, ci mette di fronte alla fine dei tentativi di due secoli di storia (con il prologo di Sarajevo e Baghdad). “…Sia il multipolarismo che l’unipolarismo rischiano di trasformare in reale la guerra possibile. Il ’91 spiega l’ ’89. La edificazione della guerra del Golfo è la verità del crollo del Muro di Berlino (…) Tornano infatti in auge le teorie sulla guerra limitata e perfino quelle sulla guerra nucleare limitata (…) Se la politica non diventa presto, lucidamente e contraddittoriamente, continuazione della guerra, la guerra continuerà ad essere sempre continuazione della politica…” (Mario Tronti, pag. 97 in “Con le spalle al futuro. Per un altro dizionario politico”, 1992). Grazie, Annamaria, articolo ricco di vita e di spunti, come sempre! Un abbraccio
Grazie Annamaria, come sempre, apri percorsi di riflessione che, dettati anche da un sentimento delle cose attento alla sfera della soggettività non umana, hanno il grandissimo merito di scovare la profondità attraverso l’osservazione minuta delle piccole cose. In tempi di guerra, tra umani, ma anche contro il pianeta e le altre specie che ci vivono, sono parole più che mai preziose.
Versione francese
L’anar et la gattara
https://tlaxcala-int.blogspot.com/2023/09/annamaria-rivera-lanar-et-la-gattara.html
Grazie Annamaria di questa suggestiva narrazione meditativa.
Leggendo questa descrizione dei gatti – che hanno il pregio di essere gli unici animali “domestici” a frequentare “liberamente” gli spazi aperti – magari lasciando comodi appartamenti dove sono “il gatto di casa” per fare le loro scorribande in giro – mi è tornato in mente il libro “Il lupo e il filosofo” di Mark Rowlands, in cui racconta la sua vita con un lupo adottato da cucciolo in Colorado. Forse tutti gli animali domestici che riescono a sfuggire a una eccessiva “antropizzazione” mantengono questo speciale contatto con la nascita e la morte, quest’ultima esperienza in particolare affrontata nel libro del filofoso Rowlands. Grazie Annamaria! Evviva i gatti anarchici!